Pubblichiamo questo testo inviatoci da don Domenico Marrone, perché riteniamo che rappresenti un esempio della comprensione diffusa nella Chiesa cattolica, soprattutto tra vescovi e preti, dei reati di pedofilia compiuti in essa – dove questa dimensione giuridica della violenza, se appare, è solo accennata. Si parla di perdono che la Chiesa, come comunità, deve anche a chi ha compiuto crimini di questo genere (stante pentimento, conversione e riparazione) – senza chiedersi se ciò, pur valido dal punto di vista sacramentale ed ecclesiologico, non rappresenti una ulteriore violenza nei confronti delle vittime e sopravvissuti alle violenze di cui sono capaci i preti e la Chiesa come istituzione. Considerare abusi e violenze solo come questione etica/morale sembra essere un pericoloso crinale dal quale il sentire diffuso del clero fatica a uscire.
Scrivo a voi con il cuore pesante, consapevole della gravità della vostra colpa e della terribile ferita inflitta ai più deboli e indifesi, i “piccoli” di cui ci parla Gesù.
È con profonda angoscia e senso di responsabilità che mi rivolgo a voi, ricordando le parole forti e piene di severità del nostro Signore: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare” (Mc 9,42).
Questa ammonizione, così terribile nella sua forza, ci pone davanti a una realtà drammatica: lo scandalo che si è consumato tramite voi e che ha coinvolto i più vulnerabili è una colpa che grida giustizia davanti a Dio.
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Lo scandalo è una ferita profonda che non solo infrange l’innocenza dei bambini, ma ostacola la loro fede e la fiducia che riponevano in Dio e nella Chiesa, seminando dubbi e disperazione nel cuore di chi si affida a noi. Le vostre azioni sono diventate una barriera che impedisce ai piccoli di vedere la luce dell’amore di Cristo.
Gesù non usa mezzi termini: la gravità di dare scandalo a uno di questi piccoli è talmente seria da essere paragonata a un destino atroce e senza appello. Questo monito, espresso con l’immagine di una macina da mulino al collo e di una morte per annegamento senza possibilità di sepoltura, deve farci tremare.
Cristo non solo parla di una punizione terribile, ma di una conseguenza eterna che va oltre la morte fisica. Le vostre azioni hanno scavato un solco profondo, un abisso che richiede non solo pentimento, ma anche riparazione e giustizia.
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Cari fratelli, non c’è dubbio che la vostra colpa abbia scandalizzato l’intera comunità e abbia macchiato l’immagine della Chiesa, ferendo gravemente il Corpo di Cristo, che è il popolo di Dio.
Tuttavia, vi scrivo non per mettervi alla gogna o condannarvi senza speranza. Il Vangelo di Cristo è Vangelo di misericordia e, anche se la vostra colpa è grave, la porta della conversione e del perdono rimane aperta. Ma quella stessa porta richiede verità, umiltà e giustizia. Non ci può essere vera misericordia senza riconoscimento sincero del male compiuto e senza una ferma volontà di riparare.
Non è il caso di attardarsi troppo nell’analisi delle cause di questa caduta, cause che sono ancora allo studio degli esperti. Questo non è il tempo delle scuse o delle giustificazioni. Non dobbiamo cercare rifugio in spiegazioni psicologiche o sociologiche che, per quanto importanti, non possono attenuare la gravità del peccato.
La Chiesa, nostra madre, continuerà a mostrarsi madre anche per voi, nonostante abbiate profanato la sacralità dei piccoli e infangato la vostra stessa dignità di uomini, cedendo a pulsioni infami. Eppure, proprio perché madre, la Chiesa vi richiama alla verità, al pentimento e alla riparazione.
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Lo scandalo che avete causato va identificato e estirpato con decisione, prima di tutto per il bene delle vittime, poi per la salvezza delle vostre stesse anime. Non c’è possibilità di redenzione se si nega la gravità della colpa, se si cerca di nascondere o minimizzare il male.
Vi esorto a compiere un percorso di penitenza autentica, di vera conversione, assumendovi tutte le responsabilità del vostro peccato, sia davanti a Dio che davanti agli uomini. Il primo passo è sempre quello della verità: confessare, chiedere perdono, accettare le conseguenze.
Certamente la Chiesa dovrà attivare processi più avveduti di discernimento dei candidati al sacerdozio, affinché siano scelti uomini con una maturità affettiva e morale solida. È imperativo tematizzare meglio, nei percorsi formativi dei candidati al ministero presbiterale, la dimensione sessuale e tutte le implicazioni legate alle pulsioni.
Questa consapevolezza non può essere trascurata né minimizzata, poiché la corretta gestione della propria umanità, inclusi i desideri e le fragilità, è essenziale per un presbitero che è chiamato a una vita di castità e di servizio. Ignorare queste domande significa esporre noi stessi e la comunità al rischio di ulteriori scandali e sofferenze.
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Il grido di giustizia delle vittime vi accompagni nel vostro percorso di espiazione e vi faccia individuare modi e tempi per risarcire la dignità oltraggiata. Non potrà mai esserci vera pace senza una riparazione concreta del male commesso.
Questo grido non è soltanto un richiamo alla giustizia umana, ma anche una voce che vi esorta alla conversione profonda. Solo attraverso questo cammino potrete sperare di riconquistare almeno una parte della dignità che avete perso, cercando di ristabilire la giustizia per chi è stato così gravemente ferito.
Mai nessuno abbassi le difese di fronte al male. La vigilanza dev’essere costante e inflessibile, perché il male si insinua proprio dove le difese si abbassano. Ma, allo stesso tempo, vi esorto a non dimenticare che il Vangelo non ci chiama alla condanna senza appello, ma alla possibilità di redenzione per ogni uomo.
A tutti, anche a chi ha compiuto i crimini più infami, deve essere data la possibilità di ricostruire la propria vita. Non dobbiamo mai cedere a forme di “tolleranza zero” che siano prive della logica evangelica, la quale non esclude la giustizia, ma è sempre animata da una speranza di riscatto. La giustizia dev’essere ferma, ma non priva di misericordia; ogni essere umano, anche il più colpevole, deve avere una via per tornare a Dio.
Tengo a dirvi che non vi considero dei “mostri”, ma sempre dei “nostri”. Per quanto la gravità delle vostre azioni vi abbia allontanato dalla comunità e abbia profondamente ferito il cuore della Chiesa e delle famiglie, non possiamo dimenticare che anche voi, nella vostra caduta, rimanete fratelli, figli di Dio, chiamati a un cammino di conversione. La nostra condanna dev’essere accompagnata dalla volontà di rieducarvi e guidarvi verso la luce della redenzione.
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In questo contesto, vorrei sottolineare anche un’altra verità: la gravità del vostro peccato non deve diventare un alibi per abbassare il livello etico degli uomini, facendo credere che basta non essere caduti nello scandalo della pedofilia per potersi ritenere persone dabbene.
Non dobbiamo mai dimenticare che la santità a cui siamo chiamati è esigente e che la vita morale non può ridursi a evitare i peccati più gravi, ma richiede uno sforzo continuo per vivere pienamente secondo il Vangelo in ogni aspetto della nostra esistenza. Nessuno si ritiene giusto semplicemente perché non è caduto negli abissi del male più evidente, perché tutti siamo chiamati a una continua conversione del cuore e a un cammino di perfezione nella vita cristiana.
Inoltre, nella comunità cristiana e nella società civile devono essere investite energie, competenze e risorse non solo per riparare i danni subiti dalle vittime, ma anche per ricostruire le vostre vite dei carnefici.
La guarigione non riguarda solo le vittime, che devono essere sostenute con tutto l’amore e la giustizia che meritano, ma anche voi che vi siete resi artefici di questi terribili crimini.
Anche voi avete bisogno di un percorso di redenzione, affinché possiate reintegrarvi nella società con una coscienza rinnovata e purificata. Non si tratta di giustificare, ma di restaurare, di rendere giustizia in modo pieno, offrendo a tutti – vittime e carnefici – una via di riscatto e di guarigione.
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La tendenza a clinicizzare ogni caduta etica dell’uomo non ci faccia cadere nell’inganno che ad ogni scandalo vi possa essere una giustificazione psicologica o psichiatrica. Il male è una verità con la quale fare i conti, e mai dobbiamo abbassare la guardia. Ogni tentativo di ridurre il male a un semplice problema clinico rischia di oscurare la verità fondamentale della responsabilità
Non illudiamoci, fratelli. Gesù ci avverte con chiarezza che coloro che scandalizzano i piccoli si pongono su una strada di perdizione. Tuttavia, Cristo ci offre anche una via di ritorno: attraverso il pentimento sincero, il riconoscimento della nostra fragilità e del nostro peccato, possiamo ancora trovare la sua misericordia. Ma questa misericordia esige giustizia, soprattutto per le vittime innocenti che portano nel loro cuore e nel loro corpo le cicatrici di questo tradimento.
Vi esorto, dunque, a non sottrarvi a questo cammino di verità e riparazione. Lasciate che la giustizia faccia il suo corso, affinché la comunità ferita possa trovare pace, e affinché le vostre anime, cariche di colpa, possano essere purificate dalla grazia di Dio.
Lo scandalo che avete causato non può essere cancellato con parole, ma con azioni concrete di pentimento, giustizia e umiltà. Siate pronti a fare ogni sforzo per riparare il male che avete causato, perché solo così potrete sperare nella misericordia divina che tutti noi, peccatori, invochiamo.
Con dolore e speranza, un vostro fratello in Cristo.
Veramente questa lettera non la capisco, è assurda. nessuno può conoscere veramente fino in fondo una persona, il suo limite e quanto questo limite limiti anche la sua libertà. Ma proprio per questo una persona malata di pedofilia non può stare a contatto con bambini e ragazzi. Può essere pentito fin che si vuole ma se c’è un disturbo questo disturbo è reale, e la prima cosa da fare è tutelare la persona, sia quella malata, sia quella che può essere ferita. Se la Chiesa questo non lo vuol capire e si arrampica sugli specchi è malata anche lei. Non lo posso capire, non posso capire come una istituzione nata per diffondere il vangelo di Gesù, per difendere il suo buon nome, finga di non vedere mettendo a rischio migliaia di bambini. Questa è la grande responsabilità della chiesa, o se lo volete chiamare, il suo peccato, lo scandalo vero, perché se quel prete pedofilo fosse stato messo nelle condizioni di non cadere (il che significa averlo tolto dal contatto con minori) non ci sarebbero state queste catastrofi. Ma tanto a chi interessa…
Ritengo che rispetto allo Stato nella Chiesa ci sia un problema in più alla soluzione della questione, perché l’adesione ecclesiale è data da una scelta di coscienza della persona. Per questo motivo il peccato-crimine della pedofilia coinvolge tra le vittime la stessa Chiesa. Può questa essere misericordia, carnefice e vittima? Può essere con la misericordia trasparenza del Vangelo e con il suo comportamento (speriamo ormai passato) carnefice dei piccoli e vittima di se stessa? Può con un cammino di conversione dei primi responsabili dei delitti autoassolversi dal peccato-crimine della pedofilia? Non dovrà essa stessa compiere questa conversione? E chi la risarcirà per il danno di immagine che le viene contestato? Potrà nel futuro essere ancora un’istituzione umanamente credibile?…
https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&opi=89978449&url=https://retelabuso.org/&ved=2ahUKEwjHlKSf4KeJAxVF-gIHHaiZJc4QFnoECBkQAQ&usg=AOvVaw3z6pvXkiDIAFjaiO1s0ZD5
più che le mie parole leggete chi, dalla parte dei sopravvissuti, parla con ragione di causa: unica associazione che VEDE la realtà clericale nella sua parte criminale, coperta da vescovi, cardinali.
Quando si aprirà la fogna dovranno vendere anche il vaticano per coprire i poveri violentati, a migliaia!
Credo che occorra partire dall’inizio. È evidente che errori di “selezione del personale” sono stati fatti. Infatti io non credo che la colpa sia solo del singolo ma anche di chi non ha controllato, non ha punito al momento giusto o ha fatto finta di non vedere. È un errore del sistema che così tanti preti pedofili siano arrivati a contatto con minorenni. Certo tutti sbagliamo e certamente tutti abbiamo bisogno di essere perdonati ma questo non significa reintegrare nella stessa posizione a contatto con minori chi ha interferito così gravemente con la vita altrui e chi ha danneggiato gravemente la reputazione della chiesa. Certe cose non è più consentito si ripetano. E impedire che si ripetano non è non voler perdonare ma semplicemente che non possiamo più permettercelo.
Conosco bene la distinzione tra peccato e crimine, e che in nessun modo si vuole minimizzare la gravità della pedofilia, che rimane un crimine odioso, esattamente come tanti altri, tra cui i femminicidi, crimini di mafia, che feriscono profondamente il tessuto sociale. Tuttavia, proprio perché consideriamo il crimine come una frattura nelle relazioni sociali, è importante riflettere su come la società debba affrontare non solo la punizione, ma anche la possibilità di riparazione e recupero.
Gustavo Zagrebelsky ci offre un’importante prospettiva in merito: “Il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa (Gustavo Zagrebelsky, in “La Repubblica”, 23 gennaio 2015).
Questa visione della giustizia riparativa, restaurativa e riconciliativa. ha radici antichissime e, nel corso dei secoli, le società hanno cercato forme di riparazione per le offese, siano esse verso la divinità o verso la collettività. Se nei tempi antichi il sacrificio e la vendetta erano i modi principali per ristabilire l’equilibrio, oggi siamo chiamati a esplorare nuove modalità che superino la mera punizione vendicativa.
La giustizia riparativa moderna propone una visione più ampia e complessa, in cui l’obiettivo non è solo sanzionare l’autore del reato, ma cercare di sanare, ove possibile, le ferite inflitte alla vittima, alla comunità e persino al colpevole stesso. Questo non significa dimenticare o minimizzare il crimine, ma riconoscere che, per quanto odioso sia l’atto, il colpevole rimane parte della società e la giustizia, oltre alla punizione, può includere percorsi di recupero.
È fondamentale sottolineare che la giustizia riparativa non può mai prescindere dal rispetto e dalla considerazione del trauma subito dalle vittime. Infatti, uno degli scopi di questo approccio è proprio quello di aiutare le vittime a sentirsi al centro del processo di riparazione, e non relegate a uno sfondo. Non si tratta di un meccanismo automatico di perdono o riabilitazione, ma di un percorso che, solo in alcuni casi, può condurre alla riconciliazione.
Pertanto, parlare di riabilitazione e perdono per i preti pedofili, o per qualunque altro criminale, non significa giustificare il loro comportamento o sminuire le sofferenze delle vittime, ma riconoscere che la giustizia penale moderna non può limitarsi alla vendetta. Se guardiamo all’esperienza di crimini gravissimi, come quelli di mafia, vediamo che anche per quegli individui si discute di percorsi di giustizia riparativa, che includono una riflessione sulla possibilità di reinserimento sociale e, in casi rari e verificati, di perdono.
In conclusione, la giustizia riparativa non esclude la punizione. Al contrario, essa riconosce la necessità di riparare il danno provocato non solo alla vittima, ma anche alla comunità nel suo complesso. Tuttavia, apre anche uno spazio per la riflessione su come affrontare i criminali in modo da evitare che essi siano rigettati dalla società senza possibilità di riscatto.
Non è certo utile un approccio ideologico e di pregiudizio al problema, che tende a chiudere il dibattito invece di affrontare la questione in maniera razionale e aperta. L’argomento della giustizia riparativa, del perdono e della riabilitazione è estremamente delicato, specialmente quando si parla di crimini orribili come la pedofilia. Tuttavia, un approccio ideologico che rifiuta a priori qualsiasi discussione sul tema rischia di alimentare una giustizia vendicativa, senza offrire soluzioni per il futuro né riflessioni su come migliorare il sistema penale.
Affrontare questioni così complesse con pregiudizi rischia di impedire la possibilità di considerare approcci alternativi che non sono destinati a minimizzare la gravità dei crimini, ma piuttosto a esplorare se e come sia possibile riparare le ferite inflitte, con al centro sempre il rispetto per le vittime. La giustizia, in questo contesto, deve essere discussa e ponderata senza che le emozioni o preconcetti chiudano le porte a visioni più ampie.
La sfida sta proprio nelle tenere insieme la consapevolezza della gravità dei crimini con una riflessione profonda sul senso della pena e sulle possibilità di riparazione e reintegrazione, dove e quando sia possibile, sempre con grande cautela e responsabilità.
Per completare la riflessione, è importante ricordare che il sistema giudiziario penale italiano attinge direttamente dai principi sanciti dalla Costituzione, che rappresenta la massima espressione del nostro ordinamento giuridico. La Costituzione italiana, infatti, promuove una concezione della pena non solo come punizione, ma anche come strumento di rieducazione e reintegrazione del condannato nella società. Questo principio è chiaramente espresso nell’articolo 27, che afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
A sua volta, la Costituzione italiana porta impressa un’impronta cristiana, riflettendo una visione che, pur nel rispetto della laicità dello Stato, riconosce valori profondi come la dignità della persona umana, la possibilità del riscatto e la misericordia. Questi principi trovano eco nella tradizione cristiana, che ha sempre sottolineato l’importanza del perdono e della possibilità di redenzione, senza per questo ignorare o sminuire la gravità del peccato o del crimine.
In questo senso, parlare di riabilitazione, anche per reati gravissimi come la pedofilia, si inserisce all’interno di una visione costituzionale e umana che vede nella pena non solo una punizione, ma un’opportunità di riscatto, ove possibile, per chi ha commesso il crimine. Anche se questo può risultare difficile da accettare in casi così odiosi, resta fondamentale non chiudere il dibattito su base ideologica, ma riflettere sul senso più profondo della giustizia e della sua finalità, che non è mai solo vendetta.
Dunque, il sistema penale italiano, radicato nei principi costituzionali, riconosce il valore della giustizia riparativa e della rieducazione, fondamenti che, a loro volta, si collegano a una tradizione cristiana che vede la possibilità della redenzione come parte integrante del percorso umano, senza per questo negare la necessità di giustizia per le vittime.
Sul piano dei principi nulla da eccepire nel suo ragionamento, il criminale va dalla giustizia umana recuperato (per quanto possibile e a condizione di un percorso di recupero) così come il peccatore va convertito (se accetta l’offerta cristiana del perdono, con tutto ciò che essa implica anche in termini penitenziali). Mi chiedo però se nella prassi la Chiesa abbia nel suo insieme davvero agito tenendo conto del rapporto tra peccato e crimine nella gestione dei casi di abuso. Ciò che più sconcerta fedeli e opinione pubblica, oltre all’orrore legato ai singoli casi abusi (sessuali o spirituali), è la tendenza di una parte del clero e della gerarchia a minimizzare, o peggio ancora a insabbiare, tali crimini in nome di una vaga e pretestuosa idea di perdono dei peccati (e qui torna idea che abusi sono in fondo peccati di natura innanzitutto morale). Tale tendenza sembra essere una sorta di auto-assoluzione a beneficio di atteggiamenti e prassi che mi sembrano siano purtroppo ancora presenti, almeno in una parte del mondo ecclesiale. Conforta però vedere che alcune Chiese nazionali (come quella francese, ad esempio) si stiano muovendo, pur con non poche difficoltà, in vista di un cambiamento di paradigma e di pratiche. Molto resta ovviamente da fare, almeno a mio avviso, specie (mi dispiace dirlo) nella Chiesa italiana che nel caso della gestione degli abusi si sta mostrando, al di là dei proclami, piuttosto impreparata (e non solo “culturalmente)
Pensate se la mamma di un bambino abusato da un prete leggesse questa lettera. Cosa ne penserebbe? Non avrebbe ragione di pensare di avere a che fare con uomini ipocriti, egocentrici, insensibili, che pensano solo a se stessi, che si autoassolvono, che non portano in se: stessi né capiscono la ferita che hanno inferto e il male che hanno compiuto? Non si riesce mai a capire come non vi sia nessuna reale percezione del male all’interno della Chiesa. Tutto sembra una metafora. Ma il male fatto è reale, è come una ferita.
La nota che introduce la pubblicazione di questo testo esprime un acume difficilmente reperibile nel panorama della pubblicistica cattolica italiana. D’altra parte, la pretesa “via italiana” nella gestione del fenomeno degli abusi del clero è semplicemente un modo di non affrontare il problema. Per ragioni economiche, innanzitutto. Ma più a monte per un cortocircuito, che si fatica molto a mettere a fuoco e che appare spesso insuperabile, tra appartenenza alla città degli uomini e appartenenza all’istituzione ecclesiastica
Scelta condivisibile quella di pubblicare questo testo. Resta evidente l’incapacità di una parte (purtroppo non piccola) del clero a capire che che alcuni peccati (a partire da quelli di abuso) siano anche crimini e che entrambe queste dimensioni (peccato/crimine) vanno necessariamente tenute presenti per affrontare in modo adeguato le fin troppo note e drammatiche criticità della Chiesa. Temo che tale incapacità di “lettura” sia conseguenza di una “forma mentis” che si è da secoli formata e sedimentata nel clero oscurandone la capacità di giudizio. Anche in questo occorre una profonda e salutare conversione, almeno a mio avviso