L’articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 29 dicembre scorso ha suscitato alcune reazioni che hanno più o meno colpito il bersaglio: dall’invito moralistico alla fiducia nella Chiesa, anche nei momenti di crisi epocale, pubblicato da Gianni Gennari su Avvenire al rifiuto radicale di chi, come Fabrizio Mastrofini su Il riformista, cerca di mettere all’angolo l’editorialista, accusandolo di esprimersi su ciò che ignora.
Chi scrive ritiene che queste riflessioni interpellino, soprattutto con gli interrogativi che pongono, la teologia in quanto servizio ecclesiale, prima ancora che sapere accademico. Si tratta, infatti, dell’identità del Cristianesimo nel mondo contemporaneo, della sua efficacia, del presunto venir meno della sua capacità di coinvolgimento e della sua forza propulsiva.
Insomma, ritorna la domanda di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, al suo ritorno, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). I grandi temi che vengono evocati presentano una valenza teologica pregnante e interpellante e da questo punto di vista intendo rifletterli, attingendo alla mia esperienza di studio e di presenza nella Chiesa.
Il presunto “declino del Cristianesimo”, che l’editorialista intravede non solo in Occidente, ma nell’intero villaggio globale, non mi pare possa tout court essere interpretato come un’eclisse della fede. Piuttosto ritengo che siamo di fronte allo spegnersi, neppure tanto rapido o istantaneo, di due cliché che la teologia da decenni ha ormai stigmatizzato.
In primo luogo, quello della “religione civile”, ovvero di un’appartenenza religiosa che incide sempre meno sulla società e nella storia. Il paradigma sottintende un’esclusiva valenza etica della fede, in tal modo ridotta ad un sistema di valori da riportare nella vita sociale, culturale e politica di popoli e persone. Se il Cristianesimo è anche questo, non ci stancheremo mai di sottolineare come non sia solo un ethos.
A parte il fatto che l’incidenza di valori profondamente cristiani, sia pur secolarizzati, permea di fatto la cultura occidentale più di quanto essa stessa non intenda ammettere e più di quanto non si possa pensare, come ci ricorda l’incontro di Gesù col “giovane ricco” (Mt 10, 17-27), non è l’adesione ai valori a identificare la sequela. E non è nemmeno vero che la Chiesa attuale ignori o intenda ignorare il dramma dell’assenza del Dio di Gesù Cristo nell’attuale società.
Basterà ricordare un decisivo passaggio del discorso di papa Francesco alla curia romana in occasione degli auguri natalizi dello scorso anno: «Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» (21 dicembre 2019).
E in tale constatazione, quasi gridata, il papa dava voce non solo alle considerazioni del suo predecessore, ma anche a quanti da lungo tempo ormai denunciavano tale crisi, basti pensare al “cristianesimo in frantumi” di Michel de Certeau (pubblicato nel 1974). Lì il gesuita francese segnalava che spesso sono proprio motivazioni autenticamente cristiane a portare i credenti lontano dai luoghi convenzionali del culto e delle strutture.
La crisi allora riguarda e coinvolge, quello che Wilhelm Hendrik van de Pol denominava “cristianesimo convenzionale” e di cui auspicava la “fine”. Di qui la necessità, come ama ripetere papa Francesco, di avviare processi, piuttosto che occupare spazi.
Il futuro della fede si gioca quindi nella sua capacità di andare oltre la “religione borghese”, un orizzonte intravisto e segnalato da Johann Baptist Metz all’inizio degli anni ’80, denunciando una società che vede il prevalere di comunità parrocchiali o associazioni meramente cultuali o “religiose”, “quasi puro riflesso, in campo organizzativo, di quella religione borghese che dovrà essere superata lentamente, ma decisamente, in un simile processo di riforma” (J. B. Metz, Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1981, 77). La riduzione cultuale della fede cristiana compromette radicalmente il suo carattere profetico-critico e, disincarnandola, solo apparentemente la rende efficace.
Non sembra inoltre pertinente la denuncia di una presunta mancanza di democrazia, lesiva dei diritti, così come esposta dal Della Loggia. Il riferimento al caso Becciu, infatti, è improprio, in quanto nessuno dei suoi diritti fondamentali di battezzato e di vescovo è stato calpestato, bensì gli sono stati revocati i privilegi connessi alla porpora cardinalizia, che non può considerarsi affatto un diritto.
Nel momento in cui il vescovo di Roma ritiene che si sia incrinato il rapporto fiduciale al massimo livello che deve sostenere il sacro collegio, allora è nelle sue piene facoltà assumere provvedimenti come quelli adottati nel caso suddetto. In altro caso, le sanzioni sono state determinate dopo opportuno iter processuale.
Allo stesso modo sembra fuori luogo ritenere che si stia predeterminando la successione, con la nomina di cardinali, che risultino fedeli al Pontefice, come non è affatto storicamente fondata, neppure nella storia recente, la presunta discontinuità fra l’elezione di un papa e quella del suo successore, come se fra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non si sia data determinante continuità, pur nelle differenze che sempre caratterizzano l’indole, la cultura, la formazione di ogni vescovo di Roma.
Infine, la questione femminile e il ruolo delle donne nella comunità ecclesiale, con particolare riferimento ai centri decisionali. Quello che l’editorialista auspica è un obiettivo, cui tutti dovremmo tendere, ma che si realizzerà a lungo termine, mentre il processo che lo ha attivato è già in corso.
Mi sembra superfluo qui elencare le donne chiamate recentemente a ricoprire ruoli importanti nella Chiesa, mentre intendo concludere sottolineando che di tale processo è parte integrante un cambiamento di mentalità, che richiede da parte di tutti (ecclesiastici e laici) la capacità di interpretare l’autorità e il governo nell’orizzonte del servizio, piuttosto che del potere. La rivendicazione di ruoli apicali mi sembra sottendere un clericalismo rovesciato, dal quale anche siamo chiamati a difenderci e liberarci.
Tutti nella comunità credente dovremmo lavorare perché il Figlio dell’uomo al suo ritorno trovi fede autentica nel mondo, ispirata al mistero dell’Incarnazione, che stiamo vivendo anche in tempi così drammatici, e non sarà certo un gran danno se non troverà “religione borghese”, né “cristianesimo convenzionale”.
Oltre ogni riduzionismo etico e cultuale la fede è l’adesione della persona, con la sua conoscenza, volontà e affettività al mistero di Cristo e pertanto coincide con la sequela, non quantificabile in base all’incidenza dei cristiani nella vita pubblica né alla frequentazioni dei luoghi di culto.
Se da un lato il caso Becciu rappresenta un’occasione di dibattito acceso circa il suo iter processuale, dall’altro non bisogna dimenticare che il suddetto caso è stato toccato da E. Galli Della Loggia all’interno di un contesto più ampio e cioè quello della percezione di un cristianesimo, “ad extra”, forse più indebolito, disorientato o addirittura contraddittorio. Motivo per cui la risposta del prof. Lorizio si colloca nel giusto contesto di riflessione. La questione si gioca su un “piano” che va oltre il cristianesimo civile ed una religione borghese. Un “piano” che fonda e allo stesso tempo interpella la Chiesa nella sua poliedrica cattolicità, come richiamava Mons. Staglianó nel suo commento. La dimensione istituzionale della Chiesa non può essere ridotta ad una dimensione comunionale o profetica o ecologica, né viceversa. Tutte insieme reggono sinfonicamente. Chi pretende di focalizzarsi su un solo aspetto prima o poi imploderà. E la sfida della teologia, intesa come servizio ecclesiale, non può prescindere dal tenere insieme tutti questi aspetti in dialogo nell’attuale contesto storico. Se la dimensione istituzionale si comprende sempre più come servizio, ciò risponde con più fedeltà a quella dinamica che il prof. Naro invocava in riferimento al chinarsi di Gesù. Analogamente, se il “chinarsi” (kenosi) del cristianesimo scandalizza e ne sconvolge le immagini ormai superate, ciò potrebbe essere letto come un segno di conferma della sequela del Signore. Oltre ogni apparenza borghese (oro), oltre ogni solennità cultuale (incenso), oltre ogni gratuita condanna (mirra).
Post per Lorizio
Caro don Pino, dopo l’intervento di Galli della Loggia, un amico di milano mi ha chiamato al telefono per dirmi che era necessario “difendere il papa dall’attacco ingeneroso” e sottolineava che avrebbero dovuto farlo anzitutto i Cardinali. Non ho avuto esitazione nel rispondergli che il papa non ha bisogno di difese personali e che semmai dovevano intervenire i “teologi”, perché trattasi di dibattito pubblico su un tema importante come quello del futuro del cristianesimo, prima ancora che del suo presente: a che punto siamo, oggi? Ci interessa soprattutto pensando al domani, alle future generazioni. Attraverso la Chiesa cattolica il cristianesimo è traditio, trasmissione. Questo non significa che nel dibattito non possano intervenire vescovi o cardinali. Se lo fanno però, lo dovrebbero fare “teologicamente”, entrando cioè nelle questioni poste alla fede e al cristianesimo con l’intelligenza critica che sa offrire argomentazioni stringenti, in dialogo con quanti (come Galli della Loggia) hanno approcci diversi nelle proprie letture scientifiche o ideologiche del tutto legittime, nelle nostre società democratiche.
Eppure i teologi non intervengono, non solo in questo caso. Forse perché la teologia è anzitutto “sapere accademico” e fa fatica ad autocomprendersi praticamente come “servizio ecclesiale”. Dici bene tu: «queste riflessioni interpellano … la teologia in quanto servizio ecclesiale, prima ancora che sapere accademico. Si tratta, infatti, dell’identità del Cristianesimo nel mondo contemporaneo, della sua efficacia, del presunto venir meno della sua capacità di coinvolgimento e della sua forza propulsiva». E, infatti, c’è bisogno di intelligenza teologica, diffusa nel popolo di Dio perché le “parole usate” nei giudizi e nei racconti – che ognuno propone nel dibattito pubblico- siano per lo meno orientate nel loro “giusto senso”. Per restare al nostro dibattito, penso al tema della “Monarchia del vescovo di Roma, perché Capo della Chiesa universale”. È vero che il Vaticano è uno Stato e si deve distinguere dalla Chiesa cattolica e, tuttavia, la doverosa distinzione non può (in nessun caso) declinarsi in separazione: tutti sanno com’è organizzata la Chiesa cattolica nel mondo e i suoi rapporti “giuridici” col “papa monarca”; tutti sanno che la monarchia del papa è fondata sul “primato petrino” che non è solo un primato di onore (o semplicemente spirituale) ma anche giuridico. Da qui nasce il “paradosso” della necessaria armonia tra aspetti che risultano all’occhio dell’intelligenza di tutti “antinomici”, per cui questa Chiesa cattolica è governata da un Sovrano assoluto di uno Stato, il quale è identico anche al Pastore amabile del popolo di Dio, che esprime sacramentalmente Gesù, il “bel pastore che dona la vita per il suo gregge” (Gv 10). E non è la Chiesa tutta un paradosso, pe la sua natura “teandrica” (umano-divina)?
Ecco perché c’è bisogno di teologia come “servizio ecclesiale”, teologia diffusa, teologia popolare (se mi consenti anche Pop-Theology, pensando alla doverosa divulgazione scientifica a cui i veri grandi teologici sono tenuti per “diritti di evangelizzazione”). Se “servizio ecclesiale”, il lavoro teologico dovrà essere un “gioco di squadra”, onde formare comunità e singoli a una fede pensata e adulta, anzi, “adulta perché pensata”, che non si lasci confondere con gli opinionisti di turno. Certo non devo dirlo proprio a te che sei – monachos- intervenuto tempestivamente a sottolineare che il declino del “cristianesimo borghese” e la cosiddetta “religione civile”, lungi dal farci paura, potrebbe essere (ed è) una benedizione “kairotica”. Tanto per sottolineare che i processi di secolarizzazione fanno paura solo a chi (a-teologicamente) non sa cogliere come- se un certo mondo cade a pezzi- nuovi orizzonti per il cristianesimo si presentano.
Dovessi riferirmi a una canzonetta di Sanremo, canticchierei quella solita di Mengoni intitolata L’Essenziale, il cui ritornello fa così: “mentre il mondo cade a pezzi, io compongo nuovi spazi e desideri che appartengono anche a te che da sempre sei per me l’essenziale”. Cos’è l’essenziale del cristianesimo se non l’incontro con Cristo, sempre possibile sacramentalmente: in tutti sacramenti di Cristo, anzitutto quelle della Chiesa cattolica e poi anche in tutti gli altri, come i poveri, gli ammalati, gli scartati, gli umiliati… i migranti. Così raggiungo il bellissimo post di Massimo Naro al tuo intervento: il potere è indiscutibile, le tante forme del suo esercizio, si, assolutamente e sempre. E su questo a me pare che il magistero di papa Francesco sul potere del Monarca pontificio debba tener conto anche delle osservazioni critiche rivoltegli da Ernesto Galli della Loggia, perché – per quel che mi è dato di capire e fatto salvi i possibili errori del suo esercizio, spesso riferibili a “intrighi di potere Vaticano”, già denunciati apertis verbis ancor prima da Benedetto XVI- l’indirizzo di papa Francesco è quello della profezia di Gioacchino da Fiore: un papa angelico che senza i segni del potere, ma con il potere dei segni avrebbe governato la Chiesa cattolica, finalmente tutta pneumatizzata. Chi conosce il pensiero di Gioacchino da Fiore sa bene che questa angelicità e questa pneumatizzazione della Chiesa non hanno nulla a che fare con una “evaporazione” della carne della storia, ma piuttosto, invece, con una incarnazione o traduzione incarnata dell’amore trinitario nei rapporti umani, per una fratellanza universale non solo dei credenti, ma di tutti gli esseri umani. Raggiungiamo cosi Laudato sì e Fratelli tutti? Spero di intervenire sul tema della teologia come servizio ecclesiale più diffusamente. Perdonami del già troppo lungo post di oggi.
+Antonio Staglianò
Sono un pretuccio di campagna, sono vecchio e da sempre son vissuto in mezzo al popolo e penso sia opportuno mettere in pratica ” il prete deve avere il profumo delle pecore” di PAPA FRANCESCO in quanto il cristianesimo è una PERSONA che è entrata nella “carne” ed anzi è diventata un tutt’uno con l’uomo. Il PANE è una identità con l’uomo. Questo ha fatto GESU’ basta seguirlo… come il sale..il lievito.. la luce. Nella mia DIOCESI DI AVEZZANO abbiamo per 115.000 abitanti con 100 parrocchie 106 preti di cui 24 provenienti dall’estero e con 43 parrocchie con meno di 300 abitanti. cominciamo dal guardare la realtà ed agire di conseguenza perché se Gesù è venuto sulla terra vuol dire che il suo messaggio è segno di salvezza… andiamo in mezzo al popolo, parliamo di CRISTO che come la luce in una stanza dà senso alle cose così è la parola di CRISTO…IO mi vesto sempre col colletto, attacco bottone con coloro che mi trovo davanti, faccio affidamento alla loro libertà e mi hanno sempre ascoltato poi il risultato è competenza SUA…
la verità ci farà liberi e “la verità è dura come il diamante, ma tenera come il bocciolo (Gandhi).
don Francesco Di Girolamo http://www.settimananews.it/wp-admin/edit-comments.php#comments-form
Caro don Pino, ho ora letto il suo pezzo “in risposta” a Galli della Loggia. Un’interlocuzione molto meno anemica di altre che m’è capitato di leggere tra ieri e oggi: la ringrazio tantissimo per ciò che mi ha dato a pensare. Fra i temi da lei toccati, quello accennato in conclusione ha attirato particolarmente la mia attenzione: il tema dell’autorità nella Chiesa, da ripensare al di là della questione del genere (maschile o femminile) di chi la detiene e la esercita… Mi pare un buon spunto di riflessione per chi voglia seriamente porsi il problema del “potere” nella comunità ecclesiale, anche a partire dalla provocazione lanciata da Galli della Loggia, secondo cui la storia delle donne nella Chiesa è stata sempre una storia di sottomissione, da cui occorre che le donne stesse si emancipino, lottando contro il maschilismo delle gerarchie ecclesiastiche… Forse, dal punto di vista di una teologia elaborata “come servizio ecclesiale”, questa questione si potrebbe precisare in questi altri termini: nella Chiesa più che la necessità di emanciparsi, si dovrebbe avvertire l’esigenza di promuovere… Non si tratta, infatti, di sfuggire ai legacci altrui, ma di maturare l’attitudine a sciogliere i legacci (non solo i propri, ma anche quelli altrui), ad oltranza, con sempre rinnovata creatività, per garantire a tutti la possibilità di crescere e di raggiungere la più alta statura possibile, secondo la vocazione seminata dal Signore nei cuori di ognuno e in coerenza/corrispondenza a quelli che devono essere spiritualmente decifrati come i “segni dei tempi”.
A parere di Galli della Loggia, c’è bisogno che aumentino le donne nei posti in cui e da cui si governa la Chiesa. Con un’affermazione come questa è difficile non ritrovarsi d’accordo, se essa significa che la Chiesa dev’essere una realtà più autenticamente comunionale, in cui non si occupano dei posti e non si svolgono dei ruoli e, al limite, non si esercitano dei servizi in virtù del genere maschile piuttosto che femminile, bensì per vocazione e per carisma. Ma resta, tutt’attorno al tema del “posto” di governo, uno sfondo nero, che rievoca la questione del potere che noi esseri umani finiamo spesso per contenderci senza esclusione di colpi… Come spiegare che è proprio questo che non ci dev’essere nella Chiesa: nessun “posto di governo” (secondo la parola gesuana: «ma tra voi non sia così…»)? Ribadire che l’autorità nella Chiesa è sinonimo di servizio rischia ormai, dopo secoli di fraintendimenti e di tradimenti, di suonare retorico. Purtroppo la giustificazione dell’autorità finisce sempre per deteriorarsi nella discussione su chi sia il più grande… D’altra parte, ho l’impressione che non varrebbe a un bel nulla istituire e definire le “quote” nella gestione di un sistema ecclesiastico, che rimarrebbe pur sempre intrinsecamente burocratico. Ciò che ci si deve chiedere è invece se non sia il caso di abolire il “posto”. Oppure, per essere più evangelicamente realisti, se non sia urgente vivere l’impegno del “posto” in termini del tutto nuovi («fate dunque così: e cingendosi i fianchi…»).
C’entra con tale questione l’interpretazione del modo in cui le donne vengono chiamate in causa già nei racconti evangelici, a partire – in particolare – dalle apparizioni del Risorto alle sue discepole nel mattino di Pasqua. Secondo una certa lettura di queste apparizioni, dato che le donne all’epoca di Gesù non avevano riconosciuta la capacità giuridica di render testimonianza in un processo pubblico, di fatto esse risultano insignite di una inedita dignità allorché il Risorto le chiama – in Maria di Magdala – ad esser testimoni della resurrezione. Certo, si può convenire che è anche per la loro irrilevanza sociale/giuridica che le donne dell’epoca di Gesù vengono scelte come testimoni del Risorto e perciò insignite di una straordinaria dignità. Tuttavia non penso proprio che l’intento di Gesù – nello scegliere Maria di Magdala e le sue amiche – fosse di sancire una loro emancipazione, bensì di far comprendere che testimoniare il Risorto è una novità assoluta, inassimilabile a qualsiasi altra “testimonianza”. C’è qualcosa di ancor più radicale in gioco, ed è ciò per cui san Paolo arriva a dire «non più io, ma Lui», e inoltre – parafrasando – «non più uomo né donna, non maschio né femmina», e ancora «ecco, le cose vecchie sono passate, ne sono sorte di nuove».
Fa bene lei a ricordare a tutti – mi pare in questa prospettiva – che il posto cui ambire nella Chiesa non è quello dell’essere servito…
Ringrazio il prof Lorizio per l’intelligenza e la profonda conoscenza Teologica, che da sempre connotano i suoi contributi e che, come giustamente egli stesso sottolinea, si caratterizzano come ‘servizio ecclesiale’. Altissimo il livello, come sempre, sia dei contenuti che del registro. Di questo abbiamo bisogno se vogliamo affrontare con intelligenza, libertà e sapienza temi come quello della crisi del Cristianesimo nel nostro tempo. Non certo come ormai fa da tempo E. Galli della Loggia, che parla di ciò che ignora, con il piglio pregiudiziale ed aggiungo io reazionario, di chi a tutti costi vuole emettere sentenze apocalittiche sulla Chiesa e sull’operato di Papa Francesco, senza però avere nè la statura dei grandi Profeti, nè adeguate conoscenze in campo teologico , dottrinario e di diritto canonico. Forse andrebbe consigliato non solo al noto intellettuale ma anche a tutti noi, un’attenta lettura dei testi citati da Mons Lorizio, come quelli del gesuita Michel de Certeau( che hanno ispirato il pensiero di Francesco) o di Wilhelm Hendrik Van de Pol. Così come le ultime encicliche di Papa Francesco(cfr Evangelii Gaudium, Laudato Si, Fratelli Tutti), nelle quali il Pontefice, che non è così ingenuo come vorrebbe farci intendere Della Loggia,non solo esprime tutta la sua preoccupazione per la crisi del Cristianesimo nel mondo contemporaneo, ma traccia anche, come tutti i grandi profeti, pastori e teologi, prospettive e soluzioni, nell’orizzonte teologico e nella prospettiva della realizzazione del Regno di Dio che, come ben sanno gli uomini di fede, si realizzerà non solo attraverso le pur necessarie azioni umane ma anche e soprattutto con l’ausilio dello Spirito Santo, aldilà delle questioni critiche che esistono ed oltre ogni catastrofismo.
Grazie ancora al prof. Lorizio per averci dato spunti e sollecitazioni per ‘pensare la fede’ , con rinnovata passione ed intelligenza .
Romilda Saetta
Il garantismo non può e non dev’essere a convenienza. Nel vaticano, uno degli ultimi stati assolutistici, deve essere garantito il giusto iter processuale a tutti, non solo a Becciu. E quando dico tutti mi riferisco non ai tempi dell’inquisizione, bensì agli anni appena trascorsi dove decine di teologi sono stati oggetto di condanne senza le garanzie di uno stato di diritto. Per non parlare delle discriminazioni che subiscono le donne per il solo fatto di essere donne. I laici in genere risultano pesantemente mortificati nello loro dignità battesimale. Papa Francesco parla addirittura di annullamento della personalità (“il clericalismo, quell’atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente”). Il “nuovo” codice di diritto canonico non ha recepito gli impulsi provenienti dal concilio ed rappresenta la trasposizione giuridica di una ecclesiologia clericalista. Ciò detto: è sacrosanto indignarsi per il trattamento subito da Becciu, a patto di saperci indignare anche per mille altre vicende che si verificano in una chiesa che con grande fatica appare essere “semper reformanda”.
Splendido l’articolo, che sa di aria fresca e ossigeno, in una discussione che rivela un contesto culturale preoccupante, in cui è tanto facile per un esponente autorevole misconoscere le caratteristiche fondamentali del cristianesimo. Grazie all’autore per aver alzato il livello della discussione.
Quanto al tema della gestione della curia romana, sicuramente c’è ancora molta strada da percorrere. Mi sembra chiaro anche nella mente e nelle parole del papa. Ma è senza dubbio preferibile incamminarsi lungo la direttiva indicata dal prof. Lorizio. Finché le cariche non saranno comprese come servizio, sarà difficile gestire bene situazioni in cui chi ha un ruolo è sospettato di aver tradito. Se così fosse sarebbe lo stesso interessato a dimettersi, molto prima di dover essere allontanato.
Sarebbe inoltre abbastanza inutile e fuorviante spostare la discussione verso elencazioni di persone rimosse (o peggio non rimosse) dai diversi pontefici regnanti, in relazione alle loro condotte, reali o presunte. Anche per questo ha sbagliato Della Loggia a buttare nella discussione un singolo caso, per quanto emblematico del problema.
Gentile professor Giuseppe Lorizio, ho letto con interesse il suo articolo e la ringrazio per il suo argomentare, che – tono compreso – la qualifica positivamente rispetto ad altri. Io concordo quasi in toto con quanto lei ha espresso, tranne sul paragrafo che riguarda il cardinal Becciu. E oso sperare che, sotto sotto, anche lei non sia tanto sicuro di quanto ha scritto in quel paragrafo, visto che si è espresso con una formulazione dubitativa («Non sembra inoltre pertinente…»). Ecco: a me sembra invece assai pertinente proprio quel punto dell’articolo di Galli della Loggia.
Il Papa non è solo il successore di Pietro, e quindi – nella storia – il capo della cattolicità su questa terra (intesa come pluriforme manifestazione della religiosità del popolo cattolico), bensì anche il Capo politico dello Stato della Città del Vaticano. Secondo i magistrati di quello Stato – da lui nominati e retribuiti – egli risulterebbe anzi essere il loro «Re», che concentra in sé il vertice di tutti i poteri politici, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. È su questo piano che è avvenuto il corto circuito della punizione – così almeno l’opinione pubblica mondiale, alimentata o manipolata da certa stampa, l’ha intesa – inflitta dal Papa al cardnale Becciu. E il diritto che non è stato rispettato nei confronti di questo collaboratore del Capo di Stato vaticano è quello della presunzione d’innocenza, dal Papa descritto come un «diritto umano»: non quindi un diritto legato a un certo ruolo nella gerarchia, né all’essere un membro del popolo dei battezzati, ma alla persona in sé (prima ancora delle garanzie per un processo equo da parte dei magistrati).
Oso sperare che il silenzio assordante della Santa Sede di questi tre mesi e dieci giorni esprima soprattutto l’imbarazzo per questa infrazione di un diritto umano. E penso che il Papa, che in quanto Capo di Stato è un essere umano come altri Capi di Stato, sia stato spinto a compiere questo gesto da persone che potrebbero anche essere in cattiva fede. A meno che la stampa di tutto il mondo si sbagli e che il Papa abbia tolto al cardinal Becciu i diritti cardinalizi affinché – come ipotizzato da monsignor Galantino – lui sia libero di difendersi da attacchi ingiustificati, che risulterebbero calunnie.
Ma anche dal suo punto di vista, caro professor Lorizio, dal punto di vista della «teologia in quanto servizio ecclesiale» – benché io non abbia le sue competenze teologiche – c’è qualcosa che a mio avviso non torna nella decisione presa il 24 settembre. Quando, davanti al sommo sacerdote, venne percosso da una guardia, Gesù disse: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv. 18, 23). Adattando il messaggio evangelico al nostro caso, potremmo dire: «Se ho fatto del male, dimostrami dov’è il male; ma se ho fatto del bene, perché mi percuoti, stampa mondiale a cui sono stato dato in pasto?» A questo mondo chiunque – perfino Gesù – può essere accusato di ogni crimine, ma perché una punizione sia giustificata è teologicamente necessario – non solo opportuno – proprio quell’«iter processuale che in altri casi c’è stato», di cui lei ha scritto e che in questo caso è venuto completamente a mancare. Mi pare che la millenaria sapienza della Chiesa avrebbe dovuto suggerire prudenza, magari il consiglio del collegio cardinalizio, un processo canonico, proprio per discernere e distinguere le voci di corridoio – o di certa stampa – dai fatti reali. Per non parlare dell’episodio evangelico dell’adultera che – in quel caso colpevole – venne salvata da Gesù dalla gogna e dalla lapidazione.
Temo che la vittima designata di questo tranello, teso da forze che non definisco, non sia solo un cardinale, ma il Papa stesso. Spero che lo Spirito Santo illumini le menti e indichi una via d’uscita da questo incidente: per la libertà e l’unità della Chiesa. Con cordiale stima. AP