La maniera con cui Amoris laetitia affronta le questioni della famiglia può o, forse, deve condurre a rivedere la portata delle affermazioni del magistero ecclesiastico in queste materie e dunque favorire una revisione o una reinterpretazione della questione dell’infallibilità? Hans Küng lo crede, perché – lo sappiamo – ha scritto in questo senso a papa Francesco.
Mi sembra, più in generale, che più che per una questione specifica, papa Francesco con i suoi atteggiamenti, con la spontaneità delle sue parole, ma anche con i suoi discorsi preparati e le sue lettere indirizzate, ponga il teologo di fronte al temibile compito di rivedere – bisognerà vedere fino a che punto – la teologia fondamentale. La mia impressione è che, proponendo la “misericordia” come nome di Dio, alla luce della quale vivere e interpretare la nostra fede e il nostro comportamento cristiani, Francesco ci inviti a intraprendere uno spostamento significativo.
«Amore misericordioso» e verità
Non è il primo. Prima di lui, santa Teresa del Bambino Gesù proponeva la visione di Dio come «Amore misericordioso», e questo le è valso il titolo di dottore della Chiesa. Studiando poc’anzi la figura di papa Giovanni XXIII, mi domandavo se, un giorno, lo stesso titolo non potrebbe essere attribuito anche a lui, dal momento che ha dato all’amore quel primato fino ad allora riconosciuto alla verità (cf. G. Lafont, «Giovanni XXIII. L’impatto del suo carisma sulla vita e la teologia della Chiesa nei secoli avvenire», in Id., La Chiesa: il travaglio delle Riforme, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, 124-148).
Se si parla di «Amore misericordioso», infatti, si privilegiano elementi di sensibilità spirituale, gesti simbolici, un’accoglienza affettiva e una risposta cordiale, si privilegiano elementi di morte e di risurrezione (dare e ricevere la vita), direi di «poetica» piuttosto che di «logica» dell’esistenza… Il peccato, prima di essere una trasgressione della legge di Dio (ciò che certamente è) diventa soprattutto un’offesa all’Amato, cosa che diventa insopportabile (come sopportare di offendere Dio?) ma, nel contempo, superabile, perché può essere l’occasione di vero pentimento e di perdono; etiam peccata (anche i peccati), diceva sant’Agostino…
La verità, in questa prospettiva, diventa un elemento di misura e di rettitudine nello slancio dell’Amore. Corrisponde a ciò che, in Dio o nell’uomo, comporta di permanenza, di stabilità, di essere. Ma la verità non esiste a parte o al di fuori dell’Amore. Non ha il carattere di un’idea platonica, di una legge immutabile iscritta in un Libro dettato dalla Divinità suprema, di un concetto staccato dal suo contesto immaginoso, affettivo, passionale. Se la verità può designare un’«essenza» pensata al di fuori del tempo, è anche vero che essa si manifesta in un corpo e nel tempo e che sono questi elementi a qualificarla. Senza di essa, però, l’Amore misericordioso rischierebbe di restare un sentimento debole.
Natura, un’idea complessa
Mi preme citare qui un testo ammirevole di Olivier Clément, sulla parola «natura», che, giustamente, è spesso al centro delle controversie contemporanee: «Ciò che noi chiamiamo “natura” è in realtà un miscuglio relativamente plastico di vita e di morte, in cui l’uomo può intervenire per aumentare le possibilità e le chances della vita. Egli può farlo perché è una persona che, radicata nel Cristo vincitore della morte, trascende la “natura” e si libera parzialmente delle sue costrizioni. Il criterio, per un cristiano, non è quindi la natura ma la persona e l’amore». (O. Clément, Corps de mort, corps de gloire, DDB, Paris 1995, 100). Direi, sfumando un poco: «Se il criterio, per un cristiano, è la “natura”, che lo sia all’interno della persona e dell’amore; e il conflitto, qualora ce ne fosse uno, dovrebbe essere risolto al livello della persona e dell’amore».
In questa prospettiva, mi sembra che nozioni come quella di «dogma» o di «infallibilità» corrispondano a una stagione del pensiero in cui la verità, cioè l’espressione intellettuale della cosa così com’è o del dovere così come s’impone, è stata preminente. Ciò corrispondeva facilmente all’idea di un Dio unico, che contrassegna ogni cosa con la sua esclusività, di modo che la richiesta inevitabile è la perfezione: Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu; una formula che – se la si prende sul serio – è profondamente scoraggiante, perché essa ci lascia nel sentimento constante dell’impotenza colpevole: «Ahimè! Non ce la faccio proprio!».
Verità, dogma, infallibilità
È certamente molto importante, affinché si possa vivere, poter conoscere la verità. Dobbiamo cercarla (i filosofi, i letterati, i teologi, io stesso, non fanno che questo!). Dobbiamo riceverla da Dio, quando ce la rivela. Ed è normale che il magistero di Dio ci sia comunicato da uomini che hanno ricevuto al riguardo un carisma profetico. Ma è altrettanto bene che ciò che è comunicato e la forma umana della comunicazione avvenga con il passo dell’amore, dunque della passione, del tempo, del dono… Impossibile non richiamare ciò che papa Francesco non smette di ripetere: fare discernimento.
L’ecumenismo, ad esempio, ha senso solo come riavvicinamento di visioni diverse, provocato dall’urgenza dell’amore: «Che siano una cosa sola!», ma non di una unità rigida (che rende tutto uguale!), quanto piuttosto di un reciproco riconoscimento. Gli accordi cristologici tra Chiese cristiane, raggiunti negli ultimi anni, ne sono manifestazione.
E il dogma, allora? E l’infallibilità? Voglio dire, un po’ paradossalmente, che riconosco nel Syllabus (1864), nelle encicliche Pascendi (1907) e Humani generis (1950), nel documento Ordinatio sacerdotalis… dei pronunciamenti autentici e solenni, che hanno orientato la fede e la prassi nel tempo in cui furono pubblicati e, in parte, li riconosco come pronunciamenti «definitivi», nella misura in cui ogni documento successivo avrebbe dovuto tener conto del «quanto di verità» che essi contengono. Ma la lettura che si fa di questi documenti non sarebbe vera se fosse slegata dal momento storico in cui sono apparsi, dalle categorie allora disponibili, dal temperamento, dalla teologia e dalla storia umana dei papi che li hanno pubblicati.
Amore è responsabilità
Se conservassi aperti nel mio ufficio il decreto Lamentabili di Pio X e il libro di Marco Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica d’Israele (Bari, Laterza, 2007), non lo farei per giudicare il secondo alla luce del primo, ma per «immaginare» una lettura possibile oggi della storia sacra, una lettura che «discerne». E il decreto Lamentabili mi ricorda che vi è una «misura» cui fare attenzione. In questo senso, confesso che non mi convincono molto i tentativi di sapere se questo o quell’altro pronunciamento del magistero sia infallibile, definitivo, irreformabile… (sono «esercizi ginnici» recenti nella storia della Chiesa!).
Basta dire che quei pronunciamenti sono «veri», che hanno cioè il carattere al tempo stesso fermo e fragile di ogni pronunciamento espresso con parole umane in un dato momento storico per aiutare a raggiungere l’Amore misericordioso. Mi sia permesso di dire che i testi di papa Francesco non li canonizzo, non ne faccio dei «documenti del magistero», ma dei testi «veri», che mi ispirano, ma nei confronti dei quali mi sento libero. Il suo avvento, che è un evento, è per me una rara benedizione, un po’ come l’evento Teresa di Lisieux, l’evento Dietrich Bonhöffer, l’evento Giovanni XXIII. Ma, nel quadro dell’Amore misericordioso, devo conservare la mia libertà di giudizio e di azione.
Il primato dell’Amore misericordioso non conduce affatto al relativismo, ma conduce alla responsabilità, ed è forse per questo che ci fa paura. Non ricordo più il nome di uno dei critici di John Henry Newman, che diceva il suo desiderio di ricevere ogni mattina, nello stesso tempo del Times, un decreto della Santa Sede da leggere facendo colazione! Sarebbe evidentemente più facile. Sarebbe umano? Sarebbe gradito a Dio? Le parole e i gesti, posti sotto l’impulso dell’Amore misericordioso penetrato dalla verità evangelica, sono rischiosi, come tutto ciò che ha a che fare con l’amore: da parte dei papi come da parte dei cristiani. Non sono infallibili, ma, per la maggior parte, se non proprio sempre, sono «veri».
(testo a cura di Francesco Strazzari)
La brillantezza e la chiarezza di padre Ghislain Lafont sono sempre da apprezzare. Mi piace molto la sua disamina sulla verità all’interno della funzione magisteriale della Chiesa. In particolar modo, il fatto di non assolutizzare mai il Magistero al punto da togliere la libertà e la creatività al pensare teologico, sia esso di scuola o del semplice e comune fedele credente.
Ogni elemento magisteriale va poi collocato nel suo preciso momento storico, linguistico e culturale così da collocarlo intelligentemente nel suo humus vitale ed evitare ogni possibile tradizionalismo escludente.
La ‘rivoluzione’ bergogliana, se così la si può chiamare, mi perdoni il buon papa Francesco il quale non ama definirsi un rivoluzionario nella Chiesa e della Chiesa, ci sta portando ad un gradino più alto e più profondo nel far teologia: se la teologia si stacca dalla vita concreta (di Dio e dell’uomo, specie se povero) cessa di compiere la sua missione ecclesiale. La sfida pastorale, ossia dell’ascolto e del discernimento a partire dalla ‘carne del fratello’ che è la “carne di Cristo” deve essere il punto centrale attorno alla quale nasce e si sviluppa la funzione teologica.
E notiamo come anche certi episcopi e certi porporati, da troppo tempo abituati a fare i pastori con l’odore delle carte, e con poco odore delle pecore, siano a disagio dinnanzi alla richiesta del Papa.
E allora come cogliere e accogliere il Magistero? Non ho altro da dire…se non che esso venga a svolgersi sempre a favore della Verità, che è Gesù Cristo, ma sempre con i piedi per terra: attento cioè ai segni di Dio nella storia, segni che possono essere individuati con il doppio binario dell’ascolto della Parola di Dio e dell’ascolto delle sofferenze e delle gioie degli uomini e delle donne del nostro tempo.
E concludo con un passo tolto dall’articolo di padre Lafont: “Mi sia permesso di dire che i testi di papa Francesco non li canonizzo, non ne faccio dei «documenti del magistero», ma dei testi «veri», che mi ispirano, ma nei confronti dei quali mi sento libero. Il suo avvento, che è un evento, è per me una rara benedizione, un po’ come l’evento Teresa di Lisieux, l’evento Dietrich Bonhöffer, l’evento Giovanni XXIII. Ma, nel quadro dell’Amore misericordioso, devo conservare la mia libertà di giudizio e di azione”.