Poiché è piuttosto evidente che nei dubia dei cardinali (cf. qui su SettimanaNews) non v’è alcun dubbio, bensì solo certezze, e poiché la loro seconda formulazione è, per me, persino angosciante perché sembra ridurre la fede a cruciverba, avverto il bisogno di esprimere tutta la mia gratitudine a chi dice che sempre dobbiamo procedere per meglio capire il Verbo di Dio.
Crociate
Chi, come me, non è addentro alla Chiesa – ma neppure avverso – percepisce, nella ricerca di chi davvero cerca, con animo sospeso, un disegno divino nell’evoluzione continua del mondo, l’enorme merito di non considerarsi come Dio e di non considerare gli altri portatori di false credenze e quindi espressioni di una falsa umanità.
Ciò che più mi sorprende è il fatto che coloro che rifiutano la ricerca non sono disponibili a riconoscere che la Chiesa del Medio Evo è stata profondamente diversa da quella delle origini. Si illudono che il potere dei tempi del passato possa semplicemente tornare, ritornando a quel modello di Chiesa.
Loro stessi vogliono credere che, proclamandola, la loro Chiesa tornerà ad essere societas perfecta, tale da perpetuare l’esperienza − peraltro solo europea − del Medio Evo. Non riescono proprio a comprendere che, grazie a Dio, quel progetto è svanito per sempre.
Il termine «modernità» è bandito dagli ambienti contrari alla sinodalità per la sola ragione che rifiutano l’esistenza di «altri», in forma di pluralità: credenti e non credenti, diversi per cultura, così lontani da vivere un tempo diverso dal nostro, dal momento che la storia non corre lineare, alla stessa velocità, lungo il globo.
Il Medio Evo non è rimpianto per ragioni complesse, bensì troppo semplici: nell’immaginario è il tempo in cui tutto il mondo coincide col nostro mondo occidentale, un mondo con un’unica cultura. E le stesse Crociate − tanto rimpiante e invocate dai custodi della societas perfecta − non sono altro che il disperato tentativo di salvarsi dalla autodistruzione e dal fallimento: dalla caduta della pia illusione.
Lo disse a Clermont papa Urbano II, assai più onesto e concreto dei suoi epigoni: «Non vi trattenga il pensiero di alcuna proprietà, nessuna cura delle cose domestiche, ché questa terra che voi abitate, serrata d’ogni parte dal mare o da gioghi montani, è fatta angusta dalla vostra moltitudine, né è esuberante di ricchezza e appena somministra di che vivere a chi la coltiva. Perciò vi offendete e vi osteggiate a vicenda, vi fate guerra e tanto spesso vi uccidete tra voi. Cessino dunque i vostri odi intestini, tacciano le contese, si plachino le guerre e si acquieti ogni dissenso ed ogni inimicizia. Prendete la via del santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi».
Pluralismo, cuore del pontificato
Il papa nato dai franchi si rivolgeva soprattutto ai suoi, per incrementare l’affermazione continentale. Il disegno di espansione e di sottomissione è proseguito con la trasformazione dell’unicità di Dio nell’unicità del Papa con il Dictatus Papae di Gregorio VII. Non è difficile comprendere perché, nel tempo dei poteri assoluti e degli scismi, sia stata scelta quella strada.
Quando il disegno medievale della sottomissione ai poteri assoluti si è scontrato con la resistenza dell’Islam, allora è emerso il «moderno»: il monismo universale del potere unico è impossibile, come è impossibile una Chiesa che insegna in una sola lingua, veste in un unico modo, riconosce una sola cultura, l’unica «vera».
Ovviamente anche la modernità è nata all’interno di una illusione totalitaria: dalla convinzione di aver scoperto la ricetta della felicità, valida per tutti, ovunque, allo stesso modo, grazie alle scienze. Se la legge di gravità funzionava in ogni angolo del globo, anche le scienze sociali avrebbero dovuto funzionare ovunque, per rendere l’umanità felice secondo la sola ricetta possibile e ovunque valida.
Con l’affermarsi della modernità si è affermata, però, l’alternativa del pluralismo. Paradossalmente, oggi, sembra che solo la Chiesa conciliare di Francesco sappia portare il pluralismo – insieme a religioni e culture altre – pure dentro la Chiesa stessa.
È il pluralismo, secondo me, il cuore di questo pontificato. La sua riscoperta del pluralismo «in Dio» recupera l’errore della Torre di Babele: sbagliata perché non esiste un’unica vetta per raggiungere il cielo nel medesimo modo, nel medesimo tempo e con la medesima lingua!
Oltre l’ideologia
Il pluralismo è l’essenza della sapienza divina: solo rinunciando al monismo ideologico – tutto umano – la possiamo cogliere.
Perciò – restando ai temi, così specifici, che i dubia tentano di rinchiudere nelle prigioni da cui sono ormai usciti da tempo – la risposta della novità del pontificato di Francesco è la decisa sostituzione dell’illusione ideologica con la priorità del discernimento.
Non consente, ad esempio, di trasformare in norme universalmente valide le novità di Amoris Laetitia: non tutti i divorziati risposati devono accedere alla comunione perché, se si supera l’ideologia, non subentra una diversa ideologia, bensì il discernimento effettivamente pastorale, affettivo, parte del vissuto, concreto, delle persone, nelle loro coscienze. Il discernimento non si fa con idee astratte, ma con un profondo senso di realtà e di umanità. Solo in questo modo la Chiesa può cercare di parlare coi contemporanei, post-moderni, post ideologici, in molti casi, post credenti, almeno secondo le categorie tradizionali.
Sì, siamo un po’ tutti così. Lo scrivo per me: la condizione post-credente, post-moderna, post-ideologica è sofferta e difficile, chiede di essere di nuovo «incantata», affascinata, da una diversa narrazione teologica. Io non ho scelto ancora cosa voglio, ma so quel che rifiuto.
Rifiuto il dogmatismo ideologico che rende, come accade di notte, «tutti i gatti neri», tutti i divorziati uguali, tutti gli omosessuali viziosi o depravati. Ad alcuni che scrivono o sottoscrivono i dubia chiedo: ne siete sicuri? Ci avete mai parlato con le persone? Che ne sapete della loro vita?
Il Sinodo e le speranze
Una Chiesa che sa farsi colloquio può dialogare con me, con noi, con chi non ha certezze granitiche, ma non rifiuta la ricerca della verità o delle verità, quelle che vorremmo sempre incontrare nell’atteggiamento della amicizia fraterna di chi le annuncia in questo tempo, non certo con la presunzione di un giudice «fuori dal tempo»!
La Chiesa che guardo con piacere e con interesse, per non sprofondare nell’assolutezza della mia solitudine, non divide l’umanità in categorie, in persone lodate o condannate per definizione: incensurato, coniugato, parrocchiano fedele, abbonato al settimanale diocesano, eccetera; ma è una Chiesa che ascolta attentamente, con partecipazione, i dubbi, le rinunce, le sconfitte, gli aneliti… tutto quanto è serbato in questo «io» contemporaneo, isolato e disconnesso.
Le speranze che, a mio avviso, molti post-credenti ripongono nell’evento del Sinodo sono le speranze di chi cerca un’amicizia, non giudici certi di verità eterne: amici, amiche, che sanno accompagnare nella difficile arte del discernimento sulla vita e sul mondo, per scoprire come si possa vivere insieme, nel migliore dei modi, in pace, accettandoci con le nostre diversità.
Solo “una chiesa che ASCOLTA attentamente,con partecipazione…” e non PARLA? L’esatto opposto del mandato di Cristo agli apostoli: “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli, ecc.”(Mt 28,19-20).