Nonostante i tempi delle grandi ideologie avverse al cristianesimo siano ormai tramontati, non mancano neppure oggi degli attacchi molto duri nei confronti della Chiesa cattolica che talora arrivano ad assumere i tratti dell’insulto.
Anche se, in prima istanza, viene spontaneo ignorare queste recriminazioni come prive di senso e di valore, è bene interrogarsi sulle motivazioni che possono spingere alcune persone ad accanirsi con particolare veemenza contro l’istituzione ecclesiale.
Una pretesa da dimenticare
Su questo tema, sono interessanti le seguenti considerazioni del padre Congar: «Ciò che conferisce asprezza alla questione delle mancanze della Chiesa sono queste “pretese”. Le accuse che vengono mosse contro di lei non rivestirebbero una tale gravità se venissero rivolte ad una società qualunque; esse diventano sconcertanti dal momento in cui la Chiesa come società e come struttura pretende di ornarsi della qualifica di santa, di infallibile, e reclama dagli uomini obbedienza, fiducia, devozione. Si comprenderanno allora alcuni atteggiamenti attuali più caratteristici dinanzi alle manchevolezze che vengono rimproverate alla Chiesa: peccati, limiti, mancanze storiche» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 1972, 60).
Nell’opinione del teologo domenicano, la Chiesa viene osteggiata con particolare forza quando ostenta la pretesa di essere un’istituzione moralmente superiore che, proprio per questa sua caratteristica, può e vuole porsi alla guida dei singoli e della società. Effettivamente, quando qualcuno vuole passare davanti agli altri, suscita la loro irritazione (cf. Mc 10,41), che in questo caso si esprime nell’evidenziare in modo violento le colpe e i limiti della comunità cristiana.
Si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa cattolica, a differenza degli anni in cui Congar scriveva il testo citato, è molto più consapevole di non essere affatto irreprensibile e di portare il tesoro evangelico in vasi di creta (2Cor 4,7). In effetti, ai nostri giorni le pretese che potrebbero ricadere sotto le osservazioni del teologo domenicano non sono quelle dell’istituzione, ma quelle di singoli pastori o cristiani che agiscono a nome della comunità ecclesiale.
Ad esempio, vi sono persone che, a causa della loro personalità, non sono capaci di vivere relazioni interpersonali improntate alla libertà e alla reciprocità, ma tendono ad impostarle nella linea del controllo, con cui esprimono la loro superiorità sugli altri.
Nel contesto ecclesiale, costoro hanno un bisogno ineludibile di guidare altre persone nella fede, di orientare le loro scelte, presentando magari le loro opinioni più o meno saggie come espressione della volontà di Dio. Figure del genere, soprattutto se arricchite da una certa vita spirituale, competenze teologiche e grande generosità sul fronte pastorale, hanno spesso un grande successo, dal momento che anche oggi moltissimi credenti hanno bisogno di punti di riferimento forti.
Costruirsi un’identità solida è un percorso molto lungo che non tutti riescono a completare, e quando questo non avviene il vivere sotto la protezione di figure molto sicure di sé dà un certo senso di sicurezza.
In questa condizione di dipendenza, però, non si matura realmente e, prima o poi, ci si ritroverà a dover scegliere tra la fedeltà alla propria guida – magari identificata con l’esperienza cristiana in quanto tale – e quella alla propria coscienza, con esiti devastanti.
Molti credenti hanno pensato di aver rinunciato ad aver fede e sono divenuti antagonisti della comunità ecclesiale solo perché hanno preso le distanze dal leader a cui facevano riferimento per pensare finalmente con la loro testa.
Se poi queste figure molto forti perdono la loro autorevolezza, per varie ragioni, lasciano una quantità di fedeli completamente disorientati sul piano spirituale, dal momento che costoro non hanno più a disposizione un riferimento del quale erano ormai divenuti dipendenti. Non si tratta di una possibilità remota.
Questione di credibilità
Chi non riesce a vivere relazioni libere e improntate alla reciprocità ma tende a dominare, prima o poi potrà finire anch’egli per diventare dipendente da altre figure più forti, dal momento che non sa vivere stili relazionali alternativi. Se tale dipendenza si tradurrà in comportamenti problematici, l’interessato perderà la sua credibilità, e attirerà il disprezzo sia su di sé che sull’istituzione ecclesiale che ha permesso il suo operato. Anche in questo modo si può realizzare quanto paventato dal padre Congar.
Non è questo il contesto per riflettere sull’opportunità di promuovere persone con queste difficoltà relazionali al ministero ordinato o a compiti di un certo rilievo nelle comunità cristiane. Si tratterebbe di valutare se rinunciare a individui molto determinati e brillanti che hanno un certo seguito, per evitare che, in tempi più o meno lunghi, finiscano probabilmente per danneggiare gravemente quelle persone a cui inizialmente hanno fatto del bene, e la questione non è semplice.
In ogni caso, per la riforma della Chiesa non basta che il suo livello istituzionale più alto metta da parte ogni pretesa di superiorità, ma occorre che questo passaggio avvenga anche all’interno della leadership ecclesiale di base.
Questa deve essere capace di vivere relazioni libere e improntate alla reciprocità, evitando di sfruttare il proprio ruolo autorevole per favorire dinamiche di dipendenza dalla propria persona. Insomma, quando tutti pendono dalle labbra del pastore o di un’altra figura della comunità, occorre cominciare a preoccuparsi.
- Questo articolo è stato consegnato il 29 novembre 2022.