Perché non me ne vado (e lotto)

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barca di carta

Se c’è un dato profondamente tradizionale che il Concilio Vaticano II ci ha permesso di interiorizzare è che la chiesa non coincide con la gerarchia. Il Concilio ci ha permesso infatti di ridire in ogni modo possibile quello che abbiamo sempre saputo e cioè che la chiesa è il popolo di tutti quelle e quelli che credono nel Vangelo, che in questa fede sono stati e sono state battezzate e che questa fede vogliono vivere (nonostante tutte le povertà che segnano il proprio vissuto).

Perché rimani nella Chiesa?

Non è dunque ben posta la domanda se chiediamo a un/a credente perché resta nella chiesa, dal momento che ciascun credente è chiesa, insieme agli altri e alle altre. Eventualmente potremmo chiedere a questa persona che cosa la fa soffrire nel vivere e nel dire della chiesa di cui è membro vivo e se questa sofferenza potrebbe portarla ad allontanarsi, a non impegnarsi più, a spendere altrove le risorse che il Vangelo offre.

Molti e molte già fanno questo in realtà. Si è aggiunto infatti al fenomeno, visto da decenni, di una fede in Dio senza sentire il bisogno di appartenere alla chiesa (anche se nessuno può sapere quanto questa sia una fede cristiana o invece una esperienza religiosa altra espressa con categorie cristiane perché il nostro contesto culturale offre solo quelle), il fenomeno di quelli che avendo aderito con consapevolezza alla fede cristiana si allontanano dalla vita della chiesa perché questa non li aiuta, anzi li ostacola nel vivere la fede che hanno conosciuto.

Queste persone, però, si allontanano per la delusione di non aver trovato ciò che era stato loro promesso, perché percepiscono di aver subito un tradimento, e non perché non ritengono di essere chiesa. Se la chiesa si mettesse su altre vie, riprenderebbero il loro impegno.

Questione femminile

Faccio un esempio concreto perché si comprenda di che cosa sto parlando e ne scelgo uno di cui ho competenza e che mi coinvolge sul piano personale: la questione femminile. Nella chiesa lo sbilanciamento simbolico e pratico fra i sessi è enorme, paragonabile a quello che nelle società occidentali si dava trecento anni fa (e non è che quelle di oggi abbiano risolto il problema, anzi).

Se applicassimo all’istituzione ecclesiale i criteri ordinari usati per calcolare il gender gap, ci renderemmo conto dell’assoluta gravità della situazione, per risolvere la quale non basta che qualche leader (sempre maschio) affidi qualche responsabilità ad alcune donne che (ovviamente) sono di suo gradimento. Senza modifiche strutturali delle regole sociali il gioco non cambia e lo squilibrio non viene tolto.

Ora, lo squilibrio simbolico e pratico fra donne e uomini non è solo palesemente – almeno in quella parte di mondo che ha acquisito la pari dignità e capacità fra i sessi – umanamente ingiusto, ma rende la chiesa più debole perché non può investire le risorse e i carismi che lo Spirito dà alle donne e la rende una testimone non credibile del Vangelo che non fa differenza di persone, né tanto meno in queste condizioni la chiesa può essere segno dell’unità di tutto il genere umano (cf. Lumen Gentium 1).

È la chiesa intera dunque ad essere danneggiata dall’incapacità di accorgersi dello squilibrio: è enormemente più debole e meno credibile (fino a essere di scandalo su questo specifico aspetto). E infatti molti (e soprattutto molte), scandalizzati/e, se ne sono andati/e. Perché però altri e altre che percepiscono altrettanto fortemente lo squilibrio e l’ingiustizia continuano il proprio impegno per un reale cambiamento ecclesiale?

Responsabilità

La domanda giusta allora non è chiedersi perché non si esce dalla chiesa – non se ne può uscire infatti una volta che si è conosciuto e amato il Dio di Gesù – ma perché non si smette di impegnarsi per rinnovare e riformare una chiesa che per la maggior parte (ma è poi vero? O è solo la parte che ha più visibilità?) pensa di dovere fare solo piccoli ritocchi per continuare sostanzialmente così come si sarebbe sempre fatto (ovviamente anche questa posizione si basa su una leggenda, perché basta conoscere un po’ di storia per sapere che abbiamo continuamente cambiato dottrine, prassi e riti).

Perché si continua davanti a queste resistenze a perseverare nell’impegno di far capire il danno dello squilibrio nella relazione fra i sessi, quando è più che evidente che il soggetto sociale non ne voglia sapere o che, addirittura, abbia la pretesa di dire alle donne che si accorgono di questa ingiustizia che in realtà l’ingiustizia non ci sarebbe? Non bisognerebbe andarsene altrove a cercare una terra con meno sassi e meno spine?

Nel cercare di rispondere a questa domanda non pretendo di dare una risposta che vale per tutti e tutte né che tenga conto di tutte le prospettive e le sofferenze che ci sono in gioco. Offro, per quel che vale e nulla di più, la mia testimonianza di impegno ecclesiale lungo oramai più di trent’anni. La mia risposta si radica infatti nella stessa dinamica che ha cominciato a farmi sentire parte della chiesa tanti anni fa.

Non è possibile scoprire il Vangelo senza sentirsi inestricabilmente legati a tutti quelli e tutte quelle che riconoscono Gesù come Signore e non è possibile scoprire il Vangelo senza voler fare del bene a tutte le creature (umane e non) perché il Dio della vita vuole la fioritura di tutte loro.

Per questo inestricabile legame, nel momento in cui ci si accorgesse che nella chiesa ciò di cui c’è bisogno non viene fatto, non viene riconosciuto o che le esigenze del Vangelo vengono disattese, chi si dovesse accorgere di questo non può che farsi voce (pur consapevole dei propri limiti e delle proprie infedeltà) delle esigenze di conversione e riforma ecclesiale.

Questo è ciò che mi fa continuare

La mia risposta sul perché continuo nel mio impegno mi riporta dunque al Vangelo che mi lega non solo a Dio, ma tutti e tutte le altre.

Non me ne posso andare, perché anche io sono su questa barca che raccoglie coloro che hanno creduto e porta un tesoro per tutti (cioè la fede e le vite di chi ha creduto), ma non posso nemmeno stare inerme perché infuria forte la tempesta che minaccia la credibilità e il vivere ecclesiale.

Da qui la perseveranza nell’impegno che la chiesa stessa mi chiede (perché sa di averne bisogno): perché tutti e tutte insieme quelli che si accorgono della tempesta possano riuscire a fare quello che fa Paolo durante il naufragio raccontato nel libro degli Atti degli apostoli. Paolo infatti si industria in ogni modo possibile, con la persuasione, la preghiera, la condivisione, l’intelligenza, la cura, per salvare tutte le vite che sono in balia delle onde e per fare questo non si fa alcuno scrupolo di buttare a mare tutto ciò che sta sulla barca fino a distruggere la barca stessa.

Non vado a investire altrove ciò che il Vangelo mi ha offerto, perché sono legata alle altre vite e non voglio che nessuna di queste si perda. Non vado altrove perché dal rinnovamento e dalla riforma ecclesiale dipende la credibilità dell’annuncio del Vangelo di cui l’umanità intera ha bisogno (la perla preziosa che va fatta trovare) per risollevarsi, riposare, guarire, sperare, cambiare il proprio modo di stare al mondo. Questo è ciò che mi fa continuare.

Certo a volte ho l’impressione che lo stile ecclesiale sia quello di buttare a mare le vite per tenere la carcassa danneggiata di una nave inservibile e vuota e questo mi fa soffrire profondamente, ma fino a che in gioco ci sono le vite delle persone non posso e non voglio scendere. Vite che interessano a molti e a molte, vite che vogliamo custodire e far fiorire, vite che vogliono arrivare in salvo sulla riva.

Con questa tensione, anche la barca che si sfascia e imbarca acqua potrebbe essere un segno buono, l’indicazione che stiamo cercando di fare ciò che ci è stato affidato: dare tutto pur di non perdere nessuno. Forse si resta solo per aiutare, mentre una figura di chiesa affonda, a spendersi perché nemmeno una vita si perda, a prendersi cura della vita di ogni filo d’erba, bambino, bambina o frammento di chiesa che si ha a portata di mano: il resto crescerà da sé come il seme di evangelica memoria.

Simona Segoloni è vicepresidente del Coordinamento Teologhe Italiane e docente full time di Ecclesiologia all’Istituto teologico Giovanni Paolo II di Roma. Il suo contributo è stato pubblicato su L’Osservatore romano il 7 settembre 2024 con il titolo: «Cosa ci insegna la barca di Paolo».

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12 Commenti

  1. Enzo Petrolino 28 settembre 2024
  2. Chiara 25 settembre 2024
  3. Chiara 25 settembre 2024
  4. Adelmo Li Cauzi 24 settembre 2024
  5. Paolo 24 settembre 2024
  6. Giampietro 23 settembre 2024
  7. Marco 23 settembre 2024
  8. Elisabetta Manfredi 22 settembre 2024
    • Giuliana Babini 24 settembre 2024
  9. Fabiana 22 settembre 2024
  10. Giovanni Polidori 22 settembre 2024
  11. Sergio 22 settembre 2024

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