Il 1° dicembre 1948 un decreto del partito comunista al potere decretava la fine della Chiesa cattolica di rito greco e l’annessione forzata alla Chiesa ortodossa.
Contava in Romania circa 1.800.000 fedeli, cinque diocesi, sei vescovi, 1.800 parrocchie, 2.500 chiese, 1.834 sacerdoti, tre seminari con circa trecento seminaristi, un’accademia teologica, nove istituti religiosi, venti scuole con oltre tremila alunni, quattro istituzioni caritative.
La presenza dei greco-cattolici
Il patriarca ortodosso Teoctist mi disse: «I problemi dell’uniatismo sono molto importanti per la vita del popolo romeno, che li ha subiti per secoli come piaghe profonde nel suo corpo nazionale e nel suo territorio ancestrale. Gli studi e i documenti recenti, così come le fonti antiche della nostra fondazione, fanno luce anche in questo campo. L’uniatismo fu imposto dal di fuori, dall’impero austro-ungarico in Transilvania nel 1700, che portò con sé sacrifici incommensurabili in seno al popolo romeno, ferendolo in ciò che gli era più caro: l’unità della fede e l’unità della nazione.
L’atteggiamento cosciente e fermo del popolo romeno, del clero e dei fedeli della Transilvania contro la “magiarizzazione” e l’uniatismo sono stati coronati dal grande atto di unità nazionale – l’unione della Transilvania alla madrepatria nel 1918 – e il ristabilimento dell’unità della fede antica della Chiesa romena nel 1948. Questi problemi sono stati definitivamente risolti nel nostro paese e non vediamo come potrebbero essere rimessi in questione.
Ogni tentativo di riaprire queste questioni, oltre il fatto che dimostrerebbe ignoranza della realtà romena, sarebbe nocivo, a nostro avviso, agli interessi fondamentali dell’unità cristiana; sarebbe, infatti, un tentativo di turbare la pace e l’unità della nostra Chiesa. Gli errori storici li abbiamo corretti noi stessi e siamo decisi a fare tutto quello che è necessario per salvaguardare ciò che abbiamo realizzato a prezzo di tanti sacrifici».
Va sottolineato che, nel 1948, i vescovi cattolici di rito orientale si opposero alla decisione presa soltanto da trentasei sacerdoti su circa mille e ottocento. I vescovi, i sacerdoti e la maggior parte dei fedeli non furono certo d’accordo con l’atteggiamento della Chiesa ortodossa. Volevano rimanere uniti a Roma, professando la fede cattolica nel proprio rito orientale.
Fui informato che alcuni vescovi greco-cattolici, riconosciuti dalla Santa Sede stavano agitando le acque. Mi fu fatto il nome del vescovo Todea, in seguito creato cardinale.
Parlai a lungo con il metropolita Antonio Plamadeala, arcivescovo di Sibiu. Bizzarro, coltissimo, profondo conoscitore della tradizione ortodossa, che continuava a dare alle stampe pubblicazioni e che suscitavano grande interesse.
Studi in America e Inghilterra, Plamadeala faceva parte della commissione mista cattolico-ortodossa ed era membro della commissione incaricata di preparare il sinodo panortodosso. Schietto e pungente: «Il problema dell’uniatismo va visto nell’ottica dell’unità nazionale. Quello che è avvenuto nel 1948 è considerato da tutti i romeni come la restaurazione dell’ortodossia. Per noi la questione è finita. Tutte le parrocchie sono rientrate nell’ortodossia. Sono metropolita della Transilvania e conosco bene la situazione.
Visitando i villaggi, vedo che tutti sono integrati nell’ortodossia. Ma un certo proselitismo persiste ancora a causa di alcuni preti uniati, che non esercitano il ministero. In maniera nascosta hanno una certa influenza. Lei sa che cosa è avvenuto il 6 gennaio 1982. Papa Giovanni Paolo II ha ordinato vescovo Traian Crisan, romeno, di rito greco-cattolico. Abbiamo protestato».
I meriti delle Chiese
Sfogo del metropolita Antonio a parte, in Romania di queste vicende si parlava molto e si moltiplicavano le pubblicazioni con lo scopo di spiegare ai romeni che, nel passato, si era fatto di tutto per smembrare il paese, distruggere la fede ortodossa.
Il 6 gennaio 1982, Giovanni Paolo II, ricevendo in udienza un gruppo di connazionali del vescovo Traian Crisan, ebbe parole di lode per le «benemerenze delle comunità cristiane» in Romania. Disse di volere ricordare la comunità cattolica di rito orientale «che ha avuto un ruolo tanto importante, da tutti riconosciuto, nella formazione e nell’educazione civile e spirituale dei figli del popolo romeno, così come nel risveglio e nello sviluppo (…) della coscienza nazionale».
Alla Chiesa greco-cattolica si riconosceva il merito di aver risvegliato nella popolazione il desiderio di riscoprire la propria identità nazionale.
La prima grammatica scientifica della lingua romena fu scritta nell’ambito dell’altro clero greco-cattolico. Con gli scritti di Petru Maior iniziò il mito romantico della genealogia dei romeni risalente ai tempi della conquista dell’imperatore Traiano.
La Chiesa greco-cattolica voleva unire la “romenicità” dell’Occidente europeo controbilanciando l’influenza dell’Oriente, tenuta desta dalla religione ortodossa.
La Chiesa greco-cattolica, il 1° dicembre 1948, fu abolita e annessa d’autorità alla Chiesa ortodossa romena. Il ministero degli esteri così si espresse in una Nota inviata alla nunziatura di Budapest: «È naturale che ora, nelle condizioni di piena libertà accordate dal regime di democrazia popolare (comunista), gli eredi di coloro che tanto ebbero da soffrire durante secoli da parte della Chiesa cattolica e degli oppressori con essa alleati, ritornino all’antica loro fede».
Il 22 dicembre 1989 cadde il dittatore Ceausescu e si formò il Fronte, nel mezzo di una confusione incredibile.
Doina Cornea, greco-cattolica, una delle personalità più conosciute della protesta contro il regime comunista, chiese espressamente di mettere nel decreto legge n. 9 del 31 dicembre anche l’abrogazione del decreto n. 358 del 1948 riguardante la Chiesa greco-cattolica.
Reagirono gli ortodossi con manifestazioni di piazza. Ci furono aggressioni dovunque contro i greco-cattolici, che chiedevano la completa restituzione dei beni.
La diplomazia vaticana con Casaroli, Silvestrini, Poggi, Colasuonno, Bukovsky cercava di calmare gli animi. Grande stima godeva mons. Todea. Aveva fatto sedici anni di carcere, ventisette di domicilio coatto, due in carrozzella, in grado solo di pregare. «Una vita vissuta con Cristo in croce». È la testimonianza del vescovo di Oradea, Virgil Bercea.