Intervista a don Luciano Avenati, parroco di Campi di Norcia, in occasione della visita degli amici delle Caritas delle diocesi di Como e di Mantova che hanno stabilito un “gemellaggio” con la Caritas e la diocesi di Spoleto/Norcia. Nelle parole di don Luciano viene presentata la situazione sociale e pastorale del post-terremoto a tre anni dalle scosse che nell’agosto 2016 hanno colpito il Centro Italia.
Don Luciano puoi descrivere la situazione della tua parrocchia dopo il terremoto dell’agosto 2016?
Ci troviamo a Campi, uno dei sedici paesi della parrocchia a me affidata. Io qui risiedo, dopo il terremoto, nell’unico terreno della parrocchia ove è stato possibile far ripartire un minimo di attività attraverso dei container (chiaramente provvisori) in vista della realizzazione del “Centro di Comunità” finanziato dalla Caritas che evidentemente non potrà sostituire a pieno le strutture provvisorie di cui parlavo.
Ringrazio le Chiese di Como e di Mantova con le Caritas diocesane delle rispettive diocesi: finalmente si sta realizzando ciò che, insieme, era nostro desiderio fare sin dal 2016.
Dapprima pensavamo di fare questo Centro tra i due paesi di Campi e di Ancarano, in maniera da unire maggiormente le due comunità ma, per ragioni di terreno non adatto, non è stato possibile; poi era stato individuato un altro terreno di proprietà comunale che avrebbe reso la costruzione dipendente dalla proprietà del Comune, ed è per ciò che è stato accantonato.
Questo spiega i tempi che si sono allungati. Finalmente nel terreno della parrocchia sovrastante la zona in cui ci troviamo, sono partiti i lavori: è stata fatta la piattaforma dalla quale si innalzerà la costruzione prefabbricata in legno e in altri materiali antisismici.
Avremo un luogo di comunità più dignitoso e confortevole dei container, che già sono stati, e in parte lo saranno ancora, una buona ancora di salvezza per noi, una garanzia di vita lunga più di due anni; altrimenti qui sarebbe morto tutto: la parrocchia, la comunità, le attività, l’incontro, le relazioni.
La bellezza necessaria
Come sarà questo Centro di Comunità?
Questo Centro avrà una sua bellezza. Mi piace usare questo termine: bellezza. Già quando abbiamo allestito i container, abbiamo detto: dentro devono portare i segni della bellezza e della dignità. Quando ci si incontra, la bellezza è importante. Nella liturgia la bellezza è importante. Trovandoci in mezzo alle brutture delle macerie lasciate dal terremoto (e il terremoto ci ha tolto tanta bellezza delle nostre chiese e dei nostri luoghi di incontro) almeno quando ci raduniamo per la Messa e la preghiera o ci raduniamo semplicemente per stare insieme, è bene avere davanti agli occhi qualche segno di bellezza che ci rinfranchi il cuore. Voglio fare un esempio molto personale.
A volte qualcuno mi chiede da dove mi viene una certa sensibilità per l’architettura, l’arte, le cose belle. Io rispondo sempre così: sin da ragazzino sono cresciuto in un ambiente bello, paesaggisticamente bello, sia perché i nostri paesi, ricchi di chiese, dipinti, sculture, sono belli. Tutto questo ha creato il mio animo, l’animo della mia gente, la nostra sensibilità. Qualcuno venendo in questi luoghi, sia prima che dopo il terremoto, si domandava e si domanda come la gente poteva vivere “bene” in questi luoghi. Ed io ho sempre risposto che questi luoghi sono stati sempre estremamente vivi sia a livello economico che a livello culturale e artistico.
E tutto questo grazie alla azione e alla presenza nel territorio della Abbazia di S. Eutizio che, come tutte le abbazie, è stata un centro di preghiera, di lavoro, di cultura, di promozione umana e sociale. I paesi sono nati e cresciuti alla sua ombra. Ritornando al discorso della bellezza, mi sono detto: qui ci vuole ancora qualcosa di bello. Il Centro di Comunità risponderà dunque a questo doppio criterio: sarà luogo di aggregazione e di incontro ma anche luogo dove respirare ancora la bellezza dell’arte di questa terra, per quanto possibile. Per ciò la struttura riprenderà, con le architravi in legno a capriate, le strutture delle nostre chiese.
Ci rimetteremo i segni delle nostre chiese, quale una copia del crocifisso che era nella chiesa di san Salvatore, ora completamente distrutta, la più bella della zona (che si trovava qui a Campi). Vorremmo mettere anche una trifora – bifore e trifore sono ovviamente tipiche della nostra zona – sopra l’altare, un rosone sopra l’ingresso con qualche vetrata a mosaico, per ridare luce e colore: segni di Cristo che illumina la Chiesa e cioè la comunità che si ritrova. Ed io allora ringrazio ancora perché le Chiese ci aiutano non solo a costruire materialmente ma anche a rendere bello il luogo del nostro convenire.
La ricostruzione dei luoghi di culto
Cosa pensi della ricostruzione delle chiese che sono cadute?
Saranno segni evidenti di una vita che rinasce, riparte, prosegue, si trasforma. Dopo il terremoto, ho sentito spesso dire: “ricostruiremo tutte le chiese come prima, rifaremo le case e i paesi come prima”. E’ un discorso senza senso. Le chiese rase al suolo non possono essere ricostruite come erano prima. Sarebbe un falso. La storia segna i luoghi, i territori, le chiese, come è avvenuto nel passato. Ogni generazione, lasciando i segni di ciò che è accaduto, mette la propria sensibilità, la propria cultura: diventa importante conservare e trasmettere quanto abbiamo ricevuto dal passato, e quindi anche ricostruire quanto è possibile ricostruire.
Ma i nuovi interventi hanno bisogno di liberarsi da una sorte di “conservazione maniacale” che poi va a scapito della sicurezza e della stessa conservazione e sembra quasi negare i fatti e i segni della storia. Questo lo dico anche in rapporto alle case. Quante volte dopo il terremoto ci siamo detti e abbiamo detto alle autorità competenti che occorrono criteri nuovi nella ricostruzione. Perché non usare ferro e legno nella ricostruzione? Ci è stato risposto che non appartengono alle caratteristiche paesaggistiche di questo territorio.
Se nei secoli passati si fosse seguito questo criterio così stringente noi oggi non avremmo i paesi così come li abbiamo avuti fino al terremoto; ogni epoca ha il dovere di rispettare quanto ha ricevuto dal passato, ma ogni generazione ha anche il diritto di lasciare i segni del suo passaggio, della sua sensibilità e delle sue possibilità nel costruire i luoghi della vita e dell’aggregazione sociale e religiosa. Questa è la storia. Noi non vogliamo essere o diventare i custodi di un territorio che diventa come un museo a cielo aperto, ma che rischia di essere per moltissimi anni un museo di ruderi da vedere circondati da “tanto verde, tanto paesaggio, tanti animali”… ma vuoto di persone: di questo passo i paesi si spopolano più di quanto già non lo siano.
Cosa significa essere parroco di Campi e Ancarano oggi?
Qualche tempo fa, da parte di un prete che era venuto a trovarci, mi è stato chiesto che cosa avessi combinato per essere spedito a fare il parroco qui. La mia risposta è stata facile. Ho fatto il parroco per 45 anni nella zona di Assisi in parrocchie grandi e in un contesto molto più vivace e certamente diverso da questo. Ho poi desiderato io di tornare qui, dove sono nato (poiché sono originario di Norcia). Sono tornato qui volentieri. Anche dopo il terremoto sono rimasto qui e non me ne sono andato nemmeno per una settimana.
Non ho provato senso di angoscia e paura. Non so perché. O meglio so perché. C’è la forza e la grazia di Dio, la potenza dello Spirito Santo. Io penso di averlo sperimentato. Ero chiamato a incoraggiare e a ridare speranza alla gente. Il parroco ha la libertà di non avere una casa sua e di non avere una famiglia sua. Quindi non ha la preoccupazione diretta della famiglia, dei suoi figli e dei suoi nipoti.
L’unico scopo è di sorreggere e di sostenere altre persone. Il parroco non si può permettere di fare il depresso. Può capitare. Grazie a Dio non mi è accaduto. Anche perché io venivo da una grande parrocchia di 5.000 abitanti nei pressi di Assisi ove per 10 anni ho celebrato in un grande container con la comunità: è stata una benedizione perché là la gente si è ritrovata come una famiglia attorno all’altare. Tanto è vero che, quando siamo passati nella chiesa nuova, abbiamo fatto ancora una celebrazione nel vecchio container, quasi a dare un saluto a una persona “viva” e quindi per ringraziare il Signore del clima di famiglia che era cresciuto in un luogo a prima vista “deprimente”.
Qui io vivo la stessa realtà di famiglia. Qualche tempo fa ho partecipato a una celebrazione in diocesi per il Corpus Domini e ho avvertito una sensazione che avevo da tempo in comunità grandi: un grande disagio nel vivere celebrazioni di quel tipo. Qui ora tutto avviene in un rapporto estremamente familiare. La celebrazione domenicale è familiare, è immediata. Questa è la singolarità e il grande vantaggio. Mi ci trovo bene in questo.
Ho ora una casetta di legno qui a Campi. Sto benissimo. E’ la più bella della mia vita. La desideravo da ragazzo. E sto qui in mezzo alla gente. Mi è stato chiesto ripetutamente se ho mai pensato di andarmene. Nemmeno una volta! Sarei stato un “traditore”. Se il parroco se ne va, la Chiesa perde di credibilità e Gesù Cristo è un’idea e il buon Pastore un’immagine romantica.
Il terremoto, tre anni dopo
A tre anni dal terremoto, la gente di che cosa ha bisogno? Parlando con la gente, ci si chiede se è valsa la pena di restare qui. Da Norcia molte persone se ne sono andate.
Il fatto di essere rimasti è di per sé un consegnare alle nuove generazioni e alla storia l’amore per questa terra. Quando fummo ricevuti dal papa in udienza il 5 gennaio del 2017, dissi, pur con una certa resistenza, perché non volevo nessuna messa in mostra: “noi non siamo partiti”. Perché partire avrebbe significato ferire ancora una volta questa terra. Mentre il terremoto ferisce inconsapevolmente e inevitabilmente, tale ferita sarebbe stata prodotta da noi.
La gente che è rimasta è stata brava, pur con tutti i limiti – egoismi, rivalità, accaparramenti… – che anche qui ci sono stati e a volte ne vediamo le conseguenze. Alcune cose non sono state naturalmente gestite come si doveva. Ma nel terremoto è emerso l’animo delle persone. Ho scoperto che alcune persone che consideravo non splendide, si sono rivelate con un animo grande; altre che pensavo con un animo grande si sono rivelate… meschine. Il terremoto aiuta a far chiarezza, come tutte le situazioni di difficoltà della vita. La gente che è rimasta ha fatto una cosa buona. Non c’era altro modo di amare questa terra.
Certo, la lentezza burocratica, la lentezza nella ricostruzione, rischia di scoraggiare, di deprimere, di contristare la gente che non vede la ricostruzione. Ora dico un pensiero che è mio ma anche di tante persone: si poteva ricostruire, laddove i danni erano minimi, con aiuti immediati, anziché con contributi di autonoma sistemazione o con la costruzione delle casette (che sarebbero bastate in minor numero): 10.000, 20.000, 30.000 euro in molti casi sarebbero valsi a ripristinare subito le case, almeno il 20%.
In altre situazioni si doveva dire chiaramente se la casa sarà ricostruita o non sarà ricostruita. Si deve invece aspettare anni. Ci sono mucchi di pratiche. Non c’è personale in numero adeguato per dare una risposta. E poi bisogna snellire le autorizzazioni. Se intervengono 5-6 enti – la Protezione Civile, la Regione, il Comune, l’Ente Parco, la Soprintendenza…- e ogni ente deve esprimere il proprio parere, spesso diverso per cose minime, ogni volta si ferma tutto. Secondo me, occorrerebbe a livello di Enti che intervengono, da un parte, centralizzare per snellire, e dall’altra, cioè a livello di iter burocratico, decentralizzare sempre per snellire.
Se poi una casa non potrà essere ricostruita in un determinato luogo perché “lì passa la faglia” e quindi l’intero paese non potrà essere ricostruito e dovrà essere ricostruito altrove, occorre che la gente lo sappia perché prenda le sue decisioni senza attendere, “nell’illusione e nella delusione”.
Anche perché in ogni paese del territorio almeno la metà delle case, e a volte anche più della metà, appartiene a famiglie che da anni vivono altrove (Roma, Firenze, Pistoia…), e che qui tornavano per le vacanze estive o per qualche breve periodo durante l’anno. Per molti la casa qui era ed è un legame affettivo, ma se si dovrà necessariamente delocalizzare il legame verrà meno.
I paesi si stanno impoverendo e i residenti stabili si ritrovano “in pochi” a custodire e a vivere questo territorio che tuttavia merita e ha diritto di tornare a vivere, anche se in modo nuovo, come sempre lungo la storia è accaduto. Questo territorio ha bisogno di risorgere perché è un pezzo importante e significativo dell’Umbria e dell’Italia…, anzi dell’Europa e della sua storia perché qui è nato san Benedetto, colui che con le sue abbazie, lungo i secoli, ha seminato presidi di preghiera e di lavoro che hanno fatto la civiltà del nostro continente.
Il nostro Centro di Comunità vorrà essere un segnale chiaro di speranza per dire concretamente che qui la vita personale e familiare, comunitaria e sociale, culturale e religiosa vuole e deve ripartire in modo nuovo e più forte. E allora di nuovo grazie alle Chiese di Como e di Mantova e in particolare ai loro due vescovi, come anche alle loro rispettive Caritas diocesane che sono state e sono lo strumento di questa squisita e fraterna attenzione al nostro territorio. Vi aspettiamo per l’inaugurazione del Centro che è prevista per il 30 novembre prossimo, festa di sant’ Andrea, patrono di Campi.