Ciò che ha motivato la loro vita di cristiani in Algeria può essere ricapitolato come «logica dell’incarnazione», cercando di comprendere «quello che Dio vuole nelle relazioni tra Chiesa e islam», nel loro essere stati «oranti in mezzo ad altri oranti», per «incarnare» la «presenza di Cristo», come «comunità chiamata a generare attraverso la grazia dello Spirito».
Da diversi anni mi interesso, da una prospettiva teologica, dei sette trappisti francesi uccisi in Algeria il 21.05.1996, dopo un rapimento durato circa due mesi[1]. A Tibhirine, nell’arcidiocesi di Algeri, si trovava il monastero da cui un gruppo fondamentalista di bandiera islamica li ha rapiti nella notte tra il 26 e il 27 marzo. Christian de Chergé, il priore della comunità, vi viveva con Luc Dochier, il medico, Celestin Ringeard, l’organista e cantore, Paul Favre-Miville, l’idraulico, Michel Fleury, il cuoco, Christophe Lebreton, sottopriore e maestro dei novizi, e con i due monaci che non hanno subìto il rapimento, Amédée Noto, l’aiuto medico, e Jean-Pierre Schumacher, il portinaio. Nella sera del 26.03 si era unito a loro Bruno Lemarchand, superiore della trappa “gemella” che si trovava a Fez (Marocco), anch’egli poi rapito in quella notte e ucciso insieme agli altri sei.
La scelta di rimanere
Già nella veglia del Natale 1993 questo gruppo fondamentalista aveva fatto irruzione nel monastero. All’indomani la prima reazione era stata quella di volere lasciare il monastero e partire. Rimanere a Tibhirine esponeva ad ogni sorta di attacco fondamentalista, magari anche mortale. Per una decina di giorni si susseguirono riunioni dei monaci tra di loro, con il loro arcivescovo mons. Teissier e con la gente del posto, al fine di comprendere il da farsi. Si decise, così, di rimanere a Tibhirine, continuando a discernere ˗ passo dopo passo ˗ il cammino che si aveva davanti.
L’08.05.1994 si inaugurava il martirio dei cristiani religiosi della chiesa algerina, poiché in quel giorno venivano uccisi Henri Vergès, frate marista, e Paule-Hélène, piccola sorella dell’Assunzione. Il 23.10 era la volta di Caridad Marìa Alvarez ed Esther Alonso, suore agostiniane missionarie. Il 27.12 sono stati quattro padri bianchi a cadere per mano di fondamentalisti: Jean Chevillard, Alain Dieulangard, Charles Deckers e Christian Chessel. Il 03.09.1995 si registravano altre due vittime della furia omicida: Bibiane e Angèle-Marie, suore di Nostra Signora degli Apostoli. Circa due mesi dopo, il 10.12, sarà OdettePrevoust, piccola sorella del Sacro Cuore, a cadere sotto il fuoco integralista.
Nonostante la situazione diventasse sempre più tenebrosa e violenta, i trappisti decisero di rimanere fedeli a Tibhirine, condividendo con la popolazione locale il trovarsi all’incrocio tra due fuochi, quello dei «fratelli della pianura» (l’esercito) e quello dei «fratelli della montagna (i vari gruppi fondamentalisti diventati fuorilegge): «Abitiamo insieme una terra di speranza. La lavoriamo. Siamo gli abitanti della tua casa. Ci viviamo. Preghiamo in essa. Ci abitiamo fino all’ora della morte. Insieme abitiamo la tua mano. Da questa felicità aperta chi ci potrebbe sloggiare?».[2] Tale è stata la conditio sine qua non del loro stare, dimorare dove il Signore Gesù li aveva posti e convocati e aveva permesso loro di dare concretezza «in terra algerina al comando del Maestro: “Amate come io vi ho amati (cf. Gv 13,34), perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (cf. Gv 15,13): “fate questo in memoria di me” (cf. Lc 22,19)».[3]
Il 02.06.1996 sono state celebrate le loro esequie e due giorni dopo sono stati tumulati nel giardino del monastero di Tibhirine, dove riposano ancora oggi in attesa della Parusia del Signore Gesù. Il monastero dopo il loro martirio «è rimasto chiuso o, meglio, vuoto. Il seme gettato nel solco della montagna dell’Atlas con la loro testimonianza continua a portare frutto a Midelt (Marocco), circa 200 Km a sud di Fez, dove si trova la piccola comunità di trappisti che si è trasferita da Fez e che prosegue l’esperienza avviata a Tibhirine e dove si conserva la memoria dei “sette fratelli dell’Atlas”, a tal punto che oggi è proprio il monastero di Midelt a portare il nome di Notre Dame de l’Atlas, mentre Tibhirine ha assunto il nome di Notre Dame de Tibhirine».[4]
Il cerchio di questa ondata brutale di eccidi di religiosi cattolici si chiudeva il primo agosto di quello stesso anno: mons. Pierre Claverie, op, vescovo di Orano veniva assassinato con il suo autista musulmano mentre rientrava, in vescovado, da una celebrazione in ricordo dei sette monaci trappisti trucidati[5].
Questi sono i 19 martiri della chiesa di Algeria degli anni 1994-1996. Nella Positio si parla di Pierre Claverie e dei suoi 18 compagni tra religiosi e religiose, uccisi in odium fidei dal 1994 al 1996. In data 26.01.2018 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del Decreto relativo alla loro beatificazione che avverrà l’08.12.2018 a Orano.
Perché sono rimasti?
La domanda che molti si sono posti all’indomani del loro assassinio è stata: perché sono rimasti a Tibhirine se oramai era evidente che il rischio di essere uccisi diventava sempre più concreto? «Ospiti del popolo algerino, musulmano nella sua quasi totalità, questi fratelli vorrebbero contribuire a testimoniare che la pace tra i popoli è un dono di Dio fatto agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo e che spetta ai credenti, qui e ora, rendere manifesto questo dono inalienabile […]. Accanto agli oranti dell’islam, essi fanno professione di celebrare, giorno e notte, questa comunione in divenire e di non stancarsi di accoglierne i segni, come eterni mendicanti d’amore, per tutta la loro vita, se così piace a Dio, nel recinto di questo monastero dedicato a Maria, Madre di Gesù, sotto l’appellativo di Notre-Dame-de l’Atlas».[6]
Ciò che ha motivato la loro vita di cristiani in Algeria, paese per lo più musulmano può essere ricapitolato come «logica dell’incarnazione», cercando di comprendere «quello che Dio vuole nelle relazioni tra chiesa e islam», nel loro essere stati «oranti in mezzo ad altri oranti», fondati sulla «relazione con Cristo» per «incarnare», nel nascondimento, la «presenza di Cristo», come «comunità chiamata a generare attraverso la grazia dello Spirito»[7]. «Ospiti del popolo algerino», hanno vissuto la loro vocazione cristiana monastica in Algeria, in un «oceano di islam».[8] Da tale prospettiva «essere il corpo del Signore e incarnare la sua preghiera, i suoi sentimenti, in un monastero posto su di una montagna, ha significato anche […] essere uomini di preghiera tra altri uomini [e donne] di preghiera, nell’accoglienza, nella disponibilità, nell’amore».[9]
Bruno Chenu, l’allora redattore capo de La Croix, il 01.06.1996 – dunque il giorno prima delle loro esequie –li definiva «una comunità a misura dell’umanità»[10], in quanto «uniti solo dalla ricerca di Dio in una relazione fraterna con il popolo algerino»[11]e affermava che la loro vocazione è stata «quella di essere “segno sulla montagna”, secondo lo stemma di Tibhirine. Non crociati del dogma cattolico, ma dei fratelli di un popolo che si definisce attraverso l’islam. I monaci si consacrano quindi alla preghiera nell’assoluto rispetto della religione che li circonda, in un’umile sottomissione al disegno di Dio, in un servizio gratuito alla popolazione locale, in una ricerca esigente di comunione “dall’alto”, “come eterni mendicanti d’amore”».[12] Se sono rimasti a Tibhirine, lo hanno fatto per rimanere fedeli al mandato ricevuto dal loro Maestro e Signore, mandato che il monaco Lebreton aveva magistralmente esplicato grazie alla sua indole poetica: «Venire in Algeria attraverso te è un movimento d’amore infinito e preciso: va, ama questo popolo, sii il servitore del mio ti amo».[13]
Oscuri testimoni di speranza
Chenu riassume il senso di questo mandato, e della fedeltà che ne è derivata, offrendo «tre motivi» che «si impongono loro» e che giustificano il loro essere rimasti come «oscuri testimoni di una speranza».[14] Il primo motivo ad essere elencato è quello della «coscienza di una chiamata interiore. Essere là perché Cristo è là. “Dio ha tanto amato gli algerini che ha donato loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi”».[15]Il secondo è la «solidarietà con un popolo», quello algerino, in quanto «un popolo che non può partire, preso tra l’incudine e il martello di due violenze. L’alleanza con questo popolo ostaggio fa parte del voto di stabilità proprio della vocazione monastica».[16] Il terzo è «la comunione con una chiesa», quella che è in Algeria, «questa chiesa che tanto amano e che tanto li ama. Il loro vescovo, mons. Teissier, non ha mai smesso di visitarli, di incoraggiarli, pur lasciando loro piena libertà di scelta».[17]
La chiesa che è in Algeria è composta da quattro diocesi: Sahara, Orano, Constantine (con Ippona) e l’arcidiocesi di Algeri. Quest’ultima nella seconda metà del XX secolo è stata forgiata dal magistero episcopale di mons. Duval (dal 1954 al 1988) e di mons. Teissier (dal 1988 al 2008)[18]. È una Chiesa magrebina fortemente segnata dal dialogo tra cristiani e musulmani, come ha spiegato mons. Teissier: «È stato il cardinale Duval, allora arcivescovo di Algeri, […] che ha aiutato l’ordine dei Cistercensi a comprendere che la Chiesa in Algeria riceveva […] la vocazione ad essere un segno evangelico in una società musulmana».[19]Nel luglio 1994, Lebreton affermava: «I nostri vicini non ci immaginano in un luogo diverso da questo con essi. È con loro il posto per vivere la nostra vocazione monastica e scrivere qui una povera e imperfetta risposta di discepoli nella Chiesa-viva».[20] In uno scritto della comunità monastica di Tibhirine del 21.11.1995 si legge: «Dopo il Natale 1993, noi tutti abbiamo scelto nuovamente di vivere qui insieme […]. E la morte brutale ˗ di uno di noi o di tutti insieme – sarebbe solo una conseguenza di questa scelta di vita alla sequela di Cristo».[21]
Il 29.12.1996 Enzo Bianchi, riferendosi al martirio dei sette trappisti, spiegava così il fine ultimo della fedeltà: «per sola grazia di Dio e non per calcolo umano, trovare la sua piena manifestazione in una morte violenta: quando accade, non fa che mettere in evidenza ciò che si era desiderato che la vita quotidiana stessa rendesse visibile. Appare così agli occhi di tutti quello che prima era nascosto: chi ha una ragione per morire rende manifesta la ragione che ha per vivere […]: Gesù di Nazaret, morto e risorto».[22]
Papa Francesco, in occasione del XX anniversario dell’eccidio di Tibhirine, nella Prefazione – datata 02.01.2016 – al volume Tibhirine, l’héritage[23], ha esortato in questi termini la chiesa di cui è pastore universale: «Venti anni dopo la loro morte, siamo invitati a essere a nostra volta segni di semplicità e di misericordia, nell’esercizio quotidiano del dono di sé, sull’esempio di Cristo. Non ci sarà altro modo di combattere il male che tesse la sua tela nel nostro mondo. A Tibhirine si viveva il dialogo della vita con i musulmani; noi, cristiani, vogliamo andare incontro all’altro, chiunque egli sia, per allacciare quell’amicizia spirituale e quel dialogo fraterno che potranno vincere la violenza. “Per conquistare il cuore dell’uomo, bisogna amare”, confidava fratel Christophe, il più giovane della comunità. Ecco il messaggio che possiamo serbare nel nostro cuore. È semplice e grande: sull’esempio di Gesù, fare della nostra vita un “Ti amo”».[24] Credo che sia questa l’eredità lasciata dai monaci martiri di Tibhirine e dei loro dodici compagni.
[1]Cf. M. Susini, I martiri di Tibhirine. «Il dono che prende il corpo», EDB 2004; Da perseguitati offrire il futuro, in PSV 59 (2009) 255-271. Per quanto riguarda il rapporto discepolato-martirio nella vicenda di Tibhirine, cf. Il martirio come compimento del discepolato. “Allora sarò veramente discepolo” (Ignazio ai Romani), in PSV 61(2010) 163-183.
[2]C. Lebreton, Il soffio del dono. Diario di Fratel Christophe Monaco di Tibhirine, Edizioni Messaggero, Padova 2001,151 (07.05.1995).
[3]M. Susini, Da perseguitati offrire il futuro, 258.
[4] Ivi, 256.
[5]Cf. M. Susini, I martiri di Tibhirine, 17-19, 30-36.
[6]Frére Christian de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Foglio di presentazione del monastero agli ospiti, in Dotti (cur.), Più forti dell’odio, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano (Bi) 2006, 35-36. D’ora in poi: Più forti dell’odio, 35-36.
[7]Cf. M. Susini, I martiri di Tibhirine, 40-62.
[8] Espressione che si trova in C. de Chergé, Oranti in mezzo ad altri oranti, in Più forti dell’odio, 47.
[9]M. Susini, Da perseguitati offrire il futuro, 257.
[10]B. Chenu, Introduzione, in Più forti dell’odio, 19.
[11]Ivi 20.
[12]Ivi 24.
[13]C. Lebreton, Il soffio del dono, 151-152 (08.05.1995).
[14]B. Chenu, Introduzione, 27.
[15]Ivi.
[16]B. Chenu, Introduzione, 27.
[17]Chenu, Introduzione, 27.
[18]Cf. M. Susini, Cercatori di Dio. Il dialogo tra cristiani e musulmani nel monastero di Tibhirine. Con documenti inediti rinvenuti in Algeria, Marocco e Francia, EDB 2015, 26-69.
[19] H. Teissier, Introduction. Témoins de la paix jusqu’au martyre, in R. Masson,Tibhirine. Les veilleurs de l’Atlas, Cerf/St. Augustin, Paris/St. Maurice 1997 ,13.
[20]C. Lebreton, Il soffio del dono, 93 (02.07.1994).
[21]Nella situazione attuale, come ci ricolleghiamo al carisma del nostro Ordine?, in Più forti dell’odio, 186.
[22] E. Bianchi, Prefazione,in Più forti dell’odio, 8-9.
[23]C. Henning (cur.), Tibhirine, l’héritage, Bayard, Paris 2016.
[24]Francesco, Introduzione, in C. Henning (cur.), Tibhirine, l’héritage: www.news.va/it/news/un-segno-sulla-montagna-prefazione-di-papa-frances.