Riprendono le messe – Antonio Cecconi
Potremo riaprire le chiese al popolo per le messe festive. Ci basterà riprendere tutto come prima, ritornare “ai santi vecchi”?
Credo che l’esperienza che stiamo attraversando, e che ancora durerà per parecchio tempo, ci possa insegnare qualcosa, fin quasi a ritenere il coronavirus “provvidenziale” nel senso di averci spinto a ripensare a fondo un po’ di cose della nostra pastorale.
Una Chiesa che apprende dai vissuti
A un bel po’ di persone (però stiamo attenti: a quante? Chi abbiamo ascoltato oltre gli habitué e i fedelissimi?) è mancata la messa, e dai toni di qualcuno sembrava fosse venuto meno tutto, fino alla lamentela del “non c’è più religione”. Perché non ci chiediamo invece che cosa non è mancato, o addirittura che cosa abbiamo riscoperto?
Non è mancata la Parola di Dio, la possibilità di leggerla e meditarla personalmente o in famiglia, con un ritmo diverso e per certi aspetti più favorevole all’interiorizzazione di come a volte la si legge durante la Messa, magari schiavi del foglietto prestampato. La parola letta, meditata, “ruminata” come dicevano i padri della Chiesa può essere stata per molti una riscoperta.
Altra positiva esperienza: aver sviluppato contatti individuali e soprattutto familiari – per il catechismo dei ragazzi, per le famiglie, per le coppie di fidanzati – suggerendo testi biblici e preghiere ad essi collegati facendo scoprire o riscoprire il contatto vitale con la Parola. Chiunque in questo tempo, a livello personale e familiare, abbia fatto esperienza di maggior ascolto della Parola e di una preghiera maggiormente alimentata con la Bibbia, ha fatto un passo avanti, una crescita dell’esperienza di fede da continuare.
Non è mancata la prossimità, il cercarsi tra parenti, tra amici, tra conoscenti, tra colleghi di lavoro… anche se solo per telefono o sui social ma con un’intensità più frequente e più forte, in non pochi casi ha voluto dire la ripresa e l’approfondimento di amicizie e di relazioni. Forse la prossimità… troppo prossima (più persone nello stesso appartamento, soprattutto per chi non ha né un pezzetto di giardino o cortile o terrazzo) ha portato a tensioni, irritazioni, malumori; ma può anche esser servita a rivedere e rimotivare il senso del con-vivere. Soprattutto ci sono state molte occasioni per dare più consistenza alla relazione genitori/figli.
Carità e professionalità
Non è mancata la carità, per il moltiplicarsi di servizi di contatto (sia pur con la mascherina e i guanti), accompagnamento, piccole commissioni in favore di chi non poteva muoversi per l’impegno di altre persone abilitate a ciò, per professione o per militanza nel volontariato. Varie associazioni hanno visto accrescersi in quantità e durata il numero di volontari disponibili. E poi decisamente rilevante tutto quello che è stato e continua a essere il sostegno soprattutto alimentare a cura di Caritas, S. Vincenzo de’ Paoli, Misericordie, Pubbliche Assistenze e altre esperienze sia laiche che cattoliche.
Non è mancata – soprattutto, e in maniera determinante e decisiva – la passione unita alla competenza di tutto il personale sanitario e assistenziale sia negli ospedali e negli altri luoghi di cura, sia nei servizi domiciliari. Medici e infermieri hanno rifiutato la qualifica di eroi, perché era il loro lavoro.
Ma c’è modo e modo di lavorare, e tante voci hanno raccontato della tenerezza che ha accompagnato la competenza, dell’umanità che ha dato profumo e sapore alla professionalità. E poi deve restare cara a tutti noi la memoria di quanti sono stati colpiti mortalmente dal virus nell’adempimento del loro dovere.
Non è mancata la creatività degli insegnanti chiamati a una didattica a distanza che chiedeva nuove competenze, creatività, brillantezza ed entusiasmo per colmare le distanze e dire qualcosa che colpisse la mente ma anche il cuore e la fantasia. Qualità che non sono mancate anche a molti catechisti, animatori e perfino a un po’ di preti…
L’elencazione potrebbe e dovrebbe continuare. Pur nell’incompletezza della rassegna di una grande mole di generosità, vorrei dire che il meglio di sé che molti hanno dato e stanno dando – e addirittura la scoperta di ulteriori potenzialità – può diventare un costume, uno stile di vita. Per imparare tutti a riversare un di più di prossimità, di carità, di cura, di inventiva e di passione nella vita che ci aspetta, nella società del dopo-coronavirus. Per uscirne non solo guariti, ma migliori. Più virtuosi, più solidali, più oblativi, più capaci di accoglienza e ascolto.
La politica
Sarebbe – il condizionale è d’obbligo – bello che qualcosa del genere si fosse visto anche nel mondo della politica. Certamente molti sindaci e amministratori locali sono stati interlocutori attenti e costanti verso i loro concittadini. Ma, soprattutto ai piani alti del palazzo, lo stile del rifiuto pregiudiziale delle idee altrui e spesso della rissa ha caratterizzato troppe volte il dibattito politico, con atteggiamenti più mirati alla ricerca del consenso per la propria parte che mossi dalla preoccupazione per il bene di tutto il paese. Nonostante gli alti e sobri appelli del Presidente della Repubblica.
La politica purtroppo è questa, troppi politici manifestano livelli di competenza, di cultura e di umanità inadeguati alle cariche che ricoprono. Non esistono luoghi per il confronto di idee, lo studio dei modelli di sviluppo, la formazione culturale (palese il deficit di memoria storica).
D’altra parte, le università e i licei insegano molte cose, trasmettono molti saperi, ma non sono (o non sono più?) luoghi in cui i giovani sono aiutati ad aprisrsi a una visione della vita, della società, del lavoro in cui ci sia posto per la solidarietà e l’altruismo. Ad alti livelli di competenza scientifica e tecnologica non corrisponde una consistente sapienza umanistica, civile, spirituale.
Uno dei tanti intervenuti nei troppi talk-show di questo periodo ha detto che il coronavirus ha avuto per la società italiana gli stessi effetti di quando in una casa si alza il tappeto sotto cui si era nascosta la sporcizia per un lungo periodo: così sono venuti fuori il debito pubblico, la mancanza di servizi di base, la frammentazione dei territori… Tra le tristi sorprese sotto il tappeto, abbiamo avuto la conferma dello scadente livello qualitativo della classe politica.
Non basta tornare a celebrare
Neanche la Chiesa che è in Italia può sottrarsi a una seria riflessione in proposito. Non ci può bastare riaprire le Chiese e celebrare le Messe col popolo, e però non interrogarci sul nostro essere cittadini e quindi sulla corresponsabilità verso questo popolo di cui facciamo parte. Quando il Presidente della CEI ha sottoscritto un accordo col Presidente del Consiglio e il Ministro dell’interno per la ripresa delle “nostre cose”, la Chiesa ha saputo agire come una lobby efficace, capace di portare a casa un risultato finalizzato a ciò che le sta a cuore: la salvezza delle anime.
Ma ci riguarda anche, come Chiesa, la salute dei corpi. È per questo che abbiamo accettato di sospendere le Messe e limitare tante nostre attività: non solo e non tanto per il divieto di un’autorità estranea, ma per la condivisione dell’obiettivo di difendere la vita, di contrastare la pandemia. Non solo per obbligo, non solo per paura, ma perché convinti per fede che “la gloria di Dio è l’uomo vivente” e quindi ingaggiati in una battaglia contro un comune nemico, mettendo in campo il meglio delle nostre forze.
Coerentemente con un cammino di Chiesa che nel 1976 portò a celebrare il primo convegno ecclesiale all’insegna di una complementarietà anziché di una contrapposizione: “Evangelizzazione e promozione umana”. Nello stesso spirito di non separazione e anzi di integrazione tra l’azione ecclesiale e la vita della comunità civile per cui, nel rinnovato il patto concordatario del 1984, la Chiesa e lo stato si impegnavano “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.
Dunque: riapriamo le porte delle chiese per le celebrazioni, ma apriamole verso l’esterno, perché sia chiaro a tutti quelli che verranno a nutrirsi della Parola e del Corpo del Signore che lì fuori c’è un mondo che li aspetta, una società che deve ancora sconfiggere il coronavirus, una battaglia da combattere a tutto campo. E si torna a celebrare l’Eucaristia come alimento di quei cristiani che come medici e infermieri sono quotidianamente in prima linea; di tutti gli insegnati e gli educatori, di tutti i catechisti e gli animatori, di tutti gli operatori delle Caritas e i volontari delle associazioni; di tutte le famiglie… Tutti questi vengono in Chiesa per offrire la loro vita e per uscirne rigenerati, rimotivati, ciascuno a suo modo missionario di salute, di cultura, di solidarietà, di vita buona.
Ma dalle messe nuovamente celebrate escono uomini e donne che sono cittadini non solo della città celeste, ma anche di quella terrena. E tocca a tutti loro assumersi responsabilità civili in ordine al bene comune: al funzionamento dei servizi sanitari e sociali, alla lotta alla povertà, a un’economia che metta al centro il lavoro, alla cura della casa comune, all’accoglienza dei migranti, alla causa della pace.
Ma tocca anche alla Chiesa – cominciando da chi ha incarichi e servizi nella pastorale giovanile, nella pastorale sociale e del lavoro, nelle Caritas e nell’insegnamento della teologia – formare una nuova generazione di cattolici che trovino nell’impegno politico una dimensione importante della loro fede e della loro testimonianza.
Caritas Italiana
Grazie al servizio in Caritas Italiana ebbi la grazia di conoscere, ormai un bel po’ di anni fa, una persona che non potrò mai dimenticare: Graziella Fumagalli. Un medico che in Somalia dirigeva un ospedale all’avanguardia per la cura della tubercolosi.
La violenza che divampava in tutto il paese troncò troppo presto la sua vita. Nel 1995 ero stato a conoscere il suo lavoro a Merca, a Sud di Mogadiscio. Le rare volte che c’era un prete si celebrava la Messa in modo clandestino, poiché l’integralismo islamico padroneggiavano sulla regione. Mentre mi preparavo a celebrare, Graziella mi chiese di usare al momento del congedo la formula Glorificate il Signore con la vostra vita. Andate in pace. “Perché – mi disse – questo è il compito di noi laici, dopo che voi preti avete celebrato: glorificare Dio con il nostro lavoro fatto bene, celebrare la nostra Messa con la vita”.
Tante volte mi viene in mente questo invito di una martire del nostro tempo, e con tanta stima e affetto mi sento di rivolgerlo a tutti quelli che ormai tra pochi giorni torneranno a partecipare alle nostre eucaristie.
Verso le messe con il Popolo di Dio – Giuseppe Alcamo
Presto torneremo ad essere il Popolo di Dio che celebra nelle sue chiese la sua fede nell’eucaristia. Il senso e il valore di questo sacramento.
L’accordo è fatto, il governo ha decretato come possiamo ritornare ad aprire le Chiese, per costituirci in assemblea liturgica. Adesso, prendiamoci questi giorni che ci separano dalla data della riapertura, per riscoprire il valore e il senso dell’eucaristia, per la Chiesa e per i singoli cristiani. Mettiamo a frutto la sofferenza che abbiamo vissuto per riassaporare la dolcezza di essere Chiesa che celebra, con tutto il Popolo di Dio, la sua fede nell’eucaristia.
Per aiutarci ad approfondire questa riscoperta, mi chiedo: la celebrazione eucaristica è un rito? Durante questi mesi siamo stati privati solo di un rito? Trovare risposte significative a queste domande non è di poco conto, è in gioco l’identità della fede e della vita ecclesiale.
In modo schematico, cerco di focalizzare qualche elemento che può esserci utile per riscoprire il senso e il valore dell’eucaristia.
- Per noi, l’eucaristia ha un rito, che va rispettato, ma non è un semplice rito, è un incontro, unico e insostituibile, reale e concreto, con il Cristo risorto. In ogni celebrazione eucaristica è Cristo che ci parla, è Cristo che ci dona la sua vita, è Cristo che ci rende partecipi della sua morte e risurrezione.
Abbiamo molto sofferto, perché questo incontro, in questi mesi, è stato mediato e non diretto. Adesso, che la pandemia è sotto controllo non possiamo più rimandare; questo incontro per noi è vitale, come l’aria che respiriamo; non possiamo più stare in apnea.
- Cristo nella celebrazione dell’eucaristia, agisce per mezzo del suo Corpo mistico, che è la Chiesa.
L’eucaristia è sacrificio di Cristo e della Chiesa, di lui che è il capo e di noi che siamo suo popolo. La Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa; l’eucaristia è stata istituita da Cristo per fare la Chiesa. Quello che abbiamo vissuto in questi mesi è stato un grosso sacrificio, un’emergenza, che non può assolutamente essere equiparata alla normalità; partecipare all’eucaristia e guardare la messa attraverso uno schermo non si equivalgono. Abbiamo bisogno di ritornare ad occupare l’aula ecclesiale, pur con tutta la prudenza e gli accorgimenti necessari, per sentirci assemblea convocata e animata dallo Spirito di Dio.
- Se il celebrante dell’eucaristia è Cristo risorto e Cristo agisce per mezzo della Chiesa, inscindibilmente uniti con essa, tutti i cristiani, in virtù del battesimo, concorrono attivamente nella celebrazione dell’eucaristia.
Il Popolo di Dio non è spettatore passivo di un rito compiuto dal prete, ma celebra sotto la presidenza del prete con una presenza attiva e responsabile. Non basta guardare, bisogna esserci e partecipare: le posizioni del corpo, l’ascolto attento, le risposte al dialogo liturgico, il silenzio orante… sono tutte espressioni di questa attiva e comunitaria celebrazione. L’invito alla partecipazione è personale e proviene da Dio; la risposta personale a questo invito esprime la decisione di vivere in comunione con Dio e con i fratelli.
- L’eucaristia è cibo che nutre, è medicina che cura, è forza che plasma la comunità, è amore che rende la Chiesa una casa accogliente per tutti, è inquietudine interiore che apre al servizio.
Nell’eucaristia ogni diversità si compone nell’armonia, ogni voce implorante riceve ascolto, ogni bisogno trova qualcuno che si curva su di esso con amore. Celebrare l’eucaristia è un atto liturgico concreto e storico, che attualizza, qui e ora, il dono di amore che Gesù Cristo ha fatto di sé.
- Non basta celebrare l’eucaristia, bisogna diventare “eucaristia”.
Non è sufficiente celebrare il rito, dobbiamo arrivare a celebrare l’eucaristia della vita. L’eucaristia è il contesto liturgico, ma anche storico, dove sperimentiamo la fraternità ecclesiale. La celebrazione eucaristica è la fonte della fraternità, è il sacramento della fraternità e deve apparire come tale sia nella sua struttura liturgica, sia nella sua realizzazione storica.
- L’eucaristia è sorgente della missione ecclesiale:
Non si può celebrare ignorandosi reciprocamente, da estranei; non si può celebrare divisi o da nemici, con tensioni o mordendosi reciprocamente; non si può celebrare non facendosi carico dei poveri (opere di carità); non si può celebrare trascurando i bambini, i ragazzi, i giovani (dimensione educativa); non si può celebrare dimenticando gli ammalati e i carcerati per la fede.
Di tutto questo noi non possiamo farne a meno; noi non possiamo vivere senza l’eucaristia settimanale. Per noi la domenica è il giorno dell’eucaristia: radunarci e chiedere perdono, ascoltare la Parola di Dio, rendere grazie e chiedere aiuto, affidare alla misericordia di Dio il mondo intero, la Chiesa e i nostri cari defunti, nutrirci del suo corpo e del suo sangue.
- Don Giuseppe Alcamo è docente di catechetica presso la Facoltà teologica di Sicilia.