Dopo la fine della dittatura civile-militare in Brasile, ci fu difficile comprendere che lo Stato era il nemico mortale di chi si oppone al capitale e difende la causa dei piccoli e dei poveri.
Rincontrare nuovamente dopo tanti anni il pensiero di Simone Weil sui concetti di diritto e di Stato rende possibile rivisitare lontane esperienze ecclesiali, che sopravvivono nella memoria con interrogazioni che non trovavano risposte.
Penso alla Commissione Pastorale della Terra del Maranhão (CPT-MA), dagli anni Settanta quasi fino alle soglie del nuovo millennio. Ero convinto che la nostra solidarietà ecclesiale ed ecumenica con le famiglie contadine minacciate, aggredite ed espropriate dal latifondo e dallo Stato avesse un incontestabile radicalità rivoluzionaria, che era provata dalle persecuzioni e dai martiri. E per molti – i testimoni del Regno di Gesù – certamente era così. Ancora oggi, vorrei che questa nostra insorgente opposizione fosse stata piú dura contro lo Stato o dura quanto la lotta contro il capitale. Ma non fu così.
Dopo la fine della dittatura civile-militare stentammo a capire che lo Stato è il nemico mortale di chi si oppone al capitale e difende la Vita e la causa dei piccoli e dei poveri.
La CPT-MA, infatti, era organizzata in termini speculari rispetto allo Stato: c’erano agenti che si occupavano di produzione e agroecologia – il ministero dell’agricoltura; c’erano agenti che accompagnavano il movimento sindacale – ministero del lavoro; c’erano avvocati civilisti e criminalisti – ministero della giustizia -; c’erano giornalisti e ricercatori – ministero delle comunicazioni e della cultura; c’erano agenti nel coordinamento – i ministri della Casa Civile; e poi c’era il ministero dell’economia, quello dei trasporti ecc.
Il quotidiano
Rapinando superficialmente l’antropologia del quotidiano da Michel de Certeau, che afferma che la vita quotidiana può essere reinventata con mille forme di bracconaggio, che sfuggono alle regole e ai controlli disciplinari del sistema, mi chiedo, con una trasposizione indebita, oggi, per la prima volta, se in quel tempo la CPT riusciva a praticare, nonostante agisse all’ombra del potere dello Stato, forme di disobbedienza e di autonomia.
La risposta, evidentemente soggetta a contradditorio, è che eravamo in qualche modo ostaggi dello Stato, e questo nonostante le forti motivazioni e la radicalità delle letture della realtà e le prassi di ascolto e di servizio.
L’esempio piú chiaro di questa dipendenza è l’appoggio dato dalla CPT alla politica fondiaria basata sulla disappropiazione dei latifondi aòllo scopo di una fantomatica Riforma Agraria: una politica che favoriva la conquista della terra da parte dei contadini, ma, nello stesso tempo, compensava i cosiddetti proprietari con indennizzi carissimi, in una logica di mercato che, in quegli anni, era sostenuta solamente dal denaro pubblico elargito dal Ministero dell’Agricoltura e dall’INCRA ai grileiros, ossia ai ladri di terra, quasi sempre senza documenti notarili per comprovare la proprietà. Con l’aggravante dell’assenza programmatica di politiche agrarie adeguate e sufficienti, dopo la creazione degli assentamenti.
Così anche l’opposizione radicale della CPT alla successiva politica del Credito Fondiario, che comportò una rottura con la posizione della CONTAG e della FETAEMA – sindacati ufficiali dei contadini – non era che un’opzione per il male minore della disappropiazione.
Accettammo, inoltre, la nomenclatura governativa per definire la “clientela” della cosiddetta Riforma Agraria, quanto al latifondo improduttivo, adottando per i Senza Terra e i contadini in generale – e non solo per i discendenti della colonizzazione europea recente – il concetto e le politiche agrarie dell’Agricoltura Familiare.
Vincolati alle logiche dello stato
Ancor più grave, poi, nell’ambito della politica di Regolazione Fondiaria, fu l’adozione da parte dello Stato e l’accettazione da parte della CPT del concetto di posseiro, – un’altra notte in cui tutte le vacche sono nere – per caratterizzare le innumerevoli culture delle comunità tradizionali presenti da sempre, con i loro territori fisici e spirituali, nei diversi biomi del Brasile, da sempre minacciate, violentate ed espulse dal capitale e dallo Stato.
Cecità dovuta al costitutivo colonialismo dell’élite dominante e, per certi aspetti, innocentemente introiettata anche da buona parte della CPT.
Un altro aspetto che ci vincolava alle logiche statali era la convivenza con i partiti di sinistra di cui condividevamo le proposte e su cui scommettevamo in possibilità elettorali per costruire una Riforma Agraria degna di questo nome. Oggi, molti di noi sanno, da tempo, che anche questo era un equivoco.
Il fatto che ricevessimo finanziamenti di enti ecclesiali europei inizialmente ci liberò dalla dipendenza di contribuzioni nazionali, costitutivamente segnate dal padrinaggio e dal clientelismo, che scambia anche il contributo pubblico come iniziativa della generosità dei politici di turno e chiede in cambio silenzio ossequiente e fedeltà elettorale. Ma questa libertà, quando le Chiese europee entrarono in crisi, anche economica, diventò sempre più difficile e problematica da esercitare perché, aumentando considerevolmente l’apporto finanziario degli Stati, aumentava parallelamente il potere di imporre metodologie alla progettualità della CPT.
E la metodologia che siamo stati obbligati ad adottare è quella sposata dall’ONU: quella di USAID, segnata dallo sviluppismo e dalla convinzione behaviorista – un altro sequestro, questa volta da parte della sociologia, di un paradigma psicopedagogico -, che esista un rapporto indiscutibile di causa ed effetto, tra le iniziative di servizio alle comunità contadine e le risposte, sempre concrete, monitorabili e verificabili delle comunità.
Imparare dal passato
Oggi forse riusciamo a superare in parte errori e sviste madornali del passato, valorizzando e accompagnando i processi di autonomia territoriale delle comunità tradizionali, dei quilombolas e dei popoli indigeni che compongono questa ragnatela di alleanze e di lotte. Ma il rapporto con lo Stato non è risolto – e questo è ovvio, perché non lo si risolve dall’oggi al domani – ma, purtroppo non è tra di noi oggetto di riflessione e di discussione, quanto nei tempi germinali e iniziali nella CPT del Maranhão, per lo meno in merito al discernimento sulla dialettica legalità-legittimità che era una preoccupazione costante.
Se è vero che emerge prepotentemente il protagonismo insorgente delle innumerevoli “Vias Campesinas”, molte volte la gravità delle violenze e dei conflitti fa pesare la bilancia sul piatto del diritto – delle relazioni con il potere giudiziario – e del protagonismo, inevitabilmente assistenzialista, degli avvocati popolari. E questo ci fa ostaggi ancora una volta del diritto e dello Stato.
Ed è qui che ritorna Simone Weil, citata all’inizio di questo scritto: paradigmatico è l’esempio che Simone usa per criticare radicalmente il diritto: «Quando si parla della sorte dei lavoratori, si sceglie in genere di parlare di salari… Dimentichiamo così che l’oggetto su cui si mercanteggia, di cui si lamentano di essere costretti a consegnarlo a basso costo, vedendosi negati il giusto prezzo, altro non è che la loro anima. Immaginiamo che il diavolo stia comprando l’anima di uno sventurato e che qualcuno, impietosito nei riguardi dello sventurato, intervenga nel contradditorio e dica al diavolo: “È vergognoso da parte sua offrire questo prezzo; l’oggetto vale almeno il doppio”. Questa è la funesta farsa che ha messo in scena il movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra…».[1]
Il diritto
La nozione di diritto era segnata da questo spirito del mercato fin dal 1789: il diritto si fonda sulla negoziazione e la spartizione; il diritto funziona a partire da rivendicazioni quantitative, commerciali, che non discutono mai l’egemonia della collettività e dello Stato. I Greci non avevano il concetto di diritto e si limitavano alla nozione di giustizia, principio questo che è anche supremamente evangelico, cristiano, anche se da sempre dimenticato dalle Chiese.
Sono infatti i Romani che inventano il diritto, concetto inseparabile da quello dell’impero, realtà “pagana, non battezzabile” in cui il diritto di proprietà, esteso alle cose e agli esseri umani, è il fulcro ispiratore di tutte le leggi. Solo la giustizia apre lo spazio all’agape, agli eccessi estremisti dell’amore. Costitutivamente, il diritto non ha alcun legame con l’etica e con la politica, ambiti fondamentali per la costruzione dell’umanità.
Esempio chiaro e trasparente dell’opposizione della giustizia al diritto è la testimonianza esistenziale, profetica e poetica di Pedro Casaldáliga, sempre legata alla Giustizia del Regno, quindi a un’idea e una realtà teologica che non è assolutamente riducibile, in un automatismo purtroppo mai contestato, alla tradizione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e alle successive complementazioni teoriche riassunte nel paradigma della Piattaforma DhESCA.
I diritti umani, proclamati presuntuosamente dall’Occidente, patiscono di un accostamento ossimorico con lo Stato. Infatti, come è possibile esigere politiche di implementazione dei diritti da parte dello Stato, che, da sempre, è nemico dei poveri, patriarcale, razzista e sessista, connivente con tutte le atrocità coloniali perpetrate contro i popoli originari dell’Abya Ayala, confermate dalla schiavitù degli afrodiscendenti e dal persistere di politiche costitutivamente disumane?
Concludendo, è necessario dire che la critica del diritto e dello Stato non si configurano come una proposta di cancellazione violenta e immediata delle istituzioni che ci governano, ma costituiscono, piuttosto, proposte di conversione etica e politica profonda a servizio di una prassi in cui i passi possibili per costruire il nuovo siano sempre ispirati dalla Giustizia e dall’Agape.
Insomma, che il metodo non tradisca mai il fine! Gandhi, per definire il metodo di lotta, ci faceva l’esempio del riso, che è riso nel seme che muore, riso nel processo di crescita, riso nella spiga. Così è per il Bene, che deve mantenersi tale lungo tutto il processo. Il fine non giustifica mai i mezzi! Potremo, allora, vivere al riparo dai cinismi pessimisti e paralizzanti, dal realismo impotente, schiavo delle convenzioni sociali che sempre spingono a cadere in compromessi al servizio dell’iniquità che governa il mondo.
[1]Weil Simone, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012, p.27.