Lo “stato di eccezione”

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rivoluzione

L’ottava tesi di Walter Benjamin sul concetto di storia[i] inizia con un’affermazione che mi sfida e mi provoca sempre: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è in realtà la regola generale». Immancabile è lo scatto immediato nella memoria, nella quale risuona il ritornello di una canzone delle Comunità di Base, negli anni Ottanta. È a partire dalla vita, non dalla filosofia, che i contadini insorgono e lottano per la terra e la riforma agraria, cantando: nessuno si sbaglia… la nostra storia fin dall’inizio è disumana. Hanno sempre saputo che l’oppressione e il conflitto attuali non sono un’eccezione, perché per gli oppressi lo «stato di eccezione» è sempre stata la regola generale della storia.

Insomma, meditiamo le parole della Qoeleth – un nome femminile! – che ci ripete: Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

Disarmate e crocifisse

L’ideologia dominante gestita dal sistema capitalistico e dai suoi lacchè nazifascisti, o pseudodemocratici, continua a nascondere questa verità della storia umana, compensandola con l’invenzione del progresso: un contesto illusorio, in cui eventi tragici ed estremi non sarebbero altro che sorprendenti contraddizioni dei processi virtuosi dello sviluppo. La sofferenza delle vittime della storia, fin dalla fondazione del mondo, è soppressa e nascosta.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, questo deleterio ottimismo ha contaminato non poco la generazione dei cosiddetti baby boomer, soprattutto nell’emisfero settentrionale. E mi permetto di indicare la possibilità che questo clima di fiducia nel progresso, nello sviluppo e nelle possibilità di riforma, possa avere influenzato la stessa Chiesa cattolica negli anni del Concilio. Grazie a Dio, l’antidoto profetico venne dal Sud del mondo, con Medellín e le teologie della liberazione.

Immaginando possibilità rivoluzionarie, Benjamin ci ripete: «Abbiamo bisogno di costruire un concetto di storia che corrisponda a questa verità». Di fronte a un mondo che ha riacquistato in modo esponenziale la capacità di piegarsi quotidianamente a tragiche notizie di odio, guerre, genocidi ed ecocidi, fame, esodi senza speranza, pandemie, catastrofi del cambiamento climatico, è urgente cercare nuove parole, evitando di seguire il gusto insensato della modernità, che non sa convivere con le cose vecchie e si sottomette sempre nevroticamente alle mode effimere, come finestre che si aprono davanti al nulla.

Bisogna cercare nuove parole che possano tradurre la Buona Notizia in nuovi atteggiamenti e gesti. Parole che nascono e rinascono nel seno della Parola: In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Insomma, parole e pratiche deboli e impotenti, che non hanno il potere di convincere, che non mirano all’egemonia o al potere dello Stato. Parole disarmate e crocifisse, identificate con le innumerevoli vittime del nostro tempo. Parole d’amore.

E non sarà una cristianità rieditata che offrirà queste nuove parole, perché sono le «minoranze abramitiche», il «piccolo resto d’Israele», il «piccolo gregge» di Luca 12,32-34, che possono offrire una luce in questo kairos, l’Apocalisse contemporanea, anche alla nostra generazione.

Della coesistenza del male e della bellezza

In questi giorni mi è successo qualcosa di nuovo e sorprendente, quando Etty Hillesum[ii] è esplosa nei miei pensieri a imporre con forza la sua presenza con una profezia che ho ignorato per molto tempo. In effetti, la sua biografia e la sua teologia non sembravano essere in sintonia con il coro di autori che confermavano il mio desiderio di confrontarmi politicamente con il male del mondo.

Sembra che Etty abbia trovato la strada cercata da Benjamin, ma è andata oltre la mera, ma necessaria, ridefinizione del concetto di storia e oltre, anche, la ricerca − che resta urgente − di nuove parole. Ha trovato un metodo, uno stile spirituale inedito, per affrontare i tempi apocalittici della Shoah: l’accettazione della coesistenza del male e della bellezza, della tragedia e della poesia.

Contrariamente all’affermazione di Adorno secondo cui dopo Auschwitz non è più possibile dire «Che bello!», Etty Hillesum ci dice: «È nel mezzo dell’inferno, è nel tetto in fiamme che guarderò i fiori, che mi prenderò cura dei fiori. È nella latrina del campo di concentramento che mi inginocchierò e pregherò, è nelle baracche più sporche, più assediate dal dolore che mi prenderò cura dei fiori».

Scelse di non salvarsi da sola e si immerse con il suo popolo in quell’inferno di annientamento e sterminio. E in quell’inferno non sentiva solo il bisogno di una nuova grammatica: «Dovrò trovare una nuova lingua». E «Vorrei scrivere parole inserite in un grande silenzio, e non parole che esistono per coprirlo… Ogni parola si aggiunge ai malintesi in questa terra eccessivamente loquace».

In compagnia dell’amorevole silenzio divino, ha vissuto una mistica, che mi sorprende per la sua novità: una mistica immersa nella materialità del mondo, che contempla la bellezza del mondo, senza sfuggire alla corporeità, alla sensibilità e alla sensualità stessa. Un universo interiore libero, irraggiungibile e invincibile di fronte alle potenze del mondo.

Sceglie la vicinanza agli oppressi e ai perseguitati, perché crede fermamente nella forza salvifica dell’amore, quel frammento del cuore di Dio che abita nel suo cuore e può trasformare tutti i cuori. Una gioia scandalosa in un contesto tragico, in cui sceglie di ascoltare e prendersi cura di chi soffre. «Mi piacerebbe vivere come i gigli del campo. Se le persone capissero questa stagione, sarebbero in grado di imparare da essa per vivere come i gigli del campo».

Un nuovo senso delle cose

Etty non era ingenua e priva di dubbi. Ricordo un frammento del diario in cui descrive un tragico giorno di deportazioni nel campo di Westerbork: «Se penso alle facce della scorta armata in divisa verde, mio Dio, quelle facce! Li osservavo uno ad uno, dalla mia postazione nascosta dietro una finestra, non ho mai avuto tanta paura come per quei volti. Mi sono trovata in difficoltà con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita: “E Dio creò l’uomo a sua immagine”. Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile».

Dobbiamo tornare a meditare sulle parole di Etty Hillesum e ad imitare i suoi atteggiamenti. Pensiamo, ad esempio, alla profonda riflessione che ci offre sui sopravvissuti ai campi di concentramento nazifascisti: «Se salviamo i nostri corpi e nient’altro dai campi di prigionia, ovunque essi siano, sarà ben poco. (…) Se non possiamo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a tutti i costi − e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione − allora non sarà abbastanza» (Lettere, 45).

Credo che la sua esperienza, forgiata nella follia del secolo scorso, abbia una missione fondamentale e insostituibile in questo tempo in cui assistiamo impotenti alla riproposizione dell’odio, delle guerre, dei genocidi e dell’insensatezza che minaccia la continuità della vita stessa sul pianeta Terra.


[i] Benjamin Walter, Tesi sul concetto di storia:

8 «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è in realtà la regola generale. Abbiamo bisogno di costruire un concetto di storia che corrisponda a questa verità. In quel momento, ci renderemo conto che il nostro compito è quello di originare un vero stato di eccezione; Con questo, la nostra posizione sarà più forte nella lotta contro il fascismo. Quest’ultimo beneficia della circostanza che i suoi avversari lo affrontano in nome del progresso, considerato come norma storica. Lo stupore per il fatto che gli episodi che abbiamo vissuto nel XX secolo siano “ancora” possibili non è uno stupore filosofico. Non genera alcuna conoscenza, se non la consapevolezza che la concezione della storia da cui emana tale stupore è insostenibile». 

[ii] Hillesum Etty, Uma vida interrompida, Editora Âyiné, Belo Horizonte, 2019

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