Di Bernardino da Siena non conosciamo la voce, di David Maria Turoldo invece sì. Era impetuosa e misteriosamente calma, come si addice a un profeta. La cadenza friulana risaltava sull’eco di un’altra melodia, quella della parlata bergamasca assimilata nei lunghi anni di soggiorno a Sotto il Monte, la piccola Betlemme di Giovanni XXIII dove Turoldo aveva stabilito la propria dimora al termine di un’erranza non sempre volontaria. Ma anche prima, nella contraddittoria primavera degli anni Sessanta, era anzitutto la sua voce che i milanesi di ogni condizione e convinzione andavano a cercare nella chiesa di San Carlo al Corso: le parole dell’omelia contavano, contava la sapienza poetica messa al servizio delle Scritture. Alla fine, però, era la voce a restare impressa nella memoria.
Turoldo non era ignaro di questo potere. Sempre in anticipo sui tempi, aveva personalmente curato la registrazione di quelli che oggi si chiamerebbero “audiolibri” e che allora erano semplicemente audiocassette nelle quali il poeta leggeva e commentava i propri versi, con una predilezione spiccata – e tutt’altro che imprevedibile – per la figura di Maria. Il cofanetto è tornato disponibile qualche anno fa in cd, su iniziativa di Morcelliana: per farsi un’idea si può comunque recuperare in rete qualche momento di quelle registrazioni. Sempre dal web riaffiorano frammenti di interventi pubblici e spezzoni di interviste, memorabile fra tutte quella rilasciata a Sergio Zavoli nel 1992, ormai alla vigilia della morte: «Possiamo anche accettare il male» diceva Turoldo con voce ancora sicura, «ma accettare il dolore è una cosa veramente eroica, perché il dolore è disumano».
L’uomo, l’umanità, l’Incarnazione. Sono questi i temi portanti di un’avventura personale e spirituale che ha nella voce – il più impalpabile fra i segni materiali, la più materiale tra le manifestazioni dell’impalpabile – il suo tratto distintivo. Sorretta dalla trama invisibile delle onde sonore, la voce può essere misurata, anche se nessuna unità di misura riesce a contenerla. È l’intonazione profonda della quale ogni scrittore va in cerca, come ha spiegato Al Alvarez in un saggio di straordinaria intelligenza (The Writer’s Voice, 2005) ed è, nello stesso tempo, il richiamo che tiene sveglio Samuele nella notte memorabile in cui il ragazzo crede di essere interpellato dal sommo sacerdote Eli, di cui si è messo al servizio, mentre è il Signore stesso a reclamarlo per sé. La voce che Mosè incontra nel roveto ardente, la voce dell’Amato nel Cantico dei Cantici, la voce che grida nel deserto e che permette al Battista di rivendicare la sua condizione di ultimo tra i profeti, erede di Elia e precursore del Cristo. Tutta la Bibbia potrebbe essere riletta mettendosi in ascolto di questo coro inesauribile, all’interno del quale le voci si intrecciano e si disperdono per poi tornare a comporre un’armonia altrimenti impossibile.
Ma non ci sono registrazioni di Ezechiele, come non ce ne sono di Bernardino da Siena o di Girolamo Savonarola, di Bossuet e degli altri grandi predicatori di cui la tradizione ci ha tramandato i nomi e le opere. Anche in questo caso l’elenco si interrompe abbastanza bruscamente con la solenne sezione omiletica che James Joyce incorpora nel suo Ritratto dell’artista da giovane (1916), alle soglie di quell’era della riproducibilità tecnica grazie alla quale resteranno per sempre nostre contemporanee le voci di don Primo Mazzolari e di don Tonino Bello, di padre Ernesto Balducci e dello stesso Giovanni XXIII. Non mancano, in questa biblioteca sonora, le lacune anche dolorose. Delle lezioni e degli interventi di don Lorenzo Milani, per esempio, molto è andato perduto, circostanza che rende tanto più preziosi i rari documenti superstiti. Nessuno di questi testimoni, in ogni caso, ha dimostrato per la propria voce l’attenzione e la cura che furono proprie di Turoldo, in una dimensione che è nello stesso tempo di purezza e di istrionismo, di evangelica semplicità e di ben studiato effetto teatrale.
Insieme con la poesia, la direttrice del teatro – intesa come condivisione rituale, non come messinscena – è quella che in modo più riconoscibile attraversa un’esperienza che, con il passare del tempo, assume una sempre maggiore e sempre meglio circostanziata complessità. Ed è ancora la voce, in definitiva, ad accomunare teatro e poesia fino a farli confluire nell’azione liturgica. In Turoldo tutto è offerto e, di conseguenza, tutto deve essere predisposto, preparato. Un’intenzionalità del gesto e della parola che non esclude e anzi prevede l’urgenza dell’improvvisazione, che adesso ci viene restituita dagli appunti trascritti nei primi anni Sessanta dal confratello Carlo Santunione. Siamo nel periodo in cui Turoldo tenta la strada del cinema, coerente anche in questo con l’atteggiamento di molti intellettuali dell’epoca. Il riferimento più immediato riguarda un altro grande friulano, Pier Paolo Pasolini, il cui esordio alla regia con Accattone, nel 1961, precede di appena due anni l’esperimento di Gli ultimi, del quale però Turoldo firma solo il soggetto, affidandone la realizzazione a Vito Pandolfi. Ma il cinema di Turoldo (meglio: l’idea di cinema alla quale Turoldo si ispira) va inserita in un contesto ancora più vasto, che troverà la sua compiuta espressione quindici anni più tardi, nel 1978, con L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Il quale, non a caso, è un uomo di cinema che adopera spesso gli strumenti della letteratura, proprio come Pasolini e Turoldo erano poeti che adoperavano, o intendevano adoperare, gli strumenti del cinema.
Come sia andata è lo stesso Santunione a raccontarlo nella breve nota premessa a questi inediti: il giovane servita allestisce per Turoldo il dattiloscritto che farà da sceneggiatura per Gli ultimi e Turoldo si sdebita con i suggerimenti per le omelie domenicali. Non si tratta di testi rivisti dall’autore, dunque, ma di materiali grezzi che, proprio per questo, conservano intatta l’eco di quella voce sulla quale abbiamo tanto insistito. Si potrebbero ricordare i Tischreden di Lutero, i “discorsi a tavola” raccolti e riordinati dal Mathesius, ma il paragone non sarebbe del tutto adatto: lì il Riformatore era colto nella sua pur austera quotidianità, qui Turoldo sta comunque parlando con la consapevolezza del fatto che, in ultima istanza, le sue parole andranno pronunciate davanti all’assemblea liturgica.
L’analogia più illuminante – e che aiuta a comprendere come mai queste annotazioni vengano rese pubbliche proprio oggi – è semmai con le omelie di Santa Marta, ormai considerate come parte integrante del magistero di papa Francesco, se non addirittura come il versante più vivo e accessibile dell’insegnamento di Bergoglio. A suggerire questa continuità non è soltanto l’elemento, tutt’altro che esteriore, di un’oralità intenzionalmente perseguita, ma anche un intreccio fittissimo di consonanze interiori.
Un caso solo, fra i tanti che si potrebbero indicare: in occasione della festa della Sacra Famiglia, Turoldo mette in primo piano «il problema della casa, dei rapporti umani». Parte da uno spunto che sembrerebbe meramente sociologico (siamo nel 1962, anno cruciale per il dibattito sull’edilizia popolare in Italia), ma subito allarga la prospettiva, lasciando intendere che la casa stessa ha senso solo in quanto luogo degli affetti e delle relazioni. Subito dopo, però. Turoldo se la prende con l’ossessione verghiana per la «roba», con la smania di possesso che rende impossibile i «rapporti umani» e sottrae così la famiglia alla sua vocazione più profonda, di proiezione «verso l’esterno, l’infinito». Un percorso che trova la sua sintesi, a oltre mezzo secolo di distanza, in questo passaggio dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia: «La mancanza di una abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione. Occorre ricordare che “la famiglia ha il diritto a un’abitazione decente, adatta per la vita della famiglia e proporzionata al numero dei membri, in un ambiente che provveda i servizi di base per la vita della famiglia e della comunità” [così l’articolo 11 della Carta dei diritti della famiglia approvata dal Pontificio Consiglio per la Famiglia nel 1983, ndr]. Una famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda. Questo esempio mostra che dobbiamo insistere sui diritti della famiglia, e non solo sui diritti individuali» (n. 44).
Il piccolo libro che state per leggere è dunque la Santa Marta di Turoldo. Per la sua origine e più ancora per il suo contenuto, per il suo scegliere “gli ultimi” (gli “scarti”, direbbe papa Francesco) come i destinatari autentici dell’annuncio evangelico. «Tutti sono chiamati. Non c’è un monopolio della grazia. Sempre sorprese dolci», osserva Turoldo. E ancora: «Il clima dell’ambiente del nostro colloquio si è fatto pesante, pregno di segreti, di interrogativi, di misteri, di realtà – di consolanti realtà. Vogliamo uscire a prendere una boccata d’aria? Felicissima idea! Ci alziamo e andiamo incontro al bello delle cose…».
Il bello delle cose: forse il programma della “Chiesa in uscita” non è mai stato formulato con altrettanto chiarezza. Con le parole esatte di un poeta, con l’immediatezza di una sacra rappresentazione, con la voce limpida di un profeta.
Il testo qui riprodotto è la Prefazione firmata da Alessandro Zaccuri al volume di David Maria Turoldo, Le stelle in cammino, EDB, Bologna 2017 (qui la scheda del volume).