Una delle caratteristiche di qualunque organizzazione che abbia una certa consistenza è la presenza di principi, regole e consuetudini che orientano e delimitano la sua attività.
Non solo gli obiettivi di quell’organizzazione, ma anche la sua stessa storia e il modo in cui si è concretamente sviluppata ne determinano un profilo stabile, che non può essere messo continuamente in discussione. Insomma, essa deve fare i conti non solo con il proprio futuro, cioè con ciò che vorrebbe diventare, ma anche con il proprio passato.
Mutamenti necessari
Questo è vero a maggior ragione per la Chiesa, che esiste nella storia come espressione del dono della salvezza che Dio ha offerto all’umanità in Gesù, e la cui missione consiste nel rendere questo dono sempre più accessibile ad ogni persona. È proprio questo dono divino a caratterizzarla e a delimitare la sua azione.
Eppure, nella vita ecclesiale, vi sono molte consuetudini e vincoli che non derivano dalla fede, ma semplicemente dalla sedimentazione di scelte più o meno illuminate delle comunità cristiane e soprattutto dei loro pastori.
Di per sé, questi tratti non sono irriformabili, ma di fatto spesso lo diventano. Per questo, quando si opera nei contesti ecclesiali con passione e si hanno tante idee, può capitare di sentirsi come imprigionati da un numero eccessivo di divieti, ben espressi dalla famosa frase: “no, questo non si può fare”.
In realtà, la qualità della vita evangelica di una comunità cristiana non dipende solamente dalla conversione personale dei suoi membri, ma anche dalla disponibilità a rivederne le pratiche con l’intento di renderle più funzionali alla sua missione.
A questo riguardo, così scrive il padre Congar: «In poche parole, si ritengono necessari dei mutamenti in certe forme della vita e anche nelle “strutture” della Chiesa. Pensiamo allo stile della catechesi e della predicazione, alla formazione dei chierici, alle forme esteriori del culto, alla fisionomia delle parrocchie, ad alcune forme che riveste la visibilità della Chiesa (pompe antiquate, talvolta scandalose…). Tutto ciò alla luce e sotto l’ispirazione di una reinterrogazione delle sorgenti: Bibbia, cristianesimo antico, spirito della liturgia, documenti principali del magistero… […] infatti non si tratta solamente di ricondurre una forma deviata al suo archetipo, ma di inventare delle nuove forme, al di là dei modelli che attualmente possediamo, semplicemente a partire dallo spirito e dal tipo essenziale delle origini, a partire dalla tradizione profonda della Chiesa sempre vivente, sotto la guida del magistero» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 1972, 49-51).
Secondo il domenicano francese, il radicamento della Chiesa nella Tradizione della fede non limita affatto la creazione di nuove forme e strutture ecclesiali, ma anzi ne è il fondamento. Prendendo le mosse da questa Tradizione, compresa nella sua testimonianza biblica, patristica e liturgica e sotto la guida del magistero, si può comprendere quali cambiamenti siano opportuni per rendere più efficace la missione ecclesiale. Eppure dobbiamo prendere atto che, non di rado, ancora oggi tali parole sono un’utopia.
Ascoltare le istanze di cambiamento
Di fatto, le uniche motivazioni che riescono a determinare una riforma della Chiesa non sono quelle di tipo teologico, ma fattuale. Non si convincono le persone, spesso neppure i ministri ordinati, ad accettare dei cambiamenti a partire dalla testimonianza della Tradizione o dalla sua rilettura a partire dalla riflessione teologica, coma auspicava Congar.
L’unico argomento che conta è il non avere alternative in ragione di una situazione di emergenza assolutamente evidente. Ad esempio, oggi è in atto in molte diocesi italiane una ristrutturazione delle parrocchie, che spesso vengono unite, con tensioni talora molto forti all’interno della popolazione.
La ragione per la quale si riesce in qualche modo a portare avanti questa riforma è il fatto incontestabile che il numero dei presbiteri non è minimamente sufficiente a garantire la celebrazione eucaristica e, ancor meno, la guida pastorale in molte di queste comunità.
Una riforma del genere sarebbe stata impossibile qualche decennio fa. Se un vescovo, alla guida di una diocesi ancora servita da numerosi presbiteri avesse scelto di orientarla nella direzione in cui stiamo cercando di andare oggi, e non per necessità impellenti, ma in nome della testimonianza della Tradizione sul battesimo e sui carismi di tutti i membri del popolo di Dio, si sarebbe trovato davanti a resistenze insuperabili.
Eppure, la riforma della Chiesa non consiste nel trovare soluzioni a problemi pratici, come la carenza dei presbiteri, ma a obbedire alla voce dello Spirito anche quando questo non porta a risolvere delle difficoltà specifiche, o addirittura complica le cose.
Tutto questo ci deve far riflettere sulle fasi future del sinodo, quelle nelle quali si dovranno ricavare delle istanze di cambiamento da ciò che sarà emerso dalla fase di ascolto.
Se ci si limiterà a ipotizzare soluzioni a difficoltà conclamate, dunque prescindendo da una vera logica di riforma, non si andrà molto lontano, perché non si ascolterà realmente la voce dello Spirito.
Se, al contrario, si cercherà questa seconda strada, occorrerà prevedere resistenze molto forti motivate dal fatto che le istanze proposte saranno lette come cura di una malattia che non esiste.
Dovremmo quindi cercare di entrare anzitempo nell’ottica della vera riforma come condizione normale della vita ecclesiale.
È proprio questa riforma, e non la sinodalità in sé stessa, la difficile svolta di cui la Chiesa odierna ha bisogno.
Francamente non credo che le unità pastorali siano la soluzione. In altri Paesi europei non le hanno fatto e si va avanti lo stesso. In più le unità/comunità pastorali “funzionano” bene in alcuni contesti, in altri no. Non capisco come sia possibile omologare contesti diversi (città-campagna, montagna-mare) pensando ad una medesima soluzione. In Italia si fa fatica a comprendere che il vero problema non è la mancanza dei preti (e allora le unità pastorali sembrano la soluzione), ma è la trasformazione della Chiesa in senso missionario, dando spazio a laici/laiche e diaconi/diaconesse ben preparati/preparate. Non è il prete a fare una comunità, ma semmai un prete non può esistere senza una comunità: a lui spetta il compito di corroborarla, non di crearla. Chi fa una comunità è la Parola che suscita la fede (vedi Atti degli Apostoli e lettere di Paolo).
La Sacra Scrittura e la storia della Chiesa dimostrano che la Chiesa si è aperta a situazioni nuove. Le necessità del momento possono indurre a una riflessione e a realtà nuove. Es. la protesta delle vedove di lingua ebraica nella distribuzione del cibo portò alla istituzione dei diaconi (Atti 6,1-6). Se la Rivelazione si è chiusa, le comunità cristiane sono vive e pellegrine verso la Gerusalemme celeste. Rimanere troppo legati al passato non permette di ascoltare lo Spirito Santo. Es. la diminuzione drastica del clero può indurci a riflettere su nuove ministerialità battesimali anzichè al pagnisteio e alle scorciatoie nella selezione dei futuri preti. La mancanza delle mense eucaristiche può indurci a riflettere sulla necessità dell’Eucaristia anzichè del celibato dei preti. la secolarizzazione della società ha indotto all’apostolato deifedeli laici ed ora una maggiore sinodalità anzichè piangere sulla fine degli Stati confessionali e chiudersi nel proprio compiacimento.