Uno dei tratti più caratteristici della Chiesa cattolica postconciliare è la vivace presenza di numerosi gruppi, movimenti e associazioni che intendono vivere in forma collettiva l’esperienza spirituale originale dei loro fondatori e dare continuazione alla loro singolare operosità.
Alcune di queste aggregazioni hanno radunato svariate centinaia di migliaia di persone in molti paesi del mondo, anche in tempi molto brevi, e per questo sono oggetto di una particolare ammirazione e di grande interesse da parte di pastori e fedeli.
La presenza delle aggregazioni nella Chiesa
Si tratta, senza dubbio, di un prezioso dono dello Spirito alla Chiesa del nostro tempo, volto a rinnovare il suo volto e la sua missione. In particolare, colpisce la determinazione con cui queste nuove aggregazioni si dedicano all’evangelizzazione dei lontani e dei non credenti e alla formazione dei loro aderenti, elaborando cammini di accompagnamento qualificati e personalizzati e vissuti in contesti comunitari molto intensi.
D’altra parte, potendosi costituire ex novo, senza essere vincolate da una consuetudine precedente, sono molto più libere delle tradizionali istituzioni ecclesiastiche di concentrarsi sull’evangelizzazione, sulla formazione e sul servizio, tralasciando senza difficoltà quanto non è in linea con le loro finalità.
Inoltre, dal momento che il loro fondatore o il suo successore hanno la piena autorità di dettare la linea pastorale da seguire, queste aggregazioni hanno una direzione chiara e operano in modo unitario. Del resto, chi dovesse dissentire drasticamente da tale linea potrà sempre abbandonarle senza per questo uscire dalla Chiesa. Avrà comunque la possibilità di cercare altre forme associative, o semplicemente di frequentare la propria parrocchia.
Questi tratti rendono molto efficiente l’attività di queste aggregazioni ecclesiali, tanto che, talora, possono suscitare una “sana invidia” da parte di quei presbiteri che vorrebbero anch’essi concentrarsi sull’annuncio del Vangelo e sulla formazione delle persone, ma che non possono liberarsi da servizi, obblighi e consuetudini inveterate che riempiono il loro tempo senza essere realmente fruttuosi sul piano pastorale. In effetti, spesso non è possibile svincolarsene, sia a livello parrocchiale che diocesano, per non urtare la sensibilità di alcune porzioni delle comunità cristiane e innescare conflitti interminabili e distruttivi.
La necessità di dover mantenere l’unità e la concordia di persone molto differenti impone ai pastori di procedere con molta gradualità, evitando scelte drastiche o comprensibili solo da qualcuno. Del resto, un parroco o un vescovo non potrebbero dire a chi non dovesse condividere le loro opzioni pastorali di andare altrove, come invece può legittimamente fare un’aggregazione, dal momento che non esiste un “altrove” ecclesiale rispetto alle Chiese locali e alle loro porzioni, che sono le parrocchie. Anche per questo esse devono essere il più possibile inclusive.
Immaturità ecclesiologica
Tuttavia, anche le aggregazioni ecclesiali hanno delle criticità. Papa Francesco, parlando ai partecipanti al 3° convegno mondiale dei Movimenti ecclesiali e delle Nuove Comunità, il 22 novembre 2014, ha affermato che «i Movimenti e le Nuove Comunità che voi rappresentate sono ormai proiettati alla fase della maturità ecclesiale, che richiede un atteggiamento vigile di conversione permanente». In particolare, ha invitato queste aggregazioni a vivere la comunione ecclesiale, soprattutto con i pastori: «La vera comunione, poi, non può esistere in un movimento o in una nuova comunità, se non si integra nella comunione più grande che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica. Il tutto è superiore alla parte e la parte ha senso in relazione al tutto».
Dunque, queste parole del pontefice riconoscono ai vescovi la responsabilità di aiutare le aggregazioni ecclesiali a integrarsi nella comunione ecclesiale. È evidente, però, che si tratta di un obiettivo arduo.
A mio giudizio, la principale difficoltà di questo compito non sta tanto nei temperamenti difficili delle persone coinvolte, o nella loro poca disponibilità al dialogo, ma in una sorta di immaturità ecclesiologica che segna ancora oggi la comunità ecclesiale e che non le consente di operare sempre un discernimento e un accompagnamento adeguato delle varie aggregazioni.
Il problema fondamentale viene alla luce ricordando che nessun credente, gruppo, associazione, movimento, istituto o congregazione può presumere di reinventare l’esperienza cristiana nella sua globalità, né di pensarsi come l’intera Chiesa. Ciascuno è solamente un piccolo frammento dell’unico corpo ecclesiale, chiamato ad arricchirlo con i suoi carismi ma, nello stesso tempo, a lasciarsi edificare dai doni che lo Spirito ha conferito ad altri soggetti. Così ogni aggregazione potrà vivere l’esperienza cristiana solamente sotto un’angolatura specifica, ma non riproporla nella sua globalità. Questo lo potrà fare solo l’intera Chiesa, che esiste nelle Chiese locali e a partire da esse (cf. LG 23).
Dunque, sul piano ecclesiologico un’aggregazione è un soggetto collettivo dotato di un fondamento carismatico che caratterizza e delimita in modo molto specifico la sua identità credente ed ecclesiale. Questa aggregazione dovrà interagire con gli altri soggetti all’interno delle varie Chiese locali, ma non potrà mai porsi sullo stesso piano di queste Chiese. Esse sole, in quanto immagini della Chiesa universale, possono offrire l’esperienza cristiana nella sua completezza per la pluralità dei carismi, anche ministeriali, che esistono al suo interno.
Un approccio errato
Ora, mi pare che il rischio più grave delle nuove aggregazioni ecclesiali sia quello di proporsi alle persone che incontrano non come esperienze cristiane specifiche e ben delimitate – piccoli frammenti dell’unico corpo ecclesiale –, cioè come modi di vivere la fede in Gesù Cristo sotto un’angolatura particolare che determina un’operosità che va al di là di quanto è richiesto a tutti i cristiani, ma per presentarsi come forme complete di cristianesimo, che quindi finiscono necessariamente per entrare in competizione con le Chiese locali e con le parrocchie. A quel punto, invitarle a restare nella comunione con la grande Chiesa e dare ai vescovi il compito di favorire questo processo non servirebbe a nulla. La cosa risulterebbe impossibile sul piano teorico. Il loro incontro con queste istituzioni ecclesiali di base servirebbe solo per raccogliere nuovi aderenti o per allargare i luoghi della loro azione.
Ovviamente si tratta solo di un rischio. Questo rischio, però, non è più teorico ma diviene un comportamento non accettabile sul piano ecclesiologico quando queste aggregazioni “sfruttano” dei tratti dell’esperienza cristiana comune, cioè a cui tutti i credenti sono chiamati – credere all’amore di Dio, sperimentare la gioia del Vangelo, dare il primato alla grazia, operare per il regno di Dio… – e li propongono come esperienze proprie, integralmente possibili solo al loro interno, quanto meno nella modalità più radicale. In questo modo, infatti, esse si identificano con la Chiesa in quanto tale, ovvero con le Chiese locali, perché prendono il loro posto nell’accogliere tutti coloro che diventano semplicemente cristiani.
Il rischio di chiudersi
È chiaro che questo modo di fare determina una crescita numerica rapida e molto consistente di queste aggregazioni. La parola di Dio, infatti, annunciata in modo competente e in un contesto di accompagnamento comunitario, come queste aggregazioni sanno fare bene, ha la capacità di conquistare innumerevoli persone, perché essa è strumento dello Spirito. Se però la si “piega” a favore del proprio gruppo, affermando o facendo pensare che credere e vivere il Vangelo significa aderire all’organizzazione da cui lo si è ricevuto, e dando così per scontato che tutti coloro che si convertono ne condividano il carisma, allora tutti coloro che di fatto scelgono di convertirsi alimentano anche le file di questo gruppo, che cresce molto rapidamente.
Si potrebbe obiettare che questa considerazione è meramente teorica, perché nella pratica una persona raggiunta dall’annuncio del Vangelo da parte di un membro di un’aggregazione ecclesiale è portata a pensare che potrà trovare la fede in quella stessa aggregazione. Essa non si chiederà se il Signore le ha dato il carisma che la caratterizza o se la chiama a vivere la vita cristiana in altre forme, ma entrerà nel gruppo in cui sente di poter crescere. Poi, eventualmente, cercherà di convincere se stessa e gli altri che ne condividono pure il carisma.
In realtà, per molti secoli, i grandi ordini, congregazioni e istituti religiosi missionari hanno fatto esattamente il contrario. Essi hanno portato l’annuncio evangelico e educato alla fede innumerevoli persone, inserendole però nella grande Chiesa e non nel loro istituto. Ad esempio, non è mai venuto in mente a nessun missionario gesuita di annunciare ai non cristiani che cercava di convertire che accogliere il Vangelo significava necessariamente entrare nell’ordine fondato da sant’Ignazio. Certo, se avessero agito in questo modo, oggi i gesuiti sarebbero milioni, ma evidentemente la loro formazione teologica e la loro maturità ecclesiale ha impedito loro di orientare la loro attività in questo modo, manifestamente autoreferenziale e soprattutto eterodosso.
A partire dagli anni ’80
Per quale ragione le aggregazioni odierne corrono i rischi indicati? Forse la motivazione può essere riconosciuta nell’orientamento pastorale che san Giovanni Paolo II ha dato alla Chiesa cattolica a partire dagli anni ’80 per guidarla sulla via della nuova evangelizzazione. L’urgenza di annunciare il Vangelo ad un mondo smarrito e segnato dal male lo ha spinto a compattare la comunità ecclesiale e a rilanciarla nella via della missione primariamente sotto la sua guida.
Questo ha comportato lo sviluppo di un’ecclesiologia universalistica molto accentuata, nella quale il ruolo delle Chiese locali è stato ridimensionato per favorire un’azione più unitaria del cattolicesimo sul piano internazionale.
In questo quadro, si capisce perché, a fronte dei bisogni dell’evangelizzazione, si siano ridimensionate le problematiche ecclesiologiche che abbiamo evidenziato. Si è ritenuto che, se un’aggregazione ecclesiale porta alla fede tante persone in modo efficace, e lo fa in un atteggiamento di obbedienza al pontefice, deve essere riconosciuta come una realtà positiva. Il problema del suo carisma, il suo proporsi come esperienza parziale e non completa di vita cristiana e pure il suo modo di inserirsi nelle Chiese locali potrà essere oggetto di discussione, ma non diventerà mai una questione così seria da mettere in questione proprio quegli stili su cui essa basa la sua efficacia.
Per questa ragione, non di rado si ha l’impressione che il criterio ecclesiale di discernimento di queste aggregazioni, oltre all’ortodossia dottrinale e alla compatibilità dei loro fini con quelli ecclesiali, sia sostanzialmente la loro consistenza numerica. Un’aggregazione che coinvolge migliaia o centinaia di migliaia di persone finisce per avere facilmente tutti i riconoscimenti che le servono. In realtà, al di là del fatto che occorrerebbe valutare anche il tipo di relazioni e di dinamiche che si vivono al suo interno – cosa non semplice –, sul piano ecclesiologico questo criterio numerico è insufficiente, come evidenziato dalle considerazioni condotte fin qui.
Dentro le Chiese locali
Per arrivare ad un discernimento più accorto di queste aggregazioni, le Chiese locali potrebbero verificare il loro annuncio evangelico, ovviamente non sul piano teorico degli statuti ma su quello della prassi. Se esse annunciano il Vangelo, pur con fantasia e creatività, esse dovranno invitare le persone ad entrare nella grande Chiesa e non nella propria organizzazione, men che meno proporsi come il luogo migliore per vivere l’esperienza cristiana. Al margine di questo, potranno evidentemente far conoscere il loro carisma, perché le persone che effettivamente lo hanno ricevuto possano unirsi a loro.
In secondo luogo, nelle Chiese locali si potrebbero organizzare incontri di tutte le aggregazioni presenti al suo interno per chiedere loro di dire ciò che sono e soprattutto ciò che non sono, e per quale ragione hanno bisogno degli altri soggetti ecclesiali e soprattutto della Chiesa locale nella sua globalità. Sarà così chiaro a tutti che essa non è uno spazio in cui svolgere la propria attività sfruttandone strutture e risorse, ma il contesto ecclesiale in cui svolgere il proprio cammino di fede.
Se seguissero questa direzione, probabilmente le aggregazioni ecclesiali perderebbero molti membri, non perché essi escano dalla Chiesa, ma perché vivrebbero la loro fede in modo diverso.
Il percorso di queste realtà ecclesiali sarebbe simile a quello dei grandi ordini, congregazioni e istituti missionari, che hanno evangelizzato innumerevoli persone guidandole nella Chiesa e non al loro interno, e che ora sono numericamente molto ridotti. La Chiesa, però, non risulterebbe affatto penalizzata se le aggregazioni assumessero un orientamento del genere, anzi ne sarebbe arricchita. Le persone, infatti, sarebbero indirizzate a vivere la loro fede secondo i loro effettivi carismi, e le aggregazioni potrebbero inserirsi nelle Chiese locali non mosse dal bisogno di espandersi, ma dal desiderio di interagire in modo paritario con tutti i soggetti presenti nella grande Chiesa, di cui rappresentano solo un piccolo ma prezioso frammento.