A partire dalla celebre opera del teologo domenicano Yves Congar (1904-1995) – “Vera e falsa riforma nella Chiesa” –, il teologo modenese Massimo Nardello pubblicherà su Settimananews una seria di articoli aventi per tema la riforma della Chiesa. E lo farà a partire da alcuni termini-chiave, quasi un piccolo dizionario sul tema.
Il tema della riforma della Chiesa interessa da sempre la riflessione teologica, pastorale e spirituale delle comunità cristiane, dal momento che, in ogni tempo e luogo, esse si sono rese conto di non incarnare in modo adeguato l’identità evangelica a cui erano chiamate e di dover intraprendere dei percorsi di cambiamento.
A partire dal medioevo, però, tale ideale riformista è stato progressivamente marginalizzato e guardato con sempre maggior sospetto da parte di ampie porzioni della gerarchia cattolica, nel timore che esso potesse destrutturare la Chiesa e minare alla radice l’autorità dei suoi pastori.
La necessità di prendere le distanze dal pensiero protestante, poi, ha fatto sì che, a partire dal XVI secolo, il tema della riforma venisse declinato solamente in rapporto alla vita morale e alle scelte pastorali, senza poter toccare in alcun modo la forma delle strutture ecclesiali.
La riscoperta del soggetto
Nella teologia cattolica del ’900 l’istanza riformista è stata rilanciata dal padre Yves Congar o.p. (1904-1995) con la sua famosa opera Vera e falsa riforma nella Chiesa, la cui prima edizione risale al 1950. Tale opera che, nella valutazione teologica odierna, è estremamente moderata, ha suscitato vivaci dispute nel cattolicesimo preconciliare.
Nonostante il contesto ecclesiale odierno sia molto più disponibile a riflettere sul tema della riforma, mi sembra molto importante mettersi nuovamente in ascolto di quest’opera, a maggior ragione per il cammino sinodale che stiamo percorrendo, perché alcune delle sue istanze non sono affatto scontate neppure ai nostri giorni.
Nel percorso che iniziamo cercheremo quindi di cogliere degli spunti di riflessione da Vera e falsa riforma nella Chiesa, facendo riferimento all’edizione del 1968 che è stata rivista dopo la conclusione del Concilio Vaticano II. Li articoleremo attorno ad alcune possibili parole-chiave della riforma, quasi per scrivere un piccolo dizionario sul tema.
Il primo vocabolo che prendiamo in considerazione è quello dell’autenticità. Così scrive Congar nell’introduzione della sua opera: «A proposito dell’ambiente [cioè, delle cause più generali dell’autocritica riformista], noterei essenzialmente il gusto della sincerità. Si tratta di una disposizione estremamente feconda, che comporta senza dubbio delle manifestazioni superficiali, anzi criticabili, ma anche delle applicazioni estremamente profonde; non si potrebbe misconoscerle senza misconoscere uno degli aspetti più fondamentali dell’uomo moderno quale si offre alla sovranità di Cristo. […]
La nostra epoca si spinge certamente più lontano di altre nelle sue esigenze di verità di gesti e di atteggiamenti. Sembra incontestabile che le generazioni precedenti non hanno sentito quanto i nostri contemporanei il disagio ad assumere, senza porre obiezioni, abitudini e modi di fare determinati prima di noi e senza di noi, o imposti dalla tradizione […]
Ciò che incontriamo nel gusto attuale per i gesti veri è, mio giudizio, la grande dimensione del mondo moderno: la scoperta del soggetto. […] Certo, in senso vero e proprio, essa [la Chiesa] è anteriore agli uomini e non è costruita da loro. Ma, da un altro punto di vista, è fatta anche dagli uomini, anzi, non raggiunge completamente la sua realtà, nell’ordine della vita, se non con l’attività degli uomini.
Vi è dunque un settore che noi constateremo essere precisamente quello delle riforme, nel quale il punto di vista del soggetto trova il suo spazio e ispira, mediante la ricerca della verità, delle ottime istanze riformiste» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 1972, 41-42).
L’istanza di autenticità
L’istanza dell’autenticità che Congar pone come uno degli obiettivi della riforma ecclesiale non riguarda la coerenza personale dei cristiani, ma il fatto che le consuetudini che sono tramandate dal passato e che segnano ancora oggi il vissuto della Chiesa devono risultare significative, cioè avere un senso, per gli attuali membri delle comunità cristiane.
Essi normalmente sono consapevoli di essere soggetti intelligenti e responsabili, e sono sempre meno disposti ad accettare stili e prassi incomprensibili, ereditati da una società e da un modello di cattolicesimo che non esistono più.
Si potrebbe pensare che questa osservazione di Congar riguardi il contesto degli anni ’50, e che ormai abbiamo messo da parte linguaggi clericali, abiti pittoreschi, simboli liturgici poco comprensibili, titoli onorifici e ruoli che indicano più una condizione di superiorità che un servizio specifico, e così via. Forse, però, non è del tutto così.
Per scoprirlo, basterebbe ascoltare le persone credenti che, per varie ragioni, non sono direttamente coinvolte nelle attività delle comunità cristiane e che, proprio per questo, possono cogliere molto meglio quando i linguaggi e le prassi ecclesiali risultano poco comprensibili per la sensibilità contemporanea.
Se tali diversità non derivano dalla dottrina ecclesiale della fede, inclusa ovviamente quella di tipo morale, forse è il caso di provvedere ad opportuni adattamenti. Valorizzare con discernimento lo stupore curioso e perplesso di tante persone davanti a certi stili e dinamiche delle comunità cristiane non è indulgere alla mondanità, ma mettersi nella condizione di capire fino a che punto si è realmente fedeli alla missione ecclesiale.