Una delle idee più importanti che sono servite per indicare in modo sintetico il contributo innovativo del concilio Vaticano II per la vita della Chiesa è quella di “partecipazione”. Con questo termine si intende il fatto che tutti i credenti sono chiamati ad avere un ruolo attivo all’interno delle comunità cristiane. In realtà, studiando accuratamente i documenti conciliari, si può vedere facilmente come vi siano questioni ben più spinose sulle quali il Concilio si è posto in una certa discontinuità con il passato, come, ad esempio, il rapporto tra il primato del papa e la collegialità dei vescovi, la visione relazionale della rivelazione, il rapporto dialogico con la società, la libertà religiosa, l’ecclesialità delle Chiese non cattoliche, e così via.
In ogni caso, anche l’idea di partecipazione è ben radicata nei testi conciliari. Essa trova le sue radici nel capitolo secondo della Lumen gentium, laddove si afferma che tutti i cristiani sono membri del popolo di Dio, e dunque condividono una fondamentale dignità. Su questa comune dignità si innestano poi le differenze dovute agli eventuali ministeri o alle diverse condizioni di vita cristiana.
La grande recezione di questa visione conciliare della Chiesa è una delle ragioni per le quali dal post-concilio ad oggi l’invito alla partecipazione è stata una delle vie più utilizzate per coinvolgere nuove persone nelle comunità cristiane. Non di rado, ancora oggi si cerca di avvicinare chi è lontano dal mondo ecclesiale invitandolo semplicemente a fare qualcosa in parrocchia, cioè a rendersi utile per mandare avanti i suoi vari servizi.
In effetti, potrebbe essere poco opportuno premettere a questo invito l’annuncio del Vangelo al fine di valutare se la persona che si vorrebbe coinvolgere nella vita ecclesiale abbia realmente fatto una scelta di fede, almeno iniziale. È molto più semplice accoglierla così com’è, senza indagini particolari, nella speranza che, una volta entrato nel circuito delle relazioni comunitarie, inizierà in qualche modo un suo cammino di fede.
Questo approccio, di fatto, ha funzionato in diversi casi, consentendo a tante persone un po’ distanti dall’esperienza cristiana di sentirsi oggetto di fiducia, di interesse, e di sperimentare la propria capacità di fare qualcosa di valido. Costoro hanno poi potuto trovare nella comunità cristiana una rete di relazioni importanti, e al loro interno hanno scoperto anche quella con il Signore. Non sempre, però, le cose sono andate così.
In effetti, il rischio di questo approccio è che le comunità cristiane si popolino di persone che, essendo state coinvolte semplicemente per fare un servizio concreto, non sono poi realmente interessate e disponibili a fare un cammino di fede. Non ci si deve stupire, dunque, se persone in questa situazione partecipano di rado o malvolentieri ai momenti di preghiera e di formazione, o se lo fanno semplicemente per pagare la “tassa” che consente loro di restare in un ambiente in cui si sentono benvoluti, o – peggio – per restare attaccati ad un ruolo di potere che hanno conquistato.
Questa problematica diventa ancora più complessa nel caso delle attività più strutturate di una parrocchia, come una società sportiva, un coro, i corsi musicali o di altro tipo, e così via.
Il rischio è che queste realtà, che dovrebbero collocarsi all’interno della vita comunitaria e che quindi dovrebbero avere primariamente una valenza educativa, finiscano per perseguire obiettivi propri, e quindi per entrare in conflitto proprio con le attività ecclesiali più importanti, in particolare con i momenti liturgici e quelli di formazione.
Evidentemente, non esistono soluzioni preconfezionate che consentano di superare queste situazioni di grave stallo della vita di una comunità. Una via imprescindibile è però sicuramente quella di tenere alta la comunicazione della fede. È molto importante che i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali non diano mai per scontato la genuinità delle motivazioni che spingono le persone a lavorare nella comunità, e non si stanchino mai di rifondarle nella fede in Gesù.
Certo, questo orientamento non determina alcun giudizio sulle intenzioni delle persone, che possono quindi entrare nel cammino comunitario con i loro dubbi e le loro fragilità. Tuttavia, tale forte e continuo richiamo all’identità evangelica della comunità e alle motivazioni di natura spirituale che dovrebbero animarla può però rendere consapevoli le persone che non hanno alcun interesse nei confronti della fede in Gesù di non essere del tutto “a casa loro”, e di assumere quindi uno stile di rispetto tale da non penalizzare in alcun modo il cammino di fede dei credenti.