Conducimi, guidami, lungo il cammino. Perché se tu mi guidi, io non posso allontanarmi.
Signore, fammi camminare ogni giorno con te. Conducimi, oh Signore, conducimi.
Con i suoi echi del Salmo 23, l’inno Lead me, guide me riflette una coscienza e una fiducia in Dio nel cuore della spiritualità afroamericana.
L’inno, scritto nel 1953 da Doris M. Akers – nota come “Miss Gospel Music” -, sarebbe poi diventato un classico amato nella tradizione gospel. La registrazione di Elvis Presley del 1971 introdurrà la canzone ad un pubblico americano molto più ampio e molto più bianco.
Come l’inno da cui prende il nome, Lead Me, Guide Me: The African American Catholic Hymnal, l’innario pubblicato per la prima volta nel 1987, è una testimonianza della profondità e dell’ampiezza della spiritualità cattolica nera che va dai canti degli schiavi e dagli spiritual alla nascita della musica gospel nel XX secolo e alla musica liturgica di compositori pionieri come Richard Allen, James Weldon Johnson, Thomas Dorsey, Grayson Brown, Leon Roberts, Clara Mae Ward e padre Clarence Joseph Rivers.
Il fatto che la Akers e molti dei compositori inclusi nell’innario Lead Me, Guide Me non fossero cattolici suggerisce una saggezza spirituale che i cattolici neri hanno compreso meglio di molti altri. La cattolicità a cui aspira la Chiesa – un’universalità radicata nella presenza di Dio in tutta la creazione – si estende ben oltre i confini visibili del cattolicesimo romano.
Infatti, il contenuto e lo spirito ecumenico dell’innario è uno dei suoi risultati più notevoli. L’innario celebra il cammino di fede di un popolo – di diversi popoli di origine africana – la cui presenza nella Chiesa non è sempre stata ben accolta.
Come cattolico bianco, cresciuto nel sud, e come adolescente che passava molte domeniche mattina a suonare il piano alla messa, non sapevo nulla del canto o della maggior parte della musica contenuta nelle pagine dell’innario fino agli anni seguenti, quando mi sono trasferito a Denver e frequentando una comunità cattolica prevalentemente nera e ho iniziato a suonare il piano per il suo coro giovanile.
Nei successivi trasferimenti in Indiana e Ohio, prima di tornare a Denver, ogni volta che la mia famiglia si trovava a cercare una nuova chiesa da chiamare casa, controllavo sempre se Lead Me, Guide Me fosse l’innario prescelto. In caso contrario, continuavamo a cercare. Altri innari hanno eccellente musica liturgica; ma la storia e la spiritualità espresse in questo particolare corpo musicale sono diventate per me una seconda casa, una casa spirituale lontano da casa. Senza di essa, qualcosa in me comincia ad appassire sui tralci.
Cantare l’anima della comunità
Suor Thea Bowman, nella sua prefazione all’edizione del 1987 di Lead Me, Guide Me, dà voce al pathos divino della fede e della spiritualità afroamericana. “Il canto sacro nero celebra il nostro Dio, la Sua bontà, la Sua promessa, la nostra fede e speranza, il nostro viaggio verso la promessa”. Il dinamismo di queste parole trasmette la stessa energia che pulsa nel racconto dell’Esodo del popolo ebraico, in viaggio dalla schiavitù attraverso il deserto, affiancato da nemici da ogni lato.
È la consolazione di camminare con Gesù e di Gesù che cammina con noi mentre cerchiamo di amare oggi un po’ meglio di quanto abbiamo fatto ieri. È la convinzione che la bontà di Dio e le promesse di Dio risuonano ancora nel desiderio di libertà del popolo e nel grido dei profeti, passati e presenti, “Lasciate andare il mio popolo!
“Il canto sacro nero – scrive suor Thea – ha melodie e tonalità, ritmi e armonie, metafore, simboli e storie di fede che parlano ai nostri cuori; parole, frasi e immagini che ci toccano e commuovono”. In inni come Lead Me, Guide Me, per esempio, il pronome in prima persona, l'”io” e il “me”, è sempre comunitario. “L’individuo canta l’anima della comunità”. Il canto sacro nero “è concepito per commuovere e muovere. Si muove perché la profondità del sentimento gli conferisce un potere spirituale”. È, in un senso molto reale, “il canto del popolo”.
“Il popolo africano è un popolo diunitario – osserva suor Thea -, che cerca la ricchezza di significato in un’apparente contraddizione. Non hanno problemi a mettere insieme realtà che possono apparire contraddittorie o in opposizione: per esempio, corpo/spirito, sacro/secolare, individuo/comunità. Vanno verso l’unificazione o la sintesi degli opposti.
Dio è come padre e madre. Dio è come il fuoco e il balsamo”. E ancora: “gli afroamericani per 400 anni hanno usato simboli e canzoni per esprimere una fede e un desiderio troppo alto, troppo basso, troppo ampio, troppo profondo per le parole, troppo appassionato per essere confinato in concetti”.
Questa sensibilità accentuata per l’ineffabile – allo stesso tempo mistico e profetico, contemplativo e mistagogico – è il cuore di una tradizione spirituale provata dal fuoco. Per prendere in prestito dal monaco cattolico e scrittore spirituale Thomas Merton, il ritmo di chiamata e risposta del culto cattolico nero media “una comunione con un altro in Dio che è oltre le parole, oltre la parola, oltre il concetto”.
Un arazzo di coraggio e fedeltà
Immaginate nella vostra mente una vasta trapunta: un mosaico di immagini, ritratti e racconti di tragedia ed eroismo; una registrazione vivente di un popolo che viaggia nella storia. Come il mantello del giovane Giuseppe nella Bibbia ebraica, la trapunta dell’esperienza cattolica nera negli Stati Uniti è intessuta di molti colori, culture, nazioni di origine e stili di culto – una storia irriducibile a qualsiasi singola figura o trama univoca.
Vi si intrecciano nomi di fama e di coraggiosa visione spirituale: donne come la venerabile Henriette Delille, la serva di Dio Madre Mary Lange, e Suor Thea; uomini come il giornalista laico cattolico Daniel Rudd, il rev. Augustus Tolton e Cyprian Davis. E nel nostro tempo, persone come il cardinale Wilton D. Gregory di Washington, teologi come i rev. Bryan Massingale e M. Shawn Copeland, e l’elettrizzante Amanda Gorman, una giovane cattolica nera e la prima persona ad essere ricevere l’Alloro di Poeta Nazionale dei Giovani.
E, naturalmente, ci sono innumerevoli altri testimoni nascosti della fede intessuti nell’arazzo cattolico nero, nomi e storie poco conosciuti o che probabilmente non avranno mai un rilievo pubblico nella Chiesa.
Nell’arazzo della mia immaginazione cattolica, troverete Joyce Coleman, una parrocchiana della St. Agnes Catholic Church (ora Chiesa della Resurrezione) a Cincinnati. La sua storia offre uno scorcio notevole importanza sull’esperienza cattolica nera negli Stati Uniti – una storia sia gioiosa che traumatica, un tessuto sia unito che lacerato: “i miei genitori mi hanno battezzata da neonata a Selma, in Alabama. Mio padre fu tragicamente ucciso nel 1944, lasciando mia madre con il mio fratellino e io.
Fin da quando ero una bambina piccola, mi è stato insegnato che sono amata con un amore eterno. Di fatto, mi è stato fatto il lavaggio del cervello con l’amore nelle scuole cattoliche. Le Suore di San Giuseppe mi hanno insegnato che nessuno è migliore di me. Dio vede tutti noi e ci ama tutti. Non c’è bisogno di vergognarsi mai di ciò che si è, perché Dio non fa errori.
Jim Crowe non aveva un effetto cosciente su di me a Selma, anche occupava tutta la città. Spiegava le sue ali ed era cattivo. C’erano fontane d’acqua, bagni, ingressi e scuole per le persone di colore. Di conseguenza, mia madre mi ha insegnato a prendermi cura di tutto ciò di cui avevo bisogno prima di uscire di casa. Sono stata condizionata a evitare circostanze umilianti e, fino ad oggi, uso raramente le strutture pubbliche. Ho costruito delle difese per proteggermi…
Nel Sud, conoscevo il mio posto, per così dire. Le strutture e “ogni cosa” erano separate, ma solo quando sono arrivata in Indiana per frequentare il liceo cattolico ho capito che vivevo in una società separata. Fu lo shock della mia vita.
C’erano solo 4 o 5 bambini neri nella mia classe di matricole e padre Muldane, il parroco, ci trattava come se fossimo stupidi… ignoranti. Ero distrutta!
Crescendo, la mia famiglia non aveva soldi per attività extra, così leggevo. Leggere era la mia fuga. Amavo Shakespeare e Edgar Allen Poe; li amavo così tanto che potevo citare i versi e i soliloqui.
Posso ancora sentire padre Muldane che mi dice: “I negri non capiscono Shakespeare”. Non potevo credergli! Beh, io capivo Shakespeare, Poe, Dickinson e chiunque altro. Pensai: “Devo sopportare questo?”
Padre Muldane era “Jim Crowe” per me. Mi diceva che ero ignorante e mi chiamava n… Non significava nulla per lui il fatto che mi fossi laureata prima della classe a Selma. Di conseguenza, ho messo il 150 per cento di impegno per eccellere a scuola… Questo lo ha fatto impazzire. Non mi chiamava, e quando prebdevo buoni voti mi accusava di imbrogliare. Mi diede una insufficienza in inglese. Rimasi dopo le lezioni per parlare con lui. Quando gli ho detto: “A Dio non piacciono i cattivi e farà i conti con te”, mi diede una punizione…
Vedete, l’educazione che ho ricevuto alla scuola elementare era più che imparare dai libri. Sapevo di essere una figlia di Dio ed era difficile per padre Muldane o chiunque altro far crollare questa mia convinzione…
Sì, ci sono stati momenti nella mia vita in cui avrei voluto arrendermi, semplicemente abbandonare. Ma attraverso tutto questo, ho imparato a confidare in Gesù… La mia vita ha uno scopo, e so che il Signore mi farà sosterrà in ogni passaggio”.
Non ho mai smesso di meravigliarmi della storia di Joyce Coleman. Da dove viene la forza interiore e lo spirito che l’ha resa capace, da adolescente, di guardare dritto negli occhi padre Muldane, una figura autoritaria nel suo mondo cattolico, e dirgli che “a Dio non piacciono i cattivi”?
La sua forza, come suggerisce il testo, proveniva in parte dalle cure della madre e dalla saggezza duramente guadagnata su come muoversi nel mondo in un corpo femminile nero; e dalla educazione ricevuta dalle Suore di San Giuseppe, che le insegnarono “più che imparare dai libri” e contribuirono a formare in lei un senso di autostima che l’avrebbe “inoculata” dal razzismo virulento che avrebbe poi incontrato nel Nord, non da ultimo da parte di preti e suore. La stessa Chiesa Cattolica: due realtà in netto contrasto.
Come si fa a “sopportare” le contraddizioni interiori che abitano fianco a fianco nella propria comunità di fede, e a trovare lo spirito e la forza per farlo da bambina?
Una saggezza forgiata dal fuoco
In Faith and Violence, una raccolta che include molti dei suoi saggi più profetici sulla razza durante gli anni ’60, Thomas Merton scrive della saggezza spirituale che nasce dalla sofferenza e dal conflitto sociale, come il tipo di sofferenza che Gesù ha sopportato quando ha fissato il suo volto verso Gerusalemme. Le parole di Merton mi ricordano Joyce Coleman e innumerevoli altri cattolici e cattoliche neri che hanno sopportato – anzi, sopportano – esperienze altrettanto dolorose nel loro cammino di fede.
“La via della saggezza – scrive Merton – non è un sogno, una tentazione o un’evasione, perché è al contrario un ritorno alla realtà nella sua stessa radice… Non si sottrae al fuoco. È nel cuore stesso del fuoco, eppure rimane calma, perché ha la dolcezza e l’umiltà che vengono dall’abbandono di sé, e quindi non cerca di affermare l’illusione dell’io esteriore”.
La giovane Joyce Coleman è stata capace di “rimanere calma” e di stare “nel cuore del fuoco” non perché abbia scelto semplicemente di ingoiare il rospo, o ancora meno perché ha evitato ogni confronto; al contrario, la sua forza e il suo spirito di resistenza sono nati, nuotando nelle profonde acque della spiritualità cattolica nera, dalla conoscenza fortemente interiorizzata di essere una figlia di Dio, del fatto che la sua “vita ha uno scopo” e che “il Signore mi sosterrà in ogni passaggio”.
I principali modelli di Merton per la via della saggezza erano il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Dorothy Day e, naturalmente, Gesù di Nazareth. Se Merton avesse conosciuto Joyce Coleman, e i molti altri cattolici neri che ho avuto la fortuna di conoscere, non ho dubbi che li avrebbe aggiunti alla sua lista di saggi nella fede.
La “dolcezza e l’umiltà” che caratterizzano la saggezza spirituale di tali persone non deriva dalla passività, dall’auto-umiliazione o dalla fuga davanti ai mali del mondo; deriva piuttosto dal cogliere e vivere la verità più profonda del nostro essere: la legge dell’amore, la conoscenza sentita di essere amati immensamente come figli di Dio.
Subire il “lavaggio del cervello con l’amore” significa essere formati nel potere di una forza di verità – ciò che Gandhi chiamava satyagraha: che nessun prete, politico o autorità dello stato potrà mai toglierci. Vivere con saggezza, dice Merton, è camminare con Cristo “non risolvendo la contraddizione, ma rimanendo in mezzo ad essa, in pace, sapendo che è pienamente risolta, ma che la soluzione è segreta… finché non si rivela. Il cuore saggio vive in Cristo”. Poiché Gesù cammina accanto a noi nel “nostro viaggio verso la promessa”, possiamo e dobbiamo superare ogni ostacolo. Il nostro Dio può creare una via d’uscita dove sembra non essercene nessuna.
La testimonianza dei cattolici e delle cattoliche di colore negli Stati Uniti si estende come una trapunta miracolosa, che viene intessuta ancora oggi. Pulsa nella carne e nel sangue con una spiritualità diunitaria che è capace di abbracciare sia il lamento profetico di una giovane Joyce Coleman (how long, o Lord, must we put up with this?), sia la gioia sacerdotale di essere abbracciati dall’interno della comunità e dell’intera creazione dall’amore.
Sono amata di amore eterno; e so anche che Dio vede tutti noi e ama ognuno di noi. Joyce Coleman canta l’anima di una comunità la cui fede in questo paese è stata provata dal fuoco attraverso generazioni, secoli. Cantare una tale fede significa, per il cattolico bianco che sono io, essere pieno di meraviglia e gratitudine – oltre le parole, oltre la parola, oltre il concetto.
Signore, fammi camminare ogni giorno con te. Conducimi, oh Signore, guidami.
- Pubblicato sulla rivista dei gesuiti statunitensi America (nostra traduzione dall’inglese).