Tra recenti vicende ecclesiali e l’approssimarsi della prima sessione del Sinodo sulla sinodalità diventa sempre più urgente la necessità di mettere mano a una spassionata analisi critica del potere.
Marco Ronconi ha messo in risalto la pericolosità e ambivalenza della retorica (ecclesiastica) del potere inteso come servizio. Una simile declinazione è possibile solo all’ineffabile Dio e, sotto determinate circostanze storiche, al suo logos figliale fatto carne. Nel tempo della storia umana e delle sue istituzioni, la possibilità del servizio come forma di esercizio ed espressione del potere è questione escatologica. Sarà così solo alla fine dei tempi.
Finché siamo dentro il tempo e la storia, di un potere come servizio sono possibili solo briciole, abbozzi, frammenti. Attorno a questa accozzaglia minimale sta tutto il grande resto del potere che si attua secondo la propria natura. E anche qui la riflessione di Ronconi ci soccorre: il potere è per natura violento (pone limiti, definisce spazi, genera dentro e fuori, e così via).
Stante la riserva escatologica sopra indicata, la violenza del potere è la forma del suo esercizio anche in quella istituzione che chiamiamo Chiesa. Quando questa violenza emerge non ci si dovrebbe scandalizzare più di tanto, infatti il potere (anche nella Chiesa) segue così il corso della sua natura.
È vero piuttosto il contrario: la forma più gentile possibile del potere rappresenta un’eccezione di cui meravigliarsi; un suo slittamento rispetto al senso che lo abita. Una briciola di delicatezza sommersa da un oceano di violenza. Tutto questo, nella Chiesa, facciamo una gran fatica ad accettarlo − per molte e varie ragioni.
Ma nessuno ne è immune: nel momento in cui desidero una Chiesa ospitale, come istituzione, aperta e accogliente a prescindere dalle condizioni e stati di vita delle persone, faccio inevitabilmente violenza su chi immagina e sente la Chiesa altrimenti.
Per consolarci, e immunizzarci da questa violenza intrinseca del potere, ci consoliamo col dire che questa Chiesa che immaginiamo è quella più prossima all’Evangelo o alla verità di Dio (a seconda del lato su cui ci poniamo). In questo modo giustifichiamo l’inevitabile esercizio violento del potere necessario alla realizzazione del nostro desiderio sulla comunità del Signore. Siccome giustificato, storicamente od ontologicamente, facciamo finta che l’esercizio secondo verità del potere non faccia violenza. Ma non è così.
In una recente intervista, Johanna Rahner (professoressa di teologia sistematica ed ecumenismo a Tübingen) ha affermato che la partecipazione battesimale al sacerdozio comune implica una trasmissione del potere di guida nella Chiesa ai laici. La trasparenza del sillogismo è ineccepibile, come la sua verità. Ma questo non risolve ancora la questione né della intrinseca violenza del potere né della sua moderazione − e certamente non produce da sé una forma moderata del suo esercizio.
L’idea che il semplice passaggio del potere da una mano all’altra, da uno stato all’altro di vita cristiana, garantisca un contenimento della sua natura violenta rasenta il pensiero magico. E soprattutto permette di rimuovere ulteriormente il fatto che anche il potere secondo bontà e verità è comunque violento.
Di qui l’invito, ripetuto più volte in Italia da Stella Morra e da molte altre teologhe del nostro paese, di dare parola a chi, nei secoli, quella violenza del potere ecclesiale l’ha subita. I poveri, le donne, i marginali, persone che vivono relazioni omoaffettive, o quelle che hanno una identità sessuale fluida, divorziati risposati… l’elenco sarebbe lungo se risalissimo il corso millenario della storia della Chiesa cattolica.
E questo potrebbe essere un punto di partenza: la narrazione della violenza inferta dall’esercizio del potere in nome del Dio di Gesù e dell’Evangelo. E questo non come perversione dell’intenzione di Dio o della destinazione dell’Evangelo, ma come qualcosa di connaturale anche quando si hanno questi riferimenti – proprio perché di potere si tratta. Il problema, ammesso che si riesca ad arrivare davvero a questo punto, è come maneggiare la perla preziosa di questa narrazione del potere che si abbatte sui vissuti.
Cosa farne, una volta che essa è diventata bene almeno parzialmente condiviso all’interno della comunità del Signore? Uno sguardo sapiente gettato verso l’esito inverso di tanti processi storici di liberazione, con la loro inevitabile aura messianica, è necessario. Il liberatore che si fa tiranno, gli oppressi che nella giusta rivendicazione dei propri diritti si trasformano in carnefici, sono tutti capitoli della nostra storia umana.
Non così deve essere tra voi! Ottimo, bello, addirittura poetico – ma come deve essere allora? Immaginare che l’oppresso, per natura, sia immune all’esercizio del potere (e quindi della violenza) non è che l’altra faccia della medaglia della retorica (oramai insopportabile) che chiama servizio l’esercizio del potere nella Chiesa.
La pretesa di ogni addolcimento del potere, che spinge verso il suo esercizio gentile, quindi non violento, deve essere guardata con estremo sospetto – perché nel momento in cui si parla di gentilezza non si parla già più di potere (che comunque rimane, immenso resto indomabile).
Duemila anni di cristianesimo ci mostrano, in ogni confessione e in ogni configurazione istituzionale, l’evidente impossibilità della fede di trasformare in gentilezza il potere. Ma ci mostrano anche il fallimento dell’Evangelo quantomeno per quel che concerne il moderare la violenza del potere che esso, storicamente, pur sempre consente.
E questo dovrebbe essere il punto di inizio di ogni riflessione − teologica ed ecclesiale, compartecipi entrambe alla natura violenta del potere e al fallimento dell’Evangelo nell’esserne argine efficace.
La storia delle istituzioni ci può essere d’aiuto, perché essa mostra che una moderazione dell’esercizio del potere e una sua limitazione sono storicamente possibili. Sempre in questa storia possiamo anche trovare forme collettive di governo della comunità, che permettono di immaginare una democrazia diversa da quella rappresentativa – che si sta oramai estinguendo in Occidente, aprendo verso nuove aspirazioni di totalizzazione, da cui derivano i percorsi odierni di totalitarismo illiberale.
In questo il soffermarsi sulla sinodalità rappresenta un’occasione epocale per la nostra Chiesa. Dopo due millenni in cui essa ha derivato la sua struttura istituzionale in forma osmotica dalle strutture politiche del mondo, almeno fino al XIX secolo (congelando fino a oggi quella raggiunta allora), si apre la possibilità di mettere in atto un processo inverso. Ossia quella di offrire al nostro tempo, nel mezzo della crisi della democrazia, una configurazione realmente fraterna del vivere insieme fra i molti diversi tra loro.
Johanna Rahner notava la necessità di un nuovo diritto ecclesiale, e questo potrebbe essere un ulteriore punto di partenza se con ciò non si intende semplicemente una nuova versione del Codice di diritto canonico. Se ci si mette in questa ottica, ossia quella di una nuova visione del ruolo del diritto nella Chiesa cattolica, credo che il primo passo da compiere dovrebbe essere quello dell’invenzione di una diritto pubblico (interno) ecclesiale. In questo modo si potrebbe iniziare a ribilanciare l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, che – in vista e a partire dai Patti Lateranensi – sull’altro lato ha sviluppato un suo diritto pubblico esterno.
Le imminenti assisi sinodali stanno come sospese su un vuoto giuridico che rischia di neutralizzare le possibilità pur sempre inscritte in esse. Consapevoli di questa instabilità ordinamentale, esse dovrebbero portare all’avvio di un processo costituente interno alla Chiesa cattolica: ossia alla genesi di un vero e proprio ordinamento pubblico complessivo dell’istituzione ecclesiale. Questo implica un referente costituzionale, con una sua propria e singolare normatività giuridica non derivata rispetto all’intero del corpo istituzionale e delle istanze intermedie che ne caratterizzano l’edificazione storica.
La natura violenta del potere (anche quello ecclesiastico) si troverebbe così regolata, normata e controllata da una istituzione giuridica in grado di governarla e di verificarla – con procedure che sono non soltanto note, ma anche accessibili all’opinione pubblica ecclesiale.
Questo consentirebbe di superare quel cono d’ombra fatto di arbitrarietà nell’esercizio del potere, che aggiunge alla sua connaturale violenza anche un tratto di meschinità e sopruso. Condizione in cui versa da tempo nella Chiesa un potere ancora strutturalmente immune a tutto tranne che alla lotta clericale per il suo accaparramento.
Posto che si debba discutere cosa sia il potere (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2019/07/sul-potere.html) perché esso viene inteso come dominio, ma non è per forza così… concordo totalmente sul fatto che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha modellato il proprio assetto istituzionale e amministrativo-procedurale su ciò che esisteva già. Oggi appare nella sua forma ancora legata al modello monarchico che al massimo, nel migliore dei casi, ha dato vita a episodi sporadici di monarchi illuminati. Un certo bilanciamento dei poteri per evitare lo strapotere di uno nei confronti dei molti appare necessario. Ma come? Vedremo se il Sinodo riuscirà a generare un processo di democratizzazione. D’altronde democrazia è potere del popolo e il Concilio Vaticano II ha messo l’accento sul popolo santo di Dio.
Marcello Neri, condivido totalmente la proposta del suo scritto. E più ancora, il metodo che propone, quello di una Chiesa che si svincola dalla logica violenta del potere, diventando segno e modello di relazioni umane non violente. Questo però è possibile solo se si dà la possibilità di una fisionomia differente del potere, un potere ‘dolce’. Cosa che mi sembra lei ritenga irrealistica. In questo caso però non vedo proprio come e in che cosa la Chiesa possa differenziarsi dal modello di potere violento che ha così a fondo e a lungo pervaso – e tuttora pervade – la stessa esperienza ecclesiale. Un potere di servizio, da cui è espunta ogni retorica, deve essere possibile; un potere-servizio, che ovviamente sconta la finitezza creaturale intrinseca a ogni realtà mondana. Intendo dire che anche il servizio del potere è sottoposto come tutto (anche la verità di un post precedente) al limite del relativo. Dunque non può assolutizzarsi. Può solo tendere asintoticamente verso una irraggiungibile (nel tempo) pienezza.
Personalmente ho sperimentato una utile chiave di verifica della presenza/assenza di retorica dell’affermazione sul potere di servizio. Un servizio è tale quando si viene richiesti di esercitarlo. Ogni qualvolta invece si briga o ci si dà da fare per volere quel potere, allora la maschera retorica è palese e sta a coprire solo la tracimazione di un Io che si autoelegge a possessore di verità e giustizia.
Mi sembra che quello che lei chiama potere “dolce” non sia poi così lontano dalla mia proposta di potere moderato. Qui si aprono due versanti. Uno è quello istituzionale, nei suoi sviluppi storici, e qui credo che sia necessario un argine di carattere costituzionale – perché il Vangelo non è fatto per governare e controllare questa dimensione assunta dalla comunità dei discepoli e delle discepole del Signore. L’altro è quello della dimensione profetica della fede, anche quando assume forme istituzionale, e su questo il Vangelo può lavorare senza snaturarsi. E’ questo lavoro evangelico che può dare forma cristiana all’esercizio del potere nella Chiesa, previamente contenuto da un’istanza giuridica atta a fare ciò – ossia a limitarne la pervasività.
Sig. Tobia, la fede in Cristo è una fede incarnata. Ovvero resa esperibile nell’oggi della storia, dentro un dato contesto culturale che non è sempre uguale ma varia nel tempo e nello spazio. La chiesa cattolica non ha ancora incarnato la fede dentro il paradigma della modernità. E’ in ritardo di almeno 200 dice va C.M.Martini. Il concilio vaticano II ha iniziato a colmare questo ritardo, in particolare con la costituzione Gaudium et spes dove si avvia un nuovo rapporto con la cultura moderna. Questo spostamento da una chiesa prigioniera della cristianità medievale ad un chiesa aperta la mondo ha provocato lo scisma dei tradizionalisti che rivendicano di essere loro i veri cattolici. Tutto questo per dirle, sig. Tobia, che se lei si trova a disagio nella chiesa di Francesco e del vangelo incarnato, può, tranquillamente abbandonare questa chiesa ed andare a raggiungere i seguaci di Lefebvre. Il nostro processo sinodale proseguirà senza di lei. Siamo un popolo di re, sacerdoti e profeti in cammino nella storia.
Quindi per lei chi ha delle riserve sulla direzione della Chiesa deve abbandonarla? Ma la Chiesa non era un ospedale da campo per l’umanità ferita? Dove è il dialogo? La sinodalitá consiste nel dover approvare decisioni già prese in precedenza?
In realtà se ne sono andati già in tanti.
In troppi.
E mi pare che il Buon Pastore si preoccupi per le pecore disperse.
Ma certamente avrò capito male io.
Caro Salvo Coco , certo proseguite pure il vostro progetto di Chiesa 2.0, proseguite il vostro cammino sinodale con gente tipo Luca Casarini esempio di discernimento, saggezza e mitezza cristiana!
Voi fate entrare i lupi e cacciate le pecore. Voi bastonate i servi fedeli e premiate i servi malvagi.
Voi avete fatto scempio della Vigna del Signore : e questo scempio lo chiamate “adeguarsi della Chiesa alla modernita’ ”
Ma sempre piu’ gente vi anbonfona e non crede piu’ in voi ,sempre piu’ fedeli si allontanano, sempre piu’ chiese vuote, sempre piu’ sedie vuote alle udienze papali.
La gente non sa che farsene della Chiesa 2.0 , creata in laboratorio per adattarla al mondo contemporaneo, vuole la Chiesa eterna di Gesu’ Cristo !
Come al solito la sua lettura della storia e dell’opinione altrui è rozza e semplicistica. D’altronde questa è la logica delle ideologie rivoluzionarie: discernere i bianchi dai neri, gli amici dai nemici del popolo. Quanto al giudizio storico sul Concilio – Concilio che io approvo in toto – inteso come passaggio da una chiesa medievale ad una moderna, beh si commenta da solo: è un giudizio storicamente risibile! Per lei tra la chiesa del Medioevo ed il CVII ci sarebbe una specie di buco nero storico, mah! Qui lei soffre della stessa malattia dei tradizionalisti che parlano stoltamente di “una chiesa di sempre” fissa nel tempo: come sempre gli opposti estremismi si toccano! Per il resto purtroppo lei non affronta i punti da me sollevati. Ma anche questo fa il paio col suo atteggiamento da tribunale stalinista.
Però prima di essere condannato in via definitiva ed essere condotto al gulag, debbo deluderla: non frequento messe tradizionaliste e non coltivo nostalgie antiquarie. Ritengo semplicemente che un cristiano debba obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Penso che debba conservare il “sacro deposito” degli apostoli piuttosto che stravolgerlo seguendo “ogni vento di dottrina”. Solo così potrà essere luce sul moggio e sale della terra.
Bisogna certamente parlare ed annunciare ai propri contemporanei ma portando la parola della grazia non i vani sofismi di tanti teologi contemporanei: la gente ascolta queste cose ogni giorno da mille pulpiti che sanno predicarle meglio di lei e di suoi sodali.
In fine mi appello inutilmente alla clemenza della corte… ma non me ne andrò così facilmente stia sereno.
Alla fine è lo Spirito di Dio a guidare la Chiesa, non lei, non io, non i prelati.
Saluti
Saluti
Prima cosa da fare è ridare ai termini il loro senso. Cos’è la violenza? Uso ingiusto della forza. Cos’è la giustizia? Agire secondo verità. Dunque il problema fondamentale è cosa è la Verità, domanda che Pilato rivolse a Gesù, quel Pilato che usò ingiustamente del proprio potere. La Verità era di fronte a lui: era Gesù, centro e culmine della Rivelazione, caratterizzata dalla misericordia e, proprio per questo, dalla Verità. Questa è l’adeguazione della mente alla realtà delle cose, al loro ordine così come è voluto da Dio. In parte la si può raggiungere con l’intelletto umano, ma senza la Rivelazione non si giunge alla Verità tutta intera. Il potere poi è legittimo quando serve alla verità per il bene comune. Data l’eredità del peccato originale a volte, o spesso, questo si esercita ingiustamente ma, per sé, chi dice “potere” non dice per forza “violenza”, come abbiamo detto. Chiariamo tutto questo altrimenti l’unica criterio rimane la violenza per far prevalere la propria infondata opinione.
Credo che anche per la verità si possa dire che essa sta sotto una riserva escatologica: la storia umana, e in essa quella della Chiesa, è un cammino di approssimazione a una verità che rimane ineffabile. Solo in quel tempo sarà possibile un reale agire secondo verità quale espressione piena della giustizia. Noi viviamo ancora nel tempo dell’attesa di quel compimento, sperato da tutti – anche da chi non la pensa come me – nella Chiesa del Signore. In questo tempo che resta si pone la questione del potere e della sua violenza, anche nelle approssimazioni meglio riuscite, ma sempre parziali, alla verità che sarà.
Dice Paolo che a ciascuno è dato un carisma per il bene comune. Compreso il cd. governo che l’apostolo menziona tra i carismi di cui sopra. Sicché non è che tutti (in quanto re, sacerdoti e profeti) fanno tutto ma ognuno esercita il ministero commisurato al carisma che Dio gli ha donato e la comunità (Chiesa) gli riconosce. È così semplice ma anche duro da accettare per i moderni perché poco democratico.
Quanto alla violenza – come qui intesa in modo genericissimo – va detto allora che anche il Cristo fu violento quando redarguì farisei, sadducei ecc. O quando prospettò 9un violentissimo giudizio finale. Quanto alla omoaffettività (nuovo lemma della neolingua), identità sessuali fluide, divorziati risposati ecc., la Chiesa sino ad oggi non ha fatto altro che annunciare la parola di Dio e la sua grazia che illuminando la condizione umana la libera da ogni schiavitù delle passioni ingannatrici. È violenza questa o è carità della verità che rende liberi? È potere vessatorio o servizio fraterno? La risposta dipende dalla nostra fede: se è riposta nella Scrittura, nella Tradizione e nella retta ragione oppure se si appoggia su Reich, Freud, Marx, Foucault, Butler e compagni.
A volte mi chiedo per quanto tempo ancora si potrà restare cattolici nella Chiesa Cattolica.
Ma quante belle inutili parole! Già la Sig.a J. Rahner fa inorridire con la bufala del sacerdozio comune e poi con la sinodalita’ innovazione tesa a mettere nel Corpo Mistico ogni genere di perversione. Gesù Cristo stesso era violento e si è accapparrato ogni potere. ” O con me o contro di me!.” Quindi voler cambiare ciò che per diritto divino è voluto da Dio : Chiesa Santa Madre gerarchica è il solito peccato di Adamo. Preferisco come oggi un papa che sbaglia piuttosto di un parlamento senz’ anima dove ogni bestemmia diviene santità. Siete falliti vi rendete conto?
Mazzoldi
Il sacerdozio comune dei fedeli è dottrina della Chiesa e non bufala della Rahner. Non credo che la violenza sia voluta da Dio per diritto divino… e nel caso il vangelo dice anche di amare i propri nemici, cosa che mi sembra lei non ritenga altrettanto di diritto divino. Perché lei può esprimere la sua opinione (il papa sbaglia…) e la prof.ssa Rahner no?