Una domanda molto personale che si può porre ad un cristiano è quella relativa alle emozioni che prova quando richiama alla mente il suo vissuto ecclesiale.
Delusi dalla comunità
Per chi è cresciuto in una comunità e ha svolto dei servizi al suo interno, porsi questo interrogativo significa spesso far riemergere una serie di ricordi piuttosto ambigui. Può venire a galla un senso di gioia legato a persone ed esperienze che hanno forgiato la propria identità, ma anche di frustrazione e di rabbia per una serie di limiti personali e strutturali che hanno impedito di fare molte cose importanti. Tuttavia è probabilmente la memoria del peccato della propria comunità, cioè della sua infedeltà alla vocazione evangelica, a gettare realmente nello sconforto.
Alcune persone si sentono così deluse da tale peccaminosità da sviluppare un atteggiamento di distacco nei confronti della Chiesa intera, abbandonandola completamente o limitandosi a partecipare alle celebrazioni liturgiche.
Qualcuno poi si mette alla ricerca di contesti ecclesiali realmente evangelici, divenendo così facile preda di presunti leader spirituali che costruiscono la loro popolarità stigmatizzando in modo impietoso le incongruenze degli altri, senza però vedere le proprie.
A riguardo di questa difficile situazione in cui un cristiano può trovarsi, così scrive il padre Congar: «Vi è tuttavia un senso in cui queste mancanze [dei singoli cristiani] sono mancanze di tutti, e dunque mancanze del corpo [ecclesiale]; infatti “siamo membra gli uni degli altri”. Al di là di una solidarietà attraverso l’esempio e l’influsso, vi è una solidarietà organica [tra i cristiani] in virtù della quale ogni peccato contamina tutta la Chiesa, perché insozza il corpo; ma anche ogni affermazione del bene giova a tutti. […] Vi è un aspetto sociale, più esattamente ecclesiale, della penitenza, che […] si fissa perfino nel testo del Confesso e nella sua recitazione all’inizio della celebrazione eucaristica» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 103).
Segnati dal peccato e dalla grazia
Ricorda il teologo domenicano, sullo sfondo della 1Cor, che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo, e che quindi, per essere in lui e beneficiare del dono della sua salvezza, occorre accettare anche le altre membra di questo corpo, cioè gli altri cristiani. In quanto tali, essi non sono semplici compagni di viaggio, ma fratelli e sorelle che, in qualche misura, fanno parte della propria identità.
Dunque, se la comunità cristiana è segnata dal peccato, la via da seguire non è quella di prenderne le distanze, ma occorre portare su di sé quel peccato con un atteggiamento penitenziale, non perché se ne sia responsabili davanti a Dio, ma in quanto commesso da persone con le quali si è una cosa sola. Si tratta di seguire l’esempio di Gesù, il Figlio di Dio che è divenuto umano per portare sulle sue spalle un peccato non suo.
Se poi si sceglie di mantenere il legame con la propria comunità anche quando la si vede segnata dal male, prima o poi si farà piacevole scoperta che questo non è il suo unico tratto. Per l’azione dello Spirito, al suo interno vi è sicuramente anche tanta grazia che rappresenta un arricchimento straordinario del proprio cammino di fede. Questa grazia ci è sempre data nell’ambiguità delle dinamiche sante e peccaminose che segnano ogni comunità cristiana.
Dio agisce nella Chiesa non togliendo di mezzo quello che non va, ma aprendo nelle situazioni di peccato dei processi di conversione e sostenendoli incessantemente con il suo amore. Così, chi esige una comunità cristiana integerrima dovrà cercarla invano per tutta la vita. Chi invece si riconcilia con l’ambiguità ecclesiale al punto da sentirsi fratello o sorella di peccatori, potrà sperimentare proprio in questa comunione sofferta l’azione della grazia.
Troppo attenti ai bisogni personali
Purtroppo questo stile non corrisponde sempre al modo in cui i credenti, anche i ministri ordinati, vivono il loro rapporto con la miseria delle comunità cristiane.
D’altra parte, la cultura contemporanea induce a mettere al centro i propri bisogni personali, e quindi anche a vivere il rapporto con la Chiesa in termini meramente strumentali. Essa deve servire alle proprie esigenze messe a fuoco in modo autonomo e libero, e quando non lo fa adeguatamente, si cerca altro.
Quando si vive in questo modo il rapporto con la realtà ecclesiale, diventa difficile restarne parte quando si è ripetutamente delusi di ciò che si trova al suo interno. Eppure il buttare tutto ciò che non si sente adeguato ai propri bisogni personali non collima con la necessità di essere un solo corpo con gli altri cristiani, anche quelli incoerenti o sgraditi, per poterlo essere con il Signore.
Tutto questo è molto importante per la riforma della Chiesa.
Anche se le buone idee possono giungere da qualunque parte, anche da chi non è cristiano, la capacità di portare avanti percorsi di riforma richiede dei credenti che non invochino il cambiamento in quanto mossi dalla rabbia per ciò che hanno sperimentato nella vita ecclesiale, magari giudicandola in modo impietoso come qualcosa di ormai estraneo alla propria identità.
Chi vuole promuovere la via della riforma, deve aver imparato a portare sulle sue spalle il peccato e l’immaturità della sua comunità, restando sempre e comunque in gioco.
È dello sguardo umile e profetico di uomini e donne con questa statura spirituale che abbiamo bisogno perché il progetto sinodale della Chiesa non risulti infecondo.
La delusione di cui parla Nardello la trovo evidente. Tuttavia, se è vero che su un piano personale vi è un enorme attenzione ai propri bisogni, su un piano comunitaria c’è un enorme attenzione ai soldi, dato che il bilancio di molte comunità è in rosso. Questo il popolo fedele di Dio lo capisce e, per questo, dimostra tutta la sua delusione distaccandosi dalla Chiesa. Ma purtroppo di questo problema non se ne parla…