Nell’anniversario della morte di Pavel Florenskij (8 dicembre 1937), il professor Natalino Valentini − intervistato da Giordano Cavallari − presenta la prima edizione integrale in italiano delle lettere scritte nei cinque anni di prigionia precedenti la sua fucilazione (Vi penso sempre, Mondadori, Milano 2024). Nell’intervista vengono ripercorsi i tratti fondamentali dell’opera e della vita testimoniale, patrimonio della cristianità per le attuali contingenze storiche.
- Caro Natalino, la prima edizione di questo epistolario è del 2000. Questa nuova pubblicazione integrale, edita pochi mesi fa, cosa aggiunge?
Dopo un complesso e accurato lavoro, finalmente è stato possibile offrire anche ai lettori italiani la prima edizione integrale di tutte le lettere scritte da Pavel Florenskij nei cinque anni di prigionia: il primo anno nell’Estremo Oriente russo, in Siberia, gli altri quatto presso il terribile famigerato gulag delle isole Solovki.
Rispetto all’edizione apparsa 24 anni fa (Non dimenticatemi), quella attuale non solo si è accresciuta di quasi 300 pagine inedite, con diverse lettere o parti di esse che erano state escluse per i limiti imposti allora dall’editore, ma ha potuto tener conto anche delle più recenti edizioni critiche pubblicate in Russia negli ultimi anni. Tra questi materiali inediti risaltano soprattutto lettere che affrontano importanti questioni scientifiche (fisiche, matematiche, di chimica organica, biologia) oltre che di filosofia e letteratura.
L’intero corpus offre la possibilità di cogliere appieno la visione polifonica e transdisciplinare tipica di questo genio del pensiero cristiano del XX secolo, sempre proiettata verso un orizzonte futuro, alla continua ricerca di nuove forme della conoscenza e della scienza. Non si tratta soltanto, come è stato scritto, di «una delle opere più alte della spiritualità di tutti i tempi», bensì di un maestoso trattato di umanità e di grazia in «un’epoca tremenda», un risplendente poema tragico e un sorprendente compendio di saggezza pedagogica, un fantastico zibaldone di scienze naturali e digressioni sull’arte, oltre che una luminosa testimonianza esistenziale e storica che, della fiaba e del coro russo mantiene il ritmo e la polifonia.
- Come e perché l’edizione integrale giunge proprio ora?
L’intero epistolario, con i preziosi testi mai tradotti prima d’ora, giunge in un momento particolarmente drammatico dei rapporti tra la Russia e l’Europa occidentale, a quasi tre anni dalla scellerata invasione militare dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Un evento che non soltanto ha sconvolto le già precarie relazioni internazionali di carattere geopolitico, strategico e militare, ma che ha determinato contemporaneamente profonde lacerazioni nel delicato tessuto dei reciproci e fecondi scambi culturali, alterando gravemente la considerazione e la percezione della grande cultura russa, oggi diventata sempre più motivo di imbarazzo e rimozione, fino a paventarne una sua «cancellazione» in Occidente.
Anche per questo motivo occorre ribadire e mostrare che esiste «un’altra Russia», parte integrante e imprescindibile della cultura e civiltà europea, oltre ogni tentativo di oscuramento e strumentalizzazione. Proprio in un contesto come quello che stiamo vivendo, di fronte al quotidiano scialo di violenza e di morte causato da una folle guerra fratricida divampata nel luogo originario in cui è avvenuto il battesimo dell’antica Rus’ kieviana, grembo generativo della cultura cristiana dalla quale per secoli le due nazioni – Russia e Ucraina – hanno tratto linfa vitale, un libro come questo può aiutarci a intravedere un barlume di speranza umana, anche dall’inferno più tenebroso del gulag, a ritrovare la bellezza dell’anima russa che, come allora, oggi sembra del tutto scomparsa, sepolta, violata e distrutta.
Con l’esplodere di questa guerra e l’espandersi dilagante di menzogne, violenze e crudeltà, già viste e dolorosamente vissute durante la lunga tirannia del regime sovietico bolscevico, le riflessioni e considerazioni che padre Pavel rivolge premurosamente ai propri figli ci aiutano a ritrovare, nonostante tutto, il senso del nostro essere nel mondo a partire dalla qualità delle nostre relazioni affettive e del nostro rapporto col creato.
- Nella prefazione, scrivi della grande cultura russa a cui Florenskij evidentemente appartiene: questa ha, in qualche modo a che fare col «Russkij Mir» di cui parla il patriarca Kirill?
Proprio coloro che oggi invocano, con oscena retorica, il ritorno alla tradizione cristiana della Russia, pensando di proteggerla sotto la maschera ideologica e nazionalista del Ruskij mir, le stanno infliggendo un colpo mortale: un modello imperiale che condensa una visione culturale, politica e religiosa fortemente ideologizzata e sostanzialmente anacronistica, nella quale si ritrovano e convergono Putin e il Patriarca Kirill.
Nello stesso quadro si colloca la riveduta «sinfonia di trono e altare» nella quale Kirill cerca di imporre la superiorità ecclesiale di Mosca, assecondando la sovranità universale russa di Putin e utilizzando lo Stato come garanzia di protezione dei «territori canonici» e dei privilegi ecclesiastici. Una tale distorsione ideologica non ha alcun senso, non solo sul piano politico, perché si configura come una vera e propria eresia sul piano religioso (etnofiletismo), già condannata in passato dalla ortodossia.
In un momento storico come questo che stiamo vivendo, nel quale tornano a prendere il sopravvento pericolose ideologie incentrate sullo scontro di civiltà, ad espandere conflitti e violenze, ritengo che la vivida e potente testimonianza di Pavel Florenskij possa essere un segno tangibile di autentica e piena umanità. Oso sperare che dalle profonde radici della sua cultura possa ancora sgorgare la fonte salvifica dell’anima russa, magari sotto la forma antica e sempre nuova della pietà, dell’amore colmo di misericordia, della compassione, che «governa l’universo» (Boris Pasternak), poiché, come ci ha più volte ricordato la grande pensatrice e poetessa Olga Sedakova, ultima erede di questa grande tradizione culturale e spirituale, «la compassione come dono dello Spirito Santo è la versione russa dell’amore».
- Hai scritto che «Memorial» ha contribuito alla raccolta di lettere inedite di padre Pavel: cos’è Memorial e quale il suo contributo?
La riscoperta di parte di questi materiali e soprattutto la ricostruzione della tragica morte di Florenskij, sono da attribuire all’accurato lavoro di ricerca storica condotto, con tenacia e rigore, appunto, da Memorial, organizzazione indipendente che ha messo in atto una più ampia campagna di studio sulla verità storica relativa ai crimini commessi dal regime sovietico contro milioni di cittadini innocenti.
Dopo anni di ricerche guidate e condotte dallo storico Jurij Dmitriev (oggi condannato a diversi anni di carcere sulla base di accuse infondate), con l’aiuto di Venjamin Iofe (co-presidente del Centro di ricerca Memorial di San Pietroburgo) e Irina Flige, il 1º luglio 1997 furono identificate le prime fosse comuni ove erano state fucilate e sepolte tra le 6.000 e le 12.000 persone provenienti dalle isole Solovki. I prigionieri venivano radunati a gruppi di 500/600, condotti a bordo di un battello commerciale, ammassati nella stiva alla volta di Kem’, poi gettati su vagoni ferroviari come bestiame da macello con varie destinazioni. Tra questi sventurati vi fu anche Pavel Florenskij.
- Vuoi ribadire in quale periodo e in quali circostanze Florenskij scrive queste lettere? Con quali limiti di censura lui, sacerdote, ha potuto scrivere dal gulag?
Ricordo che Florenskij venne arrestato per la seconda volta nel febbraio del 1933 e condannato a 10 anni di gulag con la generica accusa di «svolgere attività controrivoluzionaria, inneggiando al nemico del popolo Trockij». Dopo alcuni mesi di prigione alla Lubjanka, sottoposto a continue minacce, violenze e torture, fu inviato nell’Estremo Oriente russo, prima nel gulag di Svobodnyj, quindi presso il Bamlag di Skovorodino nella Siberia orientale, per essere poi trasferito (nel settembre del 1934) presso il gulag delle isole Solovki.
Visse questo trasferimento come un autentico dramma interiore: confinato in un mondo irreale di menzogna e barbarie, un mondo che gli appare profondamente estraneo e ostile, perfino di fronte all’architettura del monastero. Prostrato fisicamente e spiritualmente, venne costretto a gestire un laboratorio chimico di estrazione dello iodio e dell’agar-agar dalle alghe marine, lavorando senza sosta, con ritmi disumani, sottoposto a un regime di stretta vigilanza, con forti restrizioni delle poche libertà personali rimaste, comprese le relazioni con la famiglia. L’unica concessione era la possibilità di scrivere una lettera al mese, alla quale se ne poteva aggiungere occasionalmente qualche altra.
Spesso la stessa lettera riporta quindi più date, poiché egli le completava in più giorni, nei pochi ritagli di tempo disponibili, un tempo ormai divorato dalla feroce macchina carceraria. Eppure, la dedizione interiore per i suoi cari si è fatta sempre più intensa e struggente, velata da una delicata grazia, dalla dolce presenza di un cuore messo a nudo, privato ormai di tutto.
Sappiamo che ogni pagina veniva sottoposta al vaglio dell’inflessibile censura, che non tollerava alcun riferimento alla dimensione religiosa. Ma Florenskij ha inventato una sorta di metalinguaggio teologico, mediante il quale evoca, richiama e rende presente Dio, senza nominarlo. I molteplici rimandi allusivi alle date del calendario liturgico, ad alcuni contenuti evangelici, sebbene non esplicitati, ma soprattutto la straordinaria maestria nelle descrizioni di alcuni fenomeni naturali – quali i cristalli di ghiaccio, l’alba boreale, una delle tante varietà di alghe – diventa l’occasione per evocare la traccia della divina Presenza. Si tratta di un’esperienza esistenziale e linguistica al limite del paradosso: dire Dio senza nominarlo.
- Cos’era il gulag delle Solovki?
Poste in mezzo al Mar Bianco, a 165 chilometri dal Circolo Polare Artico, le isole Solovki sono sospese tra il cielo e la terra: da secoli uno dei principali centri di spiritualità monastica dell’ortodossia russa, luogo di silenzio e di preghiera, di santità e di luminosa ascesi: così le descrive Aleksandr Solženicyn, nel suo Arcipelago Gulag celebre opera pubblicata per la prima volta nel 1973.
Ma l’antico e mirabile complesso monastico fondato dai santi monaci era stato trasformato dai bolscevichi in uno dei più terrificanti campi di sterminio e di martirio del XX secolo, «uno dei luoghi di maggiore sofferenza dei cristiani russi». Da questo «cantiere infernale», o «cimitero dei vivi» non meno terrificante di Auschwitz o Dachau, Florenskij trova la forza di scrivere le sue missive, intrise di levità, tenerezza e letizia, nonostante la lucida consapevolezza della tragedia in atto e della condanna a morte che ormai incombe su di lui e su altre migliaia di prigionieri.
- Perché Florenskij, potendo farlo, come scrivi, non era precedentemente emigrato all’estero con la famiglia?
Come ho potuto documentare in diversi scritti, dopo la rivoluzione del 1917, a differenza di molti altri intellettuali russi che scelgono la via dell’esilio, egli si convince della necessità di stare al fianco della comunità che stava soffrendo soprusi e violenze, nella viva speranza di smascherare, dal di dentro, la perversa macchina della menzogna, delle mistificazioni ideologiche e politiche ormai dominanti.
In questa prospettiva accetta l’insegnamento per tre anni al Vchutemas (Atelier superiore tecnico-artistico di Stato) e offre la sua collaborazione scientifica al piano di elettrificazione della Russia (presso la Glavelektro l’Istituto Elettrotecnico di Stato), mettendo a disposizione la propria competenza in qualità di ingegnere elettrotecnico e la sua ricerca nel campo dei materiali elettrici e isolanti.
Florenskij opera in questi contesti pubblici senza mai rinnegare la propria fede e vocazione ministeriale, presentandosi sempre in abito talare, nonostante l’esplicito e reiterato divieto da parte delle autorità politiche. Ben presto, l’immagine pubblica del “prete-scienziato” diventa sempre più imbarazzante per il regime, che non esita a mettere in atto una graduale e inesorabile persecuzione contro di lui, fino all’annientamento. A seguito del primo arrestato nel maggio del 1928, è stato incluso tra i soggetti socialmente pericolosi in quanto considerato «un oscurantista, una minaccia per il potere sovietico».
Nei mesi immediatamente successivi alla scarcerazione seguita al primo arresto, pur essendo perfettamente consapevole della recrudescenza del clima di persecuzione nei confronti della cultura ecclesiale e della sua persona, rinuncia alla possibilità dell’esilio a Parigi più volte offertagli, motivando la scelta con queste parole: «Ci sono stati dei giusti che hanno avvertito con particolare acutezza il male e il peccato presenti nel mondo, e che nella loro coscienza non si sono separati da quella corruzione; con grande dolore hanno preso su di loro la responsabilità per il peccato di tutti, come se fosse il loro personale peccato, per la forza irresistibile della particolare struttura della loro personalità»: egli stesso è diventato tragicamente uno di questi giusti.
A nulla sono servite le autorevoli prese di posizione in difesa del suo caso, come quella di L.K. Martens, direttore dell’Enciclopedia Tecnica, fermamente convinto che alla vita di Florenskij fosse legata la stessa sorte della scienza sovietica; come pure altri diversi tentativi di negoziazione della sua liberazione.
La fermezza interiore a non tradire mai e in nessun modo le proprie convinzioni si è fatta sempre più salda, soprattutto nel momento gravoso della sofferenza, tanto da confessare alla figlia Olga, durante l’unica commovente visita ricevuta al Bamlag di Skovorodino, pochi giorni prima del trasferimento alle Solovki: «Questa è un’epoca tanto tremenda in cui ognuno deve rispondere di sé stesso; io ho compreso che soltanto l’ascolto della voce di Dio devo seguire».
- Quale rappresentazione vuoi dare delle lettere di Florenskij e quindi del volume?
Questa singolare corrispondenza è come una raffinata tela il cui ordito è costituito da sette fili-destinatari: la madre, la moglie e soprattutto i cinque figli; la trama passa da un filo all’altro, da un destinatario all’altro, continuamente. Pur nella varietà e diversità delle combinazioni, dei colori e delle densità degli spessori che si conformano alle differenti età e condizioni di vita di ogni destinatario, tutto risponde a una precisa visione unitaria, a un sorprendente ordine degli affetti.
Gli intenti e le finalità delle lettere sono molteplici. Penso che al fondo ci sia soprattutto un profondo desiderio di prossimità, di vigile e premuroso accompagnamento all’arte del vivere, la ricerca della pienezza. Un filo d’oro unisce e avvolge ogni singola parte a un ordine cosmico, ad una perfetta giustizia degli affetti.
Sotto questo profilo quest’opera è anche un originalissimo e formidabile compendio di pedagogia, fuori da ogni schema scolastico, ove Florenskij trasforma la tragica esperienza della prigionia in occasione di crescita relazionale e in arte maieutica: l’arte della prossimità e dell’attenzione, della ricerca di sé e della gratuità, attraverso le quali intravedere, come da una segreta feritoia del muro di cinta del carcere, uno squarcio di luce, i germogli di una vita protesa al dono, alla pienezza di senso.
- Frammentarietà della comunicazione e filo conduttore: come stanno insieme?
Nonostante l’apparente frammentarietà, il sovrapporsi di mutevoli situazioni e contesti, in realtà l’insieme di questa raccolta epistolare compone un’opera unitaria con una sua compiutezza. Anche sotto il profilo della struttura letteraria, ogni lettera ha un incipit ben definito, una trama argomentativa che si sviluppa gradualmente e una conclusione, che generalmente rilancia un profondo senso di speranza, sia pure nella tragicità del contesto. Quasi una sorta di piccolo ecosistema nel quale ogni organismo è in relazione vitale con l’altro; non frammenti separati, autonomi e autosufficienti, bensì una composizione con una precisa organicità e armonia dalle molteplici interazioni.
Come è stato giustamente rimarcato dal nipote di padre Florenskij, che ha curato la prima edizione russa di queste lettere, «la corrispondenza epistolare dà l’impressione di un organismo vivo, peculiarità delle vere opere d’arte (…). Una percezione di unità sia dello stile sia dello sviluppo di singoli argomenti e persino delle osservazioni fenologiche, (…) come nella drammaturgia classica, unità di spazio, tempo e azione. Si avverte un senso di unità anche nel complesso sistema di citazioni di autori e concetti».
- Vita e opera: si può dire che sono una cosa sola in Florenskij?
Quanto scritto ai suoi familiari da Florenskij nei 57 mesi di reclusione, corrisponde a un genere letterario da lui sempre assiduamente frequentato, quello epistolare e dialogico, che rientra pienamente nel più vasto orizzonte teoretico di un pensiero organico e circolare: un pensiero sulla vita necessariamente dialettico, la cui struttura non è mai lineare, uniforme, compatta, «riunita definitivamente secondo un unico piano», bensì reticolare, con più combinazioni di risposte tra loro intrecciate, non solo per schemi logici, ma anche per richiami musicali, consonanze e ripetizioni. Anche questa, ancor più di altre, è un’opera nella quale si intrecciano inscindibilmente vita e pensiero, una raffinata tessitura di intrecci cognitivi, spirituali e affettivi. Come ho cercato di evidenziare nell’Introduzione alla raccolta, ogni lettera è come un brandello di esistenza concreta nel tempo e nello spazio, strappato dalla realtà quotidiana del dolore e dell’angoscia, fino a diventare una «gioiosa danza degli affetti».
- L’epistolario dal gulag di Florenskij – la sua figura integrale – è accostabile ad altre opere e figure in analoghe circostanze di vita, di prossimità alla morte?
Effettivamente questa raccolta in volume dell’intera corrispondenza dal gulag rimanda inevitabilmente ad altre opere analoghe, nate dalla ferma resistenza esistenziale e spirituale di fronte all’estremo, alla disumanità e al male sconfinato prodotto dai totalitarismi del Novecento.
Quasi spontaneo diventa il collegamento con le lettere che compongono Resistenza e resa scritte dal lager dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, impiccato a Flossembürg il 9 aprile 1945 per aver cospirato contro Hitler, oppure con le intense e commoventi pagine del Diario di Etty Hillesum, nelle quali peraltro affiora costantemente l’insegnamento della grande tradizione letteraria russa. Come non pensare poi alle tante e sconvolgenti testimonianze di pensatori, scrittori, poeti e artisti vittime della medesima ferocia concentrazionaria sovietica? Dalle lettere di Osip Mandel’štam, alle preziose memorie della moglie Nadežda, alle più celebri opere di Aleksandr Solženicyn e Boris Pasternak, alle brucianti riflessioni sul male di Vita e destino di Vasilij Grossman, alle strazianti pagine de I racconti della Kolyma del grande scrittore Varlam Šalamov.
Eppure – nonostante le molteplici affinità, il medesimo gelo dell’anima che pervade queste e tante altre parole salvate dalle fiamme che attestano l’eclisse di ogni brandello di umanità, di tutti i valori morali e spirituali, lasciando soltanto schegge di carne ferita sottratte al tempo –, nell’epistolario di Florenskij tutto questo si può intuire, ma non vi è mai esibito, non per oscurare la realtà, ma per offrirne, nonostante la pervasività del male, un diverso sguardo di speranza o la sottesa visione della vita che si misura con le difficoltà in vista del superamento, ciò che il pensiero classico, da Florenskij spesso evocato, definiva «ottimismo tragico».
- Cosa leggiamo in queste pagine a proposito del ripudio dell’odio, della violenza, della guerra?
Seppure immerso nel fango delle umiliazioni, sofferenze, stenti e atrocità – compiute su persone inermi in balia dell’arbitrio e della violenza – nelle lettere di Florenskij tutto questo resta sullo sfondo, sospeso, come trattenuto da un fremito di pudore, di dignità e di umanità, in una sorta di sostituzione vicaria: «In questo periodo attorno a me ho visto tanto dolore in tutte le sue forme e le sue cause, e ciò mi ha distolto completamente dal mio» (23-24 marzo 1934).
Su tutto si stende uno sguardo di dolore e di amarezza, ma anche di pietà e di preghiera, che rifugge dal disprezzo e dall’odio che avvelenano l’anima, rendendola così disponibile agli aguzzini. Quanto più acuta si fa la percezione della fine, tanto più la sua voce diventa limpida e sicura. Immerso nel pieno dell’orrore, resiste fino all’ultimo per opporsi a ogni atomo di odio, perché ciò renderebbe il mondo ancora più «inospitale», facendolo sprofondare ancora di più nell’abisso infernale, evocando così l’insegnamento dello starec Zosima, de I fratelli Karamazov, per il quale, già qui su questa terra: «L’inferno è il tormento di non avere più niente e nessuno da amare».
Sulla guerra poi, la sua idiozia e follia che si perpetua lungo la storia umana, troviamo pagine davvero folgoranti, e drammaticamente attuali! Come quando confessa alla figlia Olga: «Mi stupisce l’assurdità delle azioni umane che hanno il loro culmine nelle guerre e che non trovano giustificazione nemmeno nell’egoismo (…). Dappertutto spergiuro, menzogna, inganno, uccisioni, servilismo, mancanza di qualsiasi principio. (…) Nelle guerre l’uomo si lascia prendere dal furore per pura brutalità. (…). Col loro attivismo, questi elementi rapaci dell’umanità arrivano a occupare i posti dirigenziali della storia, e costringono pure il resto dell’umanità a diventare rapace» (4 aprile 1937).
Per Florenskij l’assurdità della guerra e della violenza sono sempre il frutto avvelenato della stupidità collettiva, della quale i sistemi totalitari si servono per estendere il loro consenso e dominio, generando una vera e propria catastrofe della cultura e dell’umanità.
- Tu presenti Florenskij quale «testimone e martire della fede ortodossa in terra russa»: per l’ortodossia russa, secondo te, cosa rappresenta Florenskij?
Sì, ritengo che queste lettere possano rappresentare, esemplarmente, il nitido riflesso della tragicità epocale vissuta dalla cristianità ortodossa russa sotto il giogo del totalitarismo sovietico; per molti aspetti costituiscono una delle testimonianze più intense della sua autocoscienza in un tempo di persecuzione e di martirio.
Qui per Pavel Florenskij è giunto il momento di testimoniare la verità in tutta la sua disarmante fragilità, nudità e autenticità, abbandonando ogni pretesa di elaborazione speculativa e teoretica. Questa è esattamente la sua concezione del martirio, ovvero, «il sangue che parla della verità», una verità incarnata della quale il martire si fa testimone fedele nel mondo con il suo stesso essere, con il suo corpo.
Di tutto questo è perfettamente consapevole. Nella sua estrema fragilità egli testimonia la forza di una realtà superiore, un contenuto eterno, proprio con la sua esistenza in un luogo così disumano; si fa «testimone del mondo spirituale; è testimonianza viva dei misteri della vita eterna».
Come aveva acutamente indagato nella sua potente opera La filosofia del culto, trattando del Testimone (ovvero del martire), con la sua stessa presenza, nel silenzio, senza discorso o parola, rivestito di una materia umana fragile, effimera e precaria, il testimone della realtà superiore – ovvero il santo – «vive realmente la Verità eterna, la quale con e per mezzo di questa materia si rivela al mondo».
- Definiresti Florenskij un «santo» anche per i cattolici?
Per Florenskij la santità è lo splendore del vero e del bene, perfezione nella bellezza, compimento dell’amore. La bellezza è il tratto distintivo dei santi, molto più della bontà. La santità non si limita alle virtù personali, non può essere ridotta, in senso kantiano, alla «pienezza delle perfezioni morali», bensì implica innanzitutto un profondo radicamento alla dimensione ontologica.
Ciò significa che la santità inerisce essenzialmente ad un modo di essere che ha come caratteristica fondamentale la testimonianza, fino ed essere riflesso della luce taborica. Il concetto-esperienza di santo e di santità comprende infatti, per Florenskij, l’emanazione della luce divina nella concreta testimonianza.
Peraltro, nelle lingue slave luce (svet) e santo (svjato) sono termini con radice comune. Proprio trattando dei testimoni della Luce divina che sono i martiri e i santi, Florenskij afferma in modo esemplare: «Il santo è come una traccia vivente della Parola di Dio: le parole della rivelazione di Dio possono essere affidate alla fragile pergamena che si accartoccia, o alla cera morbida che si scioglie o alla carta che si riduce in polvere, che può bruciarsi, strapparsi e gualcirsi. Eppure, in questa materia precaria ed effimera vive realmente la Verità eterna, la quale con e per mezzo di quella materia si rivela al mondo» (La filosofia del culto).
In tale concezione ontologica della santità, nella quale è iscritta la rivelazione di Dio, il santo, che abita la soglia tra i due mondi, diventa testimonianza vivente della Gloria di Dio, attestazione dell’alleanza tra Dio e il mondo, centro della relazione tra Dio e la creatura. Perciò penso che si possa considerare la testimonianza di vita di padre Florenskij un’autentica esperienza cristiana di santità, che va ben oltre i confini canonici della propria confessione, mostrando tutta la sua rilevanza ecumenica.
Grande Pavel. Un Padreterno luistesso.
Sulle prime ho avuto una reazione di totale rifiuto, rispetto ai contenuti di questa intervista, poi mi sono detto, anzi ridetto che Stalin il suo brutto “scherzo” era riuscito a farlo anche a Lenin e nessuna meraviglia fa che questo Natalino Valentini sia una delle tante altre vittime. Certo Lenin aveva denunciato i fatti, in un modo o nell’altro, invece molti intellettuali occidentali sono nient’altro che dei succubi gravi.
P. Florenskij era stato troppo ottimista nel fare rimostranza in una Unione Sovietica che – a differenza di quel che è convinto e vorrebbe convincere Valentini – non era preda dei “bolscevichi” ma di un potere diverso, intromèssosi e poi raggiunto da una complicità di massa anche peggiore, sicché le vittime del Regime erano rese tali dai condizionamenti già prima del contatto con gli sgherri. I famigerati bolscevichi occupavano l’area di estrema sinistra del Parlamento democratico russo negli ultimi tempi degli Zar e dello zarismo: Nicola II non aveva voluto mai del tutto fermarli perché non voleva una occidentalizzazione. I crimini attribuiti a loro non tengono conto degli intrighi delle masse, delle incomprensioni, infine delle false attribuzioni.
L’errore di prospettiva storica dell’intervistato corrisponde a una sua ‘erranza’ di ordine filosofico e a una lettura dell’epistolario condotta sulla traccia imposta dai persecutori: sostenitori di una società razionale, di una rigorosa dialettica storica, mentre P. Florenskij era un esponente dell’irrazionalismo filosofico (che non significa non-ragione) e andava dicendo di antinomie. Così Valentini ammira i sogni di utopica armonia che i carcerieri tentavano di instillare nei dissidenti e scambia il pensiero degli assassini per quello dell’assassinato e compone un martirologio che è fuori luogo per svariati e gravissimi motivi. Innanzitutto il ‘senso del martirio’ che appare in tanto cattolicesimo, dai tempi del papa polacco ad oggi – mi risulta che papa Francesco non lo ha replicato – è incompatibile con l’idea semplice della resurrezione nel mondo ortodosso, che dice in linguaggio biblico “morto e risorto” ma racconta di Gesù di Nazareth ancora tra i suoi con estrema e intuitiva semplicità! Un cristiano rivoluzionario preferiva il termine: ‘sopravvissuto’. In secondo luogo le parole di Florenskij contro la guerra citate da Valentini hanno significato differente da quanto pensato da quest’ultimo. Lo scienziato, mistico e filosofo russo rigettava l’illusione di ‘realizzarsi’ nella fase tragica della guerra; invece Valentini riferisce di somma idiozia della guerra in generale. Il Vangelo racconta della Spada di Cristo; la cronaca delle battaglie di Napoleone in Russia presenta un quadro su cui non si vuol riflettere: il Bonaparte abbandonò alla sconfitta i suoi stimandoli indegni ma non scellerati, cioè attestò una santità da parte del campo russo… Io non sto a dire che Putin è un santo o a fingere di aver conosciuto le truppe russe e quelle ucraine, ma il ritratto contemporaneo descritto dal Valentini è irreale, ingannatorio. Il vero è questo: dagli USA è venuta l’idea di allargare il potere NATO anche a costo di scatenare contrasti di guerra civile in Ucraina, di sostenere un colpo di Stato nazista e un regime nazistoide, di lasciar modo di portare minacce contro l’esistenza della Russia. Si poteva avere un’idea chiara del nazismo di certi ambienti ucraini variamente. Io nell’esser felice di poter incontrare dei russi mi imbattei in minacce di morte, qui in Italia, assai tempo prima dei disordini nati nel Donbass e del referendum pro Russia in Crimea. Molti potenti occidentali sanno della russofobia e tacciono per desiderio di potere. Giustamente, a mio avviso, in Europa e poi anche in Italia si ha stigmatizzato il crimine di Stalin e stalinismo che generava una carestia in Ucraina con milioni di morti, ma non si dice, da parte di molti, troppi, che non si faceva alcuna differenza tra dissidenti: i russi-ucraini che rifiutavano la collettivizzazione forzata restavano anch’essi senza pane.
E’ il caso di continuare così? di pubblicare l’epistolario di un dissidente alla dittatura di Stalin confondendo questa e gli intrighi di massa per la rivoluzione bolscevica? Far conto che Florenskij fosse filosofo razionalista, attribuendogli l’ordine letterario voluto dai suoi carcerieri? Forse aiuta, fingere che hegeliani e marxiani nel definire opposti campi filosofico-politici basati sulla pura razionalità avevano pensato a tutto il dovuto? Restare sulla loro falsariga nonostante i loro stessi successivi dietrofront? Sottoporre i lettori occidentali a uno ‘scherzo’ così è un atto cristiano, vitale?
Certo che Stalin è apparenza seducente ancora oggi anche per chi crede di esser fuori dalle sue ‘grinfie’, allora si potrebbe forse salvare del discorso dell’intervistato qualcosa… ma strumentalizzare l’epistolario di P. Florenskij lasciando pensare che il Regime di Putin ha torto e gli intrighi commessi negli USA sono buoni, come se ciò avesse evidenza di dogma, condannare la guerra definendola idiozia… tutto questo non tiene conto dei limiti umani e delle differenze di scelte da parte degli esseri umani. Si sa che proclamare una spada è diverso dal minacciare con un fucile, ma si sa anche che c’è chi può costringere in questo anche un innocente. Io non sono d’accordo sull’attuale uso delle armi, ma è da ritenersi non veritiero condannare la guerra confondendo mezzi usati e questioni di conflitto, come se queste fossero tutte sciocchezze e non vi fossero situazioni difficili da comprendersi.
Perché dare tante brighe ai lettori subissando le testimonianze cifrate di Florenskij con delle vere e proprie diavolerie? Non ci vorrebbe prudenza, forse?
L’organismo vivo e l’unità di cui diceva il nipote di Florenskij sono altro dal valore razionalistico attribuito dall’intervistato ovvero N. Valentini. Fa piacere che in mezzo a tante incomprensioni e pregiudizi ora abbiamo anche una pubblicazione accresciuta dell’epistolario – ma se l’edizione è stata curata secondo i fraintendimenti di questa intervista, io acquisterei il libro cercando di comunicare l’obiezione giusta anche al libraio. Non una faccia diabolica, al contrario, un volto fuori dalle seduzioni diaboliche che ancora non hanno smesso di creare guai a cultura e politica occidentali.
MAURO PASTORE
Trovo questa figura di santo sempre commovente. La forza della sua fede riesce a domare l’inferno e nelle sue lettere, esattamente come Cristo in Croce nei vangeli, non appare mai tutto l’orrore di quel supplizio. Come se non fosse il male il punto centrale ma il male filtrato dalla luce potente della fede.
Leggendo i suoi scritti sento la forza della fede come in certi passi del vangelo.