Preti abusanti: il mostro annidato nel nostro

di:

abusi

Caro Domenico, che hai scritto «con il cuore pesante» (SettimanaNews, qui),

ho pensato di risponderti mantenendo il tuo registro comunicativo, sebbene non ti nasconda qualche perplessità. Fatta salva la tua buona volontà e la profondità della tua preoccupazione, infatti, mi sono chiesto a chi fosse davvero rivolta la tua lettera.

L’intestazione «lettera ai preti pedofili» fa pensare che tu faccia appello davvero ai confratelli che hanno abusato, ma immagino che i destinatari reali siano i lettori di SettimanaNews, a cui hai voluto suggerire l’atteggiamento spirituale con cui si dovrebbe affrontare questo male.

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Il fatto è che io penso che l’interlocutore (reale o immaginario) sia una parte rilevante della comunicazione. Perciò mi sono domandato come mai tu non abbia pensato alla possibilità che tra i lettori possono esserci delle vittime e se non ti sia chiesto cosa avresti potuto provocare in loro.

Mi sembra che questo sia un po’ il nostro problema: parliamo più facilmente delle vittime che alle vittime, che scompaiono dallo scenario sia dei lettori reali che di quelli immaginari. Forse sarai d’accordo con me nel ritenere che, per usare la stessa figura retorica che hai introdotto tu, questo difetto nostro possa facilmente diventare un mostro, nel contesto degli abusi.

Ho notato che spesso, nella tua lettera, usi il termine riparazione. Riportando i suoi studi a proposito dell’atteggiamento di Carlo Maria Martini di fronte alla violenza degli Anni di piombo, Silvia Meroni ricorda che il vescovo di Milano «offre la luce della Parola condividendo innanzitutto la sofferenza dei genitori, delle giovani mogli e con loro dei figli (…), talvolta creature ancora in grembo, orfane prima ancora di venire al mondo». E sottolinea che «attorno ai familiari delle vittime si crea presto un vuoto di cura»[1].

Insomma, anche nel caso del terrorismo, presto l’attenzione di tutti si è rivolta più ai criminali che alle vittime. Forse è contro-intuitivo, tuttavia a me sembra che sarebbe più coraggioso e più necessario incominciare seriamente a rivolgersi alle vittime, anzi coraggioso e necessario sarebbe ascoltarle.

Per quello che capisco io, percorsi di giustizia riparativa esistono là dove il dolore delle vittime è messo al centro di una trama di relazioni, non dimenticato o messo sotto silenzio. La riparazione al loro dolore non è l’unica, ma è certo la prima preoccupazione di questi percorsi.

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La tua scelta, in ogni caso, è lecita: ti sei rivolto a chi ha abusato e hai voluto chiedere un passo di conversione, assicurando l’esistenza di uno spazio di perdono.

Tuttavia, credo che anche tu immaginerai che ciò che scrivi, i «preti pedofili» le sappiano già. Temo che per parlare loro non sia possibile cavarsela con così poco.

Per esempio, pur comprendendo le tue intenzioni, mi colpisce molto che nella stessa lettera, a distanza di poche righe, tu ricordi l’ammonimento evangelico a proposito della macina di mulino messa al collo e poi rassicuri di non volerli mettere «alla gogna».

Nel giro di poche righe, l’ombra di un peso mortifero lascia il posto alla promessa di un sollievo. Nessuno augura il male a chi sbaglia, ma ci sono percorsi umani per i quali, prima di qualunque redenzione, è necessaria un’interruzione netta e radicale. I dispositivi della giustizia criminale non sono un’arma per accontentare le vittime, né tantomeno uno strumento di vendetta civile.

Chi abusa deve essere individuato, processato e consegnato alla giustizia soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, è l’unico modo per fermare il vortice di male in cui è precipitato e dentro al quale i discorsi sul perdono e sulla conversione, ascoltati e pronunciati infinite volte, non hanno più alcun peso.

Molti preti abusanti sono stati redarguiti, perdonati e spostati in una nuova destinazione, dove hanno continuato ad abusare. Questa interruzione radicale è anche il solo modo affinché chi ha abusato possa ascoltare «il grido di giustizia delle vittime», che ha avuto sempre accanto, ma che non ha mai sentito.

Talvolta il male è così profondo che non basta neppure la condanna: mi ha molto colpito leggere, nel rapporto della commissione di inchiesta della Chiesa di Francia (CIASE), che la maggior parte degli abusatori condannati continui a negare le proprie responsabilità e pochissimi mostrino una qualche empatia nei confronti delle vittime.

Il percorso della giustizia e della riparazione incomincia dopo questa interruzione e non solo è molto lungo, ma è anche sempre esposto all’insuccesso.

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La tua lettera, infatti, sebbene non esplicitamente, rischia di far percepire una contrapposizione tra giustizia umana e misericordia divina. Giustizia e misericordia non sono due alternative, ma le dimensioni necessarie all’umano per fare fronte al male.

Noi cristiani possiamo forse testimoniare che non c’è giustizia senza misericordia, ma dobbiamo certamente dire non c’è misericordia senza giustizia e non c’è giustizia senza verità. Nelle parabole, il perdono non è mai presentato come un lieto fine rasserenante, ma come una possibilità sempre drammaticamente esposta al proprio fallimento.

Non c’è neppure una parabola in cui il tema non coinvolga almeno tre attori, uno dei quali solitamente solleva un’obiezione. Il Padre misericordioso deve pur sempre rispondere al fratello maggiore e si espone alla possibilità tragica di perdere comunque uno dei due figli.

Il dramma suggerisce che qualche cosa, tra i tre, deve ancora accadere, prima di poter compiere la festa del perdono. E ci consegna il compito di permettere che accada. È come se questo dramma, nelle tue parole, scomparisse dietro alla fede nella misericordia di Dio; io credo che neppure Dio stesso, invece, possa superare il dramma della libertà.

Non sono un esperto, ma mi sembra che i percorsi di giustizia riparativa siano meno irenici: mi ha sempre molto colpito che anche tra gli studiosi di restorative justice più vicini al cristianesimo, ci sia una grande parsimonia nell’uso della parola perdono.

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Mi è parsa strana questa tua intonazione, perché sei stato invece molto puntiglioso nell’individuare una possibilità a cui, sinceramente, non avevo mai pensato: quella che qualcuno si ritenga una «persona dabbene» per il solo fatto di non essere caduto nello scandalo della pedofilia.

Per fortuna io, di persone così, non ne ho mai incontrate, ma forse tu vedi qualcosa che io non so vedere. Sinceramente, di fronte al criminale, la mia reazione (ma anche la reazione che io definirei più umana) è proprio opposta.

Mi dico che avrei potuto essere io quell’uomo: quel criminale, quell’omicida, quel gerarca nazista, quel pedofilo. Per questo io non vorrei chiudere la riflessione sul male troppo presto, con un grande perdono: vorrei comprenderne le dinamiche, perché percepisco una continuità tra me e gli altri esseri umani (vittime e carnefici) e mi dico sempre che, se l’altro ha potuto commettere un male così inguardabile, forse avrei potuto farlo anche io.

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Ed è proprio in virtù di questo che ti devo sottolineare quella che, per me, è la parte meno condivisibile del tuo scritto. Dici che «non è il caso di attardarsi troppo nell’analisi delle cause di questa caduta, cause che sono ancora allo studio degli esperti». Prosegui sostenendo che «questo non è il tempo delle scuse e delle giustificazioni» e che «non dobbiamo cercare rifugio in spiegazioni psicologiche e sociologiche».

Caro Domenico, quante domande mi vengono, leggendoti! Per esempio: davvero possiamo chiamare «caduta» un atteggiamento criminale che solitamente si costruisce pazientemente nel tempo e finisce per fare decine di vittime?

E, ancora: chi sono gli «esperti» di cui parli? Davvero possiamo demandare ad altri la comprensione del male? Io penso che proprio a proposito delle cause, non possiamo mancare di interrogarci noi, preti e teologi di una Chiesa che è stata al contempo vittima e complice di questi abusi.

Infine: non pensi che tra le «cause» e le «giustificazioni» ci sia una grande differenza? Capire le cause non significa giustificare un crimine e le interpretazioni psicologiche e sociologiche (ossia la comprensione del soggetto e della comunità) per me non sono affatto un rifugio, ma l’inizio inquietante di un’opera di conversione che ci coinvolge tutti. Proprio come tutti, nella parabola, sono coinvolti nel compito di sciogliere il nodo della giustizia e della misericordia.

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Il fatto è che tu stesso, nella lettera, sposi una tesi ben precisa, della quale io non sono per niente convinto (e non lo sono neppure gli esperti che hanno studiato gli abusi): per due volte parli di «pulsioni» che definisci «infami».

Il termine, che hai preso in prestito dalla psicologia, mostra che la domanda sulle cause te la sei posta e hai anche dato una risposta precisa. Certo, la pulsione ha la sua parte, eppure anche io e te siamo attraversati da pulsioni, talvolta anche infami, ma non facciamo del male agli altri. Non a caso, indirizzi la lettera ai «preti pedofiliı», mentre io preferisco usare il termine «abusanti»: non è solo una questione linguistica.

La parola pedofilia fa pensare immediatamente all’ambito della clinica e, così, rassicura che l’abuso è sempre questione di un altro: un malato, in questo caso. La tentazione di immaginare che il problema sia di altri è stata ricorrente nella risposta della Chiesa al dramma degli abusi.

Per esempio, in passato si è costruito un nesso tra pedofilia e omosessualità, come se ci fosse bisogno di circoscrivere il fenomeno a una categoria di persone. Io, al contrario, continuo a pensare che il problema sia nostro e non sia tanto la pulsione, quanto una gestione criminale del potere, che avviene in quel sistema del quale anche tu e io facciamo parte, un sistema che sta scoprendo una delle sue drammatiche debolezze e che deve ora trovare il modo per affrontarla.

Martha Nussbaum scrive che ogni abuso sessuale «si configura come un abuso di potere. Non si tratta in prima battuta di un’espressione di desiderio o di attrazione sessuale. È dubbio che i sacerdoti pedofili o gli stupratori nelle carceri siano gay, qualunque cosa ciò possa voler dire. I loro crimini sono, in realtà, degli abusi commessi in virtù della loro posizione di potere»[2].

È vero, Martha Nussbaum è una filosofa, ma per fortuna la possiamo leggere tutti e, a partire dal suo lavoro, incominciare a interrogarci seriamente.

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Caro Domenico, spero che tu non ritenga questa mia lettera una critica gratuita ma – pur nella distanza tra ciò che sosteniamo – un contributo per pensare insieme al cammino complesso che ci sta davanti.

Parlarne insieme è comunque meglio del silenzio da cui la vicenda, almeno in Italia, sembra avvolta. Una cosa è certa: la promessa che, insieme alle vittime, potremo far fronte al male, se ci esporremo anche noi al dramma di una giustizia e di una misericordia possibili.


[1] S. Meroni, Parola, popolo, vittime Carlo Maria Martini e gli Anni di piombo in «La Rivista del Clero Italiano», 2 (2022) 105-122, 109.

[2] Martha C. Nussbaum, Orgoglio tossico, cit., p. 123.

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2 Commenti

  1. Roberto Maier 25 ottobre 2024
  2. Domenico Marrone 25 ottobre 2024

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