Incontrai mons. Samuel Ruiz Garcia, vescovo di San Cristobal de Las Casas, nel luglio 1997. Era vescovo della zona del Chiapas dal 1960. Mi parlò a lungo della Chiesa autoctona, che il Sinodo delle Americhe, a Roma nell’autunno dello stesso anno, avrebbe affrontato.
«Di Chiesa autoctona si era parlato al concilio Vaticano II nel documento Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa. Una Chiesa che si sviluppa nel proprio ambito culturale; una Chiesa che non ha solamente la capacità di riflettere sulla propria fede a partire dai propri sentimenti, ma di professarla attraverso le proprie espressioni culturali e di essere autosufficiente come Chiesa: quindi con i suoi catechisti, i suoi ministri secondo le diverse manifestazioni dei carismi all’interno della sua situazione storica, il suo clero, il suo vescovo come autorità massima, in una parola, la sua gerarchia».
Non era per la verità un’idea fissa del solo Samuel Ruiz: «I vescovi africani chiesero al concilio di non fare solo un riassunto dei documenti sulla missione, di quella che era l’azione missionaria tradizionale, ma di tracciare delle piste in risposta ai problemi seri, che venivano messi sul tappeto dalle scienze sociali e antropologiche». Anche in America Latina c’erano gli stessi problemi. «Va riconosciuto che storicamente nel nostro continente si ebbe un peccato originale nell’evangelizzazione: la confusione involontaria, ma reale, tra contenuto del vangelo e cultura, attraverso la quale si manifesta l fede. Da questa confusione derivò una identificazione pratica nell’evangelizzazione del continente tra cultura occidentale cristiana e fede cristiana. Si annunciò certamente il vangelo, ma nello stesso tempo si diede vita a una maniera di vivere la fede all’occidentale, dimenticando che la Chiesa non è nata in Occidente».
Continuò il vescovo a motivare la sua passione per la Chiesa autoctona: «In America Latina si impose sulla religione precolombiana, con la quale non si ebbe alcun dialogo, ma solo la ricerca di conversioni. Si fece di tutto per sradicare la cultura degli indigeni, distruggendo i libri, i riti, le feste, gli dei che si veneravano, per arrivare nel più breve tempo possibile alla conversione degli indigeni. Si trattò di una cristianizzazione imposta sulla base della cultura occidentale, che produsse una sorta di schizofrenia nel continente. La parte profonda della presa di coscienza dell’individuo indigeno era precolombiana; vi continuava a persistere la propria cultura, anteriore alla cultura occidentale. Facendola cristiana, le si impose una cultura diversa, provocando una tensione interna, che si manifesta tuttora in diversi modi, sia mediante la professione nascosta ed emarginata dei riti precolombiani antecedenti, sia mediante una combinazione tra il contenuto della religione precolombiana e la religione importata. Una sorta di miscuglio, spesso traumatico».
Di conseguenza, la fede precolombiana doveva manifestarsi attraverso segni occidentali , che non appartenevano alla cultura indigena. Si ebbe un’autentica dominazione culturale e non una evangelizzazione rispettosa della cultura latino americana. Con queste premesse non poteva certo nascere una Chiesa autoctona. «Si ebbero indigeni che, obbligati a sconfessare la propria identità per potersi identificare come cristiani, soffrirono una tensione profonda e dolorosa». Il vescovo mi portò più di un esempio. In quel periodo erano 8.000 i catechisti indigeni nella diocesi di San Cristobal, che contava oltre 1.300 cattolici; più di 200 diaconi sposati e un abbondante numero di candidati al diaconato. Si andava verso un sacerdozio autoctono. «Se non si fa strada il processo di una Chiesa autoctona che s’incarna nella cultura – sosteneva il vescovo Samuel Ruiz – non si dà vera evangelizzazione e non si costruisce la Chiesa. Si sta sviluppando già un “teologia india” per quanti non si sono convertiti al cattolicesimo. E poi ci sono i convertiti, che, obbligati a professare la fede con una cultura a loro estranea, stanno mettendo in questione la conversione stessa a partire dalla loro cultura. Gli operatori pastorali stanno facendo ogni sforzo per far capire il piano di salvezza all’interno della storia e della cultura del popolo indigeno. Questo è il momento sorprendente che viviamo nel nostro continente».
Per quanto riguarda l’ordinazione di uomini sposati, don Samuel Ruiz non aveva dubbi: «Un celibe non ha maturità umana nella cultura del Chiapas. Queste comunità hanno diritto all’eucaristia celebrata non episodicamente e da gente magari venuta dall’estero. Dobbiamo convincerci che qui il celibe fa problema. Il conferimento del sacerdozio agli sposati non nasce qui da discussioni sul rapporto tra celibato e sacerdozio come in Occidente, ma dalla riflessione sulla cultura autoctona. Siamo convinti che qui il problema vada affrontato e risolto in una maniera comunitaria, non quindi a partire dalla posizione di un singolo vescovo».
Non poteva mancare la domanda sul suo rapporto con l’autorità romana. «Le pare che i miei discorsi siano inintelligibili? Basta fare riferimento al concilio e proseguire nelle riflessioni. Non mi meraviglio che vi siano discussioni e anche molto accese. Discussioni che, comunque, investono anche il continente africano. Ribadisco che tutti insieme dobbiamo prendere la strada dell’edificazione delle Chiese autoctone. Dobbiamo dare un segno che ci crediamo veramente».
La Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dal card. Ratzinger, gli inviò una lettera, che lo accusava di errori dottrinali, che l’allora tanto discusso nunzio, mons. Prigione, diede in pasto alla stampa. Lo stesso Giovanni Paolo II gli disse: Si difenda! Nell’agosto del 1995 la Santa Sede gli diede come coadiutore, dietro pressante richiesta del nunzio Prigione: mons. Raul Vera Lopez, un domenicano, per porre fine alla pericolosa attività pastorale di don Samuel. Ma accanto a lui il coadiutore ne assunse lo stile e sposò ben presto la sua causa. La Santa Sede lo trasferì lontanissimo dal Chiapas, nella diocesi di Saltillo, la fine di dicembre del 1999, da dove continua la sua battaglia sulla scia del suo grande maestro, don Samuel Ruiz.