Magistero, modernità e riforma

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Michael Seewald è un giovane (1987) teologo e storico del dogma dell’Università di Münster che ha già al suo attivo diverse pubblicazioni, due delle quali tradotte in italiano[1]. Il volume su cui ci soffermiamo brevemente, intitolato Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti[2], presenta un’interessante disamina del magistero ecclesiastico e dei dispositivi epistemologici sottesi a questa pratica discorsiva.

Lo sforzo compiuto da questo teologo consiste in una storicizzazione del dogma. Egli ritiene (e noi con lui) che tale impresa sia necessaria per una teologia che intenda essere sempre più consapevole della necessaria appartenenza tanto del magistero ecclesiale quanto della tradizione cristiana ad un orizzonte culturale. D’altra parte, è solo attraverso questa lettura che è possibile riconoscere come la cornice dogmatica stabilita dal magistero rappresenti «soltanto una tra le forme che si può dare la fede cattolica; è una forma determinatasi storicamente, ma non l’unica possibile» (9)[3].

Tuttavia, parlare di formazione storica del dogma può restare un’affermazione generica e non priva di fraintendimenti. Per chi, ad esempio, presuppone che la tradizione cristiana fuoriesca da un’origine nitida e si dispieghi in un progresso storico senza accidentalità, questo studio arrecherà irritazioni piuttosto che interrogativi. Su questo punto è lo stesso Seewald a mettere subito in chiaro che la sua impostazione può essere riconosciuta soltanto da «chi è disposto a storicizzare la propria posizione teologica – o almeno cerca di farlo, dato che non sarà mai possibile farlo del tutto in quanto ciascuno è parte della storia che tenta di interpretare» (9-10).

Entrare in un regime di storicità significa, infatti, prendere coscienza della relatività del proprio punto di vista e dunque assumere un atteggiamento di revisione permanente. Quanto al magistero ecclesiastico e al sapere teologico, far fronte a questo compito significa mettere a tema alcune questioni.

Magistero e modernità

Seewald invita a non leggere il rapporto tra modernità e tradizione in senso meramente oppositivo, e pertanto a non ascrivere alla modernità unicamente la causa di una frattura tra la tradizione istituzionale e il bagaglio di fede del singolo. Tale concezione veicola infatti un modello semplicistico oltre che dicotomico di tradizione: da una parte, vi sarebbe una tradizione unica, continua e oggettiva, custodita dall’autorità religiosa; dall’altra, una tradizione parziale e soggettiva perché frutto di appropriazione e selezione personale.

Mi preme aggiungere che si tratta di un’ingenuità (ma fino a che punto?) messa in evidenza anche da teologi come C. Theobald, P. Gisel e A. Grillo[4]. Per parte sua, Seewald specifica che il magistero non può essere inteso come una sorta di contenitore che raccoglie e trasmette una tradizione già bella e pronta. Al contrario, il magistero costruisce la tradizione di cui si fa garante. Con le sue decisioni, infatti, la Chiesa seleziona, tra una pluralità di possibili dottrine, solo alcune, che diventano pertanto reali[5]. In altre parole, l’ortodossia si costituisce come insieme di possibilità realizzate. Quanto invece viene escluso, resta nello stato di pura possibilità. Professare perciò dottrine che sono state escluse significa entrare nell’eterodossia[6]. Anche la tradizione, che a prima vista appare come semplicemente traghettata da un’istituzione, va dunque percepita – al pari della sua appropriazione da parte del singolo – come un insieme di slittamenti e di riprese.

Non è possibile richiamare qui le tappe principali della costituzione moderna del dogma riprese nel testo. In sintesi, diciamo che nell’epoca moderna l’insegnamento dogmatico si presenta nei termini di una decisione giuridica, avente la forma di una proposizione autoritativa che mira ad essere un’interpretazione corretta della rivelazione (oggetto primario; cf. Dei Filius, in ES 3011). I due soggetti degli insegnamenti dogmatici (magistero infallibile) sono la totalità dei vescovi e il papa (cf. LG 25). Tale insegnamento è esercitato nella forma straordinaria e ordinaria dei vescovi uniti al papa e nella forma straordinaria del solo pontefice (ex cathedra/primaziale).

Seewald si sofferma sulla struttura del magistero infallibile, mettendone in evidenzia la gestazione moderna. Tale magistero «ha avuto lo scopo di presentare l’insegnamento della Chiesa sotto forma di dottrina dogmatica, proponendola cioè in forma decisionale e sanzionata dall’autorità» (57). Questa forma di magistero è perciò già indice del fatto che la Chiesa stessa ha assunto i modelli socio-politici della modernità. Ma si è trattato di un’assunzione «strategica» – chiosa ripetutamente Seewald – nel senso che la Chiesa ha accordato un privilegio a quegli aspetti della modernità funzionali all’esercizio del suo potere, mentre ha sbarrato la strada ad altre pretese.

Ed è proprio dentro questo clima strategico che il teologo tedesco rilegge il caso limite del magistero ordinario del romano pontefice (ad es. le “encicliche”). Esso «aveva lo scopo di dare al papa quei poteri e quell’autorità di cui egli aveva bisogno per essere strategicamente all’altezza della modernità e della sua pressione decisionale, senza però doversi conformare sul piano normativo al ruolo centrale che la Modernità riconosceva alla competenza decisionale del singolo in campo religioso» (58).

Il contesto teologico della creazione di un magistero ordinario del papa è databile a metà Ottocento (K. Kleutgen e lo scontro con J.B Hirscher) e il dibattito circa il suo carattere vincolante è attestato nella Tuas libenter di Pio IX e nella Humani generis di Pio XII. Il Vaticano I stabilì la necessità di un actus fidei divinae et catholicae non solo nei confronti del magistero straordinario ma anche di quello ordinario (cf. ES 3011). Su quest’ultimo punto però, aggiunge Seewald, “non” si specificò se tale magistero ordinario fosse riferito unicamente a quello dei vescovi uniti al papa o anche al magistero del solo romano pontefice[7].

Ciò spiega perché la questione del magistero ordinario del papa abbia dato adito a diversi dibattiti. Sta di fatto – conclude Seewald – che «nella normativa canonica attualmente vigente non è stabilita l’infallibilità» (17), sebbene, azzarda il nostro autore, «ai papi non dispiacesse l’idea di poter fare affermazioni definitive e di porre termine a dispute anche senza impiegare la forma solenne della propria potestà» (18).

Uno sbilanciamento sul piano giuridico: il caso del magistero definitivo

Il Vaticano I non ha dunque stabilito se il magistero ordinario del papa avesse il carattere dell’infallibilità. Neanche il Vaticano II ha fatto affermazioni in tal senso. Inoltre, osserva Seewald, i padri conciliari hanno anche respinto la posizione contenuta nello schema De Ecclesia (23 novembre 1962) secondo la quale l’oggetto del magistero infallibile andava esteso anche all’ambito della natura umana (il non rivelato) e, più nello specifico, della ragione. Siamo qui nell’ambito del cosiddetto “oggetto secondario” del magistero.

Ma a quanto pare, tale aspirazione continuò ad essere coltivata, se si considera che, come fiume carsico, riemerse nei decenni successivi. A partire infatti dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si è assistito all’introduzione di quello che oggi generalmente viene indicato con l’appellativo di magistero definitivo, sancito in ultima istanza da Giovanni Paolo II con il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). In base all’attuale configurazione giuridica, questo magistero si colloca ad un secondo livello, perché segue quello infallibile e precede quello autentico.

Seewald non lo qualifica in questi termini, preferendo parlare di magistero che si riferisce a ciò che non è contenuto nella rivelazione (oggetto secondario)[8]. Il teologo di Münster fa notare che, con il magistero definitivo, si crea un nuovo concetto di dogma, non più legato in modo esclusivo alla rivelazione. «Ora possono diventare dogmi anche le dottrine appartenenti all’oggetto secondario, che dallo stesso magistero non sono considerate rivelate ma soltanto connesse con il deposito della rivelazione» (74).

Il risvolto di questo inasprimento del magistero ecclesiastico è stata la configurazione della Chiesa in senso più giuridico (autorità giuridica) che testimoniale (autorità epistemica). Insistendo sul modo apodittico con cui vengono presentate queste decisioni e dunque sull’osservanza (de fide tenenda) da prestare ad esse, il magistero è andato sbilanciandosi a favore della funzione di insegnare (docendi) piuttosto che di apprendere (discendi). Questo sbilanciamento – osserva Seewald – ha nuociuto alla sua capacità di autocomprensione critica: il magistero è diventato sempre più incapace di riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e di ammettere l’opportunità di cambiare orientamento. Celare le discontinuità è diventata così la sua preoccupazione costante.

Sotto il velo delle continuità: tre tipi di sviluppo dogmatico

Seewald intende allora procedere con una decostruzione di quella che stigmatizza come «cosmesi della continuità» (88), mettendo in luce alcuni cambiamenti attuati dal magistero negli ultimi secoli. In estrema sintesi, egli individua tre principali modelli di sviluppo dogmatico, a ciascuno dei quali consacra uno o due casi specifici.

Il primo modello è quello dell’autocorrezione esplicita: la Chiesa dichiara apertamente di abrogare ciò che ha precedentemente stabilito[9]. Ma l’autocorrezione (e veniamo così al secondo modello) è stato il meno praticato tra i processi di sviluppo dogmatico. Esponendo infatti l’insegnamento della Chiesa alla conflittualità, mette in discussione quell’alone di immutabilità di cui si è soliti fregiarla. Per questo motivo si è preferito un altro tipo di sviluppo dogmatico, quello dell’oblianza. Si tratta cioè di «introdurre correzioni dottrinali facendo un ricorso consapevole all’oblio» (105), nella speranza cioè che nessuno si ricordi delle precedenti posizioni della Chiesa sulla stessa materia[10].

A proposito di questo secondo modello di sviluppo, Seewald non cela le sue critiche. Evitando un’autocorrezione esplicita, la Chiesa corre il rischio di perdere la sua pretesa di essere un’istituzione di senso. Nascondere le proprie mosse nuoce ad una Chiesa che intende essere credibile sul piano socio-culturale ed entrare nel dibattito pubblico (autorità epistemica). Vi è, infine, per Seewald anche una terza modalità di sviluppo dogmatico. Si tratta dell’occultamento dell’innovazione. In pratica, la Chiesa sostiene con forza una posizione, ma non dice che lo può fare grazie al fatto di essersi corretta di recente su tale questione[11].

A mio avviso, questi tre modelli di sviluppo dogmatico di cui si è potuto solo fare cenno, stanno a mostrare un dato di fondo: il magistero, al pari di ogni altra forma di comunicazione della fede e più in generale di ogni altra pratica discorsiva, può paragonarsi ad una stoffa su cui è imbastito un disegno. Quello che prima facie si vede è ovviamente il disegno. Occorre girare il tessuto per leggervi le tracce di una cucitura fatta di cesure, riprese, puntelli. È proprio questa tortuosità a costituire la linearità degli effetti di superficie.

Continuità della Chiesa o delle sue proposizioni dottrinali?

Per tenere proficuamente in tensione la «continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» (Benedetto XVI) [12], nella discontinuità vissuta nel corso della sua storia, occorre – per Seewald – far leva sull’indefettibilità della Chiesa (continuità materiale) piuttosto che sull’idea dell’indefettibilità delle norme dottrinali. Queste infatti sono storicamente situate (rispondono alla sacramentalità della rivelazione) e sono affidate alla Chiesa.

Quando perciò la Chiesa non riesce più a presentare in modo credibile il suo insegnamento come Vangelo, deve operare una sterzata. Ma questo significa, prosegue Seewald, che «lo sviluppo dogmatico non si deve pensare come una continua aggiunta di nuovi pezzi a un edificio o come una crescita numerica di decisioni dogmatiche, ma include l’aspetto della correzione del contenuto dogmatico» (160)[13].

Dato che trovo molto importante quest’ultima osservazione di Seewald, provo a ritornarvi con alcune mie osservazioni. Nello studiare lo sviluppo del dogma, occorre indagare criticamente le regole che presiedono alle formazioni discorsive, denominare le procedure interne ai discorsi, come anche individuare i principi che classificano, ordinano e distribuiscono. È quanto hanno fatto alcuni studiosi contemporanei, i quali hanno insistito sulla necessità di portare alla luce procedure come il «commento» (Foucault), il «sistema cumulativo» (Theobald), le «cristallizzazioni» (Gisel).

A mio avviso, si tratta di procedure che obbediscono al dispositivo generale secondo cui essentia involvit existentiam, ovvero quel dispositivo che stabilisce un quadro armonizzante e totalizzante entro cui andrebbero inseriti gli eventi. Le evenemenzialità della storia, alla stregua dei tasselli, riceverebbero perciò la loro significatività entro un mosaico più grande già costituito e normalizzante. Ciò che però viene ad essere depotenziata qui è proprio la storicità della fede stessa, la quale non sempre si accontenta di ri-formulare con altre parole lo stesso contenuto, ma richiede anche l’apertura a nuove comprensioni e, di rimando, l’eventuale correzione di alcune formulazioni.

Consapevolezza e discernimento: per una Chiesa sinodale

La lettura di questo volume mi spinge ad evidenziare almeno due stimoli che l’impresa teorica di Seewald consegna al dibattito teologico.

Il primo input è quello di riconoscere (in termini di consapevolezza) la modernità della Chiesa. Seewald ritiene che una posizione anti-moderna risulta essere comunque un progetto moderno. Slogan del tipo: «La Chiesa deve modernizzarsi», risultano in tal caso ambigui. Associare riforma e modernizzazione è fuorviante perché la Chiesa, scrive Seewald, «è già moderna»! Al massimo occorre chiedersi

«se la modernizzazione della Chiesa cattolica finora attuata sia ben riuscita o se invece ci siano motivi per situare la fede cristiana nel tempo presente secondo un profilo diverso da quello attuato finora. Solo attraverso una storicizzazione di questo genere è possibile superare la logora contrapposizione tra uno status quo carico di norme, da una parte, e progetti di riforma che se ne distanziano presentandosi come presunte forme di ribellione, dall’altra. Lo status quo magisteriale, infatti, che nella Chiesa cattolica si circonda volentieri dell’aura di “ciò che è sempre stato così”, a un’osservazione più attenta risulta in realtà relativamente nuovo e risale, se si pensa per esempio allo sviluppo del concetto di dogma sotto Giovanni Paolo II, a un passato recente» (77).

Da qui il compito futuro che individuo in questo programma: quello di fare teologia consapevoli del carico di storia di cui siamo intessuti e delle preoccupazioni del presente in cui il Vangelo del Regno chiede di essere vissuto. Un compito che richiede capacità di argomentazione critica, nel riconoscimento − al di là delle idee e degli orientamenti differenti sul piano ecclesiale e teologico − di dover rispondere sempre ad un presente, senza rimandi a momenti ideali o ad epoche normative, a sviluppi lineari e a processi irreversibili.

Dietro i discorsi ammantati di continuità, come lo stesso Seewald mostra in questo studio, giocano il più delle volte non dichiarate preoccupazioni di ottenere stabilità nel presente e necessità di perpetuare se stessi, piuttosto che effettivi riscontri storiografici e di fede vissuta. La continuità, lungi dal significare il restare bloccati in un’architettura dottrinale, va intesa piuttosto come un fenomeno ecclesiale. Questo significa che la Chiesa deve continuamente vivere un atteggiamento di riforma, nel senso di «dare forma» alla propria missione in linea con il messaggio del vangelo.

Solo se si tiene presente questa esigenza, si comprende la necessità di una correzione anche sul piano dogmatico. Ciò non significa, aggiunge Seewald, che la Chiesa debba cambiare “comunque”. Ma che, anche quando si ritiene di restare fermi su qualcosa, una Chiesa che si pensa altrimenti lo deve fare passando attraverso un confronto argomentativo e non «in base al grado dell’ordine sacro» (183).

In definitiva questo saggio può aiutarci a comprendere il senso di una Chiesa sinodale, ovvero di una Chiesa che intende fare del discernimento e della consapevolezza il suo asse centrale. Il rischio è infatti che, pur partendo da genuine intenzioni, la sinodalità diventi uno slogan della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, anziché criterio e prassi di coloro che intendono mettersi alla sequela di Gesù Messia.


Giuseppe Guglielmi è docente presso la Facoltà teologica di Napoli (sez. San Luigi) e direttore della rivista Rassegna di Teologia. Il presente testo è una sintesi di un contributo più ampio che comparirà nella rubrica «Presentiamo un Libro» del numero 1/2023 di Rassegna di Teologia.

[1] Personalmente ritengo che il primo scritto (Il dogma in divenire. Equilibrio dinamico di continuità e discontinuità, Queriniana, Brescia 2020), resti più sul piano formale del trattato teologico, ovvero di quei testi didatticamente utili in quanto orientativi per chi voglia accostarsi alle questioni storiche e teologiche, ma non particolarmente originali sul piano dell’apporto scientifico.

[2] M. Seewald, Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti, Queriniana, Brescia 2022 (le citazioni del volume saranno riportate direttamente nel corpo dell’articolo).

[3] Seewald insiste nel ribadire che la dottrina della Chiesa non si risolve in una delle sue forme, quale può essere quella dogmatica. Si dà dunque una distinzione tra vangelo e dogma. Il vangelo è l’annuncio dell’agire salvifico di Dio, in parole ed opere, mediante Gesù Cristo. Inoltre, questo vangelo è affidato alla comprensione umana e dunque alla precarietà e fallibilità del pensiero. A proposito del rapporto tra vangelo e dogma Seewald rimanda a W. Kasper, Il dogma sotto la Parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968, 28s.

[4] Cf. C. Theobald, Spirito di santità. Genesi di una teologia sistematica, EDB, Bologna 2017, 219-249; P. Gisel, La teologia: identità ecclesiale e pertinenza pubblica, EDB, Bologna 2009, 125; Id., Che cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza, Inschibboleth, Roma 2019, 21ss; A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Cittadella, Assisi 2019.

[5] Queste selezioni stanno a dimostrare che «il magistero non è custode di un patrimonio che si è trovato fra le mani già definito, ma è esso stesso a dargli forma determinando con le sue decisioni cosa faccia parte della tradizione e cosa no» (54).

[6] È proprio a partire da questa immagine delle possibilità realizzate e di quelle che non realizzate, come anche della linea di confine che le separa, che Seewald costruisce il suo discorso sulla riforma intesa come operazione che sposta tale linea «trasformando qualcosa che finora è stato reale in qualcosa che in futuro sarà solo possibile o qualcosa che era possibile in qualcosa che d’ora in poi sarà reale» (138).

[7] La giuridizzazione della fede spostò così l’asse della discussione circa le questioni dottrinali dalla competenza teologica a quella giuridica. In questo quadro, si chiede Seewald, «perché continuare ancora a fare teologia […] visto che c’è il papa che dice ciò che è giusto, e ci sono i canonisti che danno forma giuridica a ciò che è giusto, difendendolo con sanzioni penali?» (66).

[8] Ricordiamo qui brevemente gli interventi degli ultimi decenni che hanno portato alla formazione del magistero definitivo: il documento Congregazione per la Dottrina della fede Professione di fede e giuramento di fedeltà (1988); l’Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990) della medesima Congregazione; la modifica apportata alla parte finale del paragrafo 88 del Catechismo della Chiesa cattolica, nella seconda edizione latina del 1997 (la prima edizione è del 1992); il motu proprio Ad tuendam fidem del 1998, con il quale Giovanni Paolo II inserisce il secondo tipo di insegnamento del magistero (definitivo) nel Codice di diritto canonico; la Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della «Professio fidei» della Congregazione per la Dottrina della Fede che appare in calce al motu proprio. Il Codice riformulato secondo il motu proprio, descrive il magistero definitivo in questi termini: «si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente» (can 750 § 2).

[9] L’esempio riportato da Seewald è quello relativo alle modifiche introdotte dal magistero ecclesiastico nella dottrina teologico-liturgica del ministero ordinato (cf 88-105).

[10] L’esempio riportato questa volta dal teologo di Münster è quello relativo alla recezione teologica della biologia evolutiva nell’enciclica Humani generis di Pio XII e alla silenziosa correzione successiva (cf. 105-116).

[11] In questo caso, uno degli esempi presi da Seewald è quello relativo alla riabilitazione del valore della libertà di coscienza e di religione (cf. 116-130).

[12] Benedetto XVI, «Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi» (22.12.2005), in EV 23/1531 (cf. 150).

[13] «È possibile che una dottrina semplicemente non sia più in grado di trasmettere ciò che ogni dottrina della Chiesa deve comunicare: il vangelo. Se, per esempio, il ministero ordinato non si presenta più come ministerium (LG 10), come servizio alla fede della comunità». Può succedere, infatti, che nel corso di eventi storici contingenti esso abbia acquisito «la forma di un ordine monarchico o corporativo» e che si sia innalzato «alla sfera di realtà sacrosanta». Pur considerando che «una forma simile di organizzazione sociale della Chiesa fosse adeguata in passato […]; per il presente essa è – a voler essere prudenti – discutibile e, se non ci sono argomenti a suo favore, la si deve modificare» (167).

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