Schietta, diretta, briosa. Così è l’ultima lettera pastorale che il vescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, ha inviato alla diocesi. Datata 14 settembre 2017, essa reca come titolo La parrocchia. Chiesa pellegrina tra le case.
Bisognerebbe presentarla seguendone la traccia, ma al lettore rimarranno particolarmente impresse le pagine in cui il vescovo enumera “I medicinali della carità” come antidoto a sette patologie che possono colpire le comunità parrocchiali. Iniziamo proprio da queste.
Le sette patologie
- La maldicenza acuta, dettata da invidie, da gelosie, dal desiderio di emergere arrivando magari alla calunnia. «La parola di Dio – ricorda il vescovo – mette in guardia da un uso bellico della lingua», mentre l’eucaristia è «azione di grazie» e «non è mai maledizione contro qualcuno». E si domanda: «Come si potrebbe partecipare alla messa e poi riempirsi la bocca di maldicenze e chiacchiericcio?». Perché, invece, non praticare «il metodo della correzione fraterna»?
- La lamentosi cronica, che «consiste nella tendenza a parlare sempre di ciò che non funziona, di quello che dovrebbero fare gli altri e non fanno, di tutto quello che manca e che dovrebbe esserci», è la seconda malattia parrocchiale segnalata dal vescovo Erio. Il cristiano è chiamato alla lode e non alla lamentazione “cronica”. Da notare poi che «una comunità lamentosa, per quanto organizzata, non attira nessuno e, anzi, allontana».
- La terza patologia si chiama emiparesi parrocchiale. Essa si manifesta quando il tradizionalismo (il “si è sempre fatto così”) diventa più importante della tradizione. Anche i metodi sperimentati e le esperienze pastorali collaudate devono essere sottoposti a verifica, perché «a volte il mantenimento di forme del passato, anziché rispettare l’ispirazione originaria, la tradisce».
- E che dire del perfettismo paranoico? C’è chi vorrebbe la comunità perfetta. Realisticamente, il vescovo Erio scrive: «Nella celebrazione eucaristica è presente la comunità così com’è, non la comunità perfetta… le comunità cristiane sono percorse da difetti». Il rimedio? Attivare la misericordia, riscoprire la grandezza del perdono, consapevoli che «il perdono non si confeziona nella farmacia del proprio cuore… ma lo si impara da Dio».
- Arriviamo alla calcolosi comunitaria. Di che si tratta? È la valutazione della vita parrocchiale «sulla base della sola quantità»: numero di persone, attività svolte, somme guadagnate… «Seminare è più importante che raccogliere», ammonisce il vescovo. E conclude: «Occorre superare l’ansia dei numeri: l’espressione dell’amarezza per il fatto che si è in pochi diventa spesso un incentivo ad andarsene anche per quei pochi».
- Anche contro l’attivismo ansiogeno è necessario un farmaco. Viviamo in un contesto in cui si respira «la tensione verso le prestazioni», con il risultato che «l’attività aumenta l’affanno e l’affanno aumenta l’attività». Un circolo vizioso che fa dimenticare l’azione benefica dell’eucaristia, che «è pura gratuità, celebrazione, gioia di stare insieme, contemplazione… non produce mai ansia». Gesù – ricorda il vescovo Erio – «biasima non il servizio, ma l’affanno di Marta».
- L’ultimo rimedio invocato è contro la miopia pastorale. «patologia oculare che consente di mettere fuoco da vicino, ma rende sfocata la vista di persone e cose lontane». Qui il vescovo la prende alla lontana, perché vuol portare le parrocchie a riflettere e ad accettare alcune scelte anche dolorose (le illustrerà nel dettaglio nell’ultima parte della lettera pastorale). Intanto cita l’acronimo inglese NIMBY (Not In My Back Yard = Non nel mio giardino), pensando a quei cristiani che ritengono sì giusti alcuni cambiamenti ma che «si oppongono alla loro applicazioni per loro stessi, in quanto richiedono un sacrificio». «La parrocchia pellegrina – ecco la medicina proposta dal vescovo di Modena-Nonatola – è il contrario della parrocchia NIMBY, cioè si mette in cammino con coraggio e progettualità invece che difendere il proprio cortile con paura e spirito conservativo».
La parrocchia
L’elenco delle sette patologie, che potrebbe sembrare una trovata originale, in realtà risponde e completa anche la prima e la terza parte della lettera pastorale. Basta citare alcune frasi.
Nella prima parte, il vescovo Erio riflette sulla parrocchia, sul suo nascere dalla Parola e dall’eucaristia, sulla sua validità e funzione, sul suo essere “una grande famiglia” o “famiglia di famiglie”. Ma essa è anche “pellegrinaggio”, cioè «cammino e movimento» e il rischio che corre è «sedersi, sistemarsi, fermarsi».
Di fronte poi a comunità parrocchiali delle periferie del mondo (incontrate dal vescovo), che vivono l’essenziale, cioè la Parola, i sacramenti e la carità, risultano «ridicole certe zuffe che a volte, tra di noi, risucchiano energie e passioni» per la gestione di spazi e strutture, per la divisione delle competenze, per lo spostamento/riduzione delle messe, per l’organizzazione delle iniziative parrocchiali… Così come sono da rifuggire «le muffe del ritualismo e dell’improvvisazione».
Lo stile comunitario
Nella comunità non tutti hanno lo stesso passo. Occorrono accoglienza, accompagnamento graduale, prossimità, «prendere il passo di chi più fatica e di chi è deluso». «Una Chiesa che si presenta come “famiglia” può attrarre e interessare anche quelli che ne sono stati lontani per i motivi più disparati», così come «un’accoglienza paziente può mettere in moto processi di riavvicinamento inattesi e sorprendenti».
Un pericolo incombe: pensare la comunità come un’azienda, «dove conta più organizzare delle cose che incontrare delle persone». Una Chiesa-azienda non è appetibile per nessuno, mentre «la cura delle relazioni può sfondare il muro dell’indifferenza e incontrare quel germe di interesse che spesso si annida nel cuore delle persone».
Un’importante verifica della carità presente in una comunità parrocchiale è l’attenzione agli emarginati, chi diventa «una delle esperienze più “provocatorie” per chi si sente lontano dalla pratica ecclesiale». Spesso – annota il vescovo – si dice che la Chiesa “arriva dopo”; non nel campo della carità, dove spesso “arriva prima”. Ma non basta quello che si sta facendo. Occorre una «coraggiosa apertura ad esperienze nuove, specialmente verso quelle povertà che non sono ancora divenute oggetto di cura comune», vedi il fenomeno delle migrazioni «che spesso provoca tensioni e spaccature nelle comunità civili e all’interno delle parrocchie stesse».
La parrocchia ha bisogno dell’energia di tanti che diventino “corresponsabili”. Il prete non può più ragionare in termini di “accentramento” o di “delega”. Bisogna passare decisamente ad una “prassi di corresponsabilità”.
Le strutture
Eccoci all’ultima parte della lettera pastorale: le strutture. Vanno rilanciati in maniera corretta i consigli pastorali parrocchiali e quelli degli affari economici, dove c’è bisogno di praticare “l’ecclesiologia di comunione sinodale”, il discernimento comunitario e la corresponsabilità.
I beni immobili che appartengono alla Chiesa «devono essere utilizzati in maniera conforme alle finalità pastorali: evangelizzazione, culto e carità».
Il vescovo detta anche alcune regole per la corretta gestione delle risorse materiali: conoscere la provenienza di quei beni, utilizzarli in modo da creare posti di lavoro, l’obbligo della trasparenza, evitare gli sprechi e il lusso, agire nella piena legalità.
Le ultime pagine trattano della riorganizzazione territoriale delle parrocchie. Questo riordino (il testo riporta la futura fisionomia dei vicariati) inizierà concretamente nel 2019 e sarà guidato da alcuni criteri.
Quando una parrocchia si può chiamare tale e potrà quindi sopravvivere? Quando non vive solo della messa domenicale, ma cresce attorno alla parola di Dio, alla liturgia e alla testimonianza della carità.
Le parrocchie non potranno più contare solo sulla presenza e sull’attività dei presbiteri, dato il loro numero sempre più esiguo e l’età; bisogna «fare spazio a servizi, carismi e ministeri che esprimono la corresponsabilità dei laici nella Chiesa».
Il programma è corposo, le indicazioni sono chiare. Le mete proposte sono raggiungibili solo attraverso un cammino e uno stile sinodale.
«È utile riflettere – scrive il vescovo – sulla possibilità, in alcuni casi, di stabilire nelle parrocchie o ex parrocchie senza parroco residente dei diaconi o dei laici-referenti, possibilmente famiglie o piccoli gruppi, che tengano vivo il senso di appartenenza alla comunità più ampia e favoriscano la convergenza verso di essa».
La riorganizzazione territoriale delle parrocchie terrà conto dei luoghi in cui c’è una maggiore convergenza delle attività, dei modelli di collaborazione parrocchiale già sperimentati, della specificità di alcune comunità parrocchiali, della possibilità di costituire piccole comunità di presbiteri.