Il card. Christof Schönborn, arcivescovo di Vienna, in un’intervista rilasciata alla rivista Communio di cui è coeditore, rilegge e approfondisce lo svolgimento del sinodo per l’Amazzonia sottolineando i punti chiave che l’hanno caratterizzato. Il cardinale ha partecipato al sinodo per incarico di papa Francesco. Rispondendo alle domande che gli ha posto il teologo dogmatico viennese, Jan-Heiner Tück, si è detto tra l’altro indignato per il modo con cui i media hanno dato le informazioni, fermandosi principalmente sui temi marginali e interni alla Chiesa, come i “viri probati” e il diaconato alle donne, quando invece tutta l’attenzione dei sinodali era rivolta a problemi che riguardano non solo l’Amazzonia, ma il mondo intero e che richiedono una conversione globale. Riportiamo il testo completo dell’intervista in una nostra traduzione.
– Card. Schönborn, il sinodo è una viva espressione della collegialità dei vescovi. Lei dal 1995 è arcivescovo di Vienna e ha già vissuto diverse esperienze di sinodi con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Quali cambiamenti sono avvenuti con papa Francesco?
I sinodi si sono evoluti nel corso dei decenni e ne ho vissuti effettivamente parecchi. Anzitutto direi che il metodo è migliorato. Già con papa Benedetto ci furono dei cambiamenti nel metodo. Papa Francesco ha proseguito su questa linea. Per esempio, con l’Instrumentum laboris, il lavoro sinodale è stato elaborato in maniera più significativa, vale a dire programmato secondo i capitoli contenuti nel testo: nella prima settimana viene trattato il primo capitolo, nella seconda il secondo e nella terza il terzo, in modo che i contributi risultino tematicamente più focalizzati.
Papa Benedetto si era già premurato che ogni giornata sinodale riservasse l’ultima ora agli interventi liberi, cosa che ha accresciuto la vivacità delle discussioni.
Papa Francesco ha inoltre chiesto che i sinodali, dopo tre giorni di assemblea plenaria, si riunissero in gruppi linguistici. In questo modo viene intensificato lo scambio e messo meglio a fuoco il lavoro. Francesco ha anche introdotto la meravigliosa novità che, dopo ogni quattro interventi, ciascuno della durata di quattro minuti, si osservassero quattro minuti di silenzio per dare la possibilità di pregare.
Un altro elemento di sviluppo del lavoro con Francesco sta nel fatto che i sinodi sono intesi maggiormente come un percorso, un processo che inizia con la fase pre-sinodale, continua con la celebrazione del sinodo e termina, infine, con la lettera post-sinodale del papa. In questo modo, il sinodo diventa realmente ciò che deve essere: un syn-odos, un cammino fatto insieme.
– Il sinodo per l’Amazzonia, svoltosi dal 6 al 27 ottobre a Roma, ha portato al centro dell’attenzione universale una Chiesa regionale della periferia. Ma il timore che i dibattiti potessero essere dominati dalle proposte di riforma dell’Europa occidentale era già stato dissipato dalla composizione dei sinodali. Cosa può dire al riguardo?
Già con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano stati celebrati sinodi continentali e regionali. Ricordo, ad esempio, il sinodo per il Libano del 1995. Era un sinodo chiaramente regionale, ma aveva un significato ecclesiale universale; così è stato anche questa volta per il sinodo sull’Amazzonia. Era chiaramente un sinodo regionale perché tutti i vescovi della regione dell’Amazzonia erano ex ufficio membri del sinodo. Si è trattato realmente di un’assemblea plenaria dei vescovi dell’intera regione amazzonica.
I rappresentanti della Chiesa universale erano relativamente pochi. Se ho contato bene, c’erano cinque partecipanti dall’Europa, due dall’Africa, uno dall’Asia, uno dall’Oceania e uno dal Nord America. Tutti gli altri erano o dell’Amazzonia o delle conferenze episcopali di questi paesi, ovvero presidenti delle Conferenze episcopali dei nove paesi amazzonici. In questo senso si è trattato di un evidente sinodo regionale che ha avuto luogo a Roma, sotto la presidenza di papa Francesco, con la partecipazione della Chiesa universale e della curia. I principali responsabili degli uffici di curia erano anch’essi membri del sinodo.
– Hanno partecipato al sinodo anche alcune suore e alcune esperte. Tuttavia, esse non avevano diritto di voto, cosa che era stata criticata in fase di preparazione del sinodo.
Si tratta di una riunione episcopale del sinodo, in cui i vescovi hanno diritto di voto. Il papa ha ripetutamente dato il voto anche ai superiori generali degli ordini religiosi maschili. Ciò ha giustamente indotto a chiedere perché le superiore degli istituti religiosi femminili non potessero votare.
– La relazione finale ha chiarito che gli spunti di riflessione nel sinodo erano sotto il segno della “conversione”, un aspetto che non è stato adeguatamente sottolineato nelle informazioni dei media. Cominciamo con la parola chiave dell’ecologia globale, che papa Francesco ha già ampiamente descritto nella sua enciclica Laudato si’ del 2015. Quali impulsi ha dato il sinodo nel campo della conversione ecologica?
Sono molto grato e contento che lei metta al centro la parola “conversione”. Perché, se guardiamo l’indice del documento finale, in tutti i capitoli il termine “conversione” è una parola chiave. Questo è il filo rosso! Sullo sfondo c’è la preoccupazione che già papa Benedetto aveva chiaramente formulato: se si tratta di una conversione ecologica, allora questa non può essere separata dalla conversione spirituale, pastorale e culturale. È vero che la conversione è stato il tema centrale, ma, se giudico rettamente, esso in realtà, almeno finora, è stato recepito in maniera insufficiente.
Se lei mi chiede della conversione ecologica, vorrei citare ciò che il noto ricercatore tedesco sul clima, il professor Schellnhuber, del Potsdam Institut di Berlino, ha dichiarato: «La distruzione della foresta amazzonica è la distruzione del mondo». Capisco che diversi miei colleghi vescovi abbiano poi detto che ciò era esagerato. Ma io credo che questa affermazione non sia un semplice flatus vocis, ma una cosa molto seria. Ci sono stati altri importanti interventi in questo senso, e tutti hanno convenuto che si tratta effettivamente di un problema decisivo che riguarda il futuro del mondo.
Un vescovo dell’Amazzonia ha affermato: «Voi vi aspettate da noi che proteggiamo la foresta amazzonica, ma voi non siete disposti a cambiare il vostro stile di vita!».
Il dramma dell’Amazzonia è il dramma del nostro stile di vita. La coltivazione su larga scala della soia, che provoca il disboscamento di migliaia di chilometri quadrati della foresta pluviale, si traduce nel nostro consumo di carne: questo è il nostro stile di vita europeo o occidentale. Ed è per questo che c’è stata la richiesta di una solidarietà mondiale con la regione, perché si tratta di un problema universale. Non si può lasciare il peso di questa conversione ecologica ai paesi amazzonici e non muovere neanche un dito per venire loro incontro.
Il prof. Schellnhuber ha anche ricordato che esiste un “Fondo Amazzonia”, finanziato finora solo da due paesi, mentre dovrebbe essere un Fondo mondiale, allo scopo di ammortizzare almeno in parte finanziariamente la sfida ambientale dell’Amazzonia.
– La sconcertante espressione di “grido della terra e dei poveri” esprime la richiesta di una conversione ecologica e sociale. Allo stesso tempo, si chiede di finirla di criminalizzare coloro che difendono i diritti della popolazione indigena e di proteggere i titoli giuridici di proprietà in modo più efficace.
Una delle grandi domande che sono state sollevate in molti interventi riguarda l’incertezza delle giurisdizioni territoriali. I popoli indigeni vivono in questo luogo da secoli, da millenni e, naturalmente, non hanno un registro catastale definito della terra in cui vivono a cui appellarsi, e la richiesta di molti è che qui occorre una sicurezza territoriale in modo che le persone non possano essere facilmente sfrattate quando qualsiasi grande azienda acquista enormi territori e poi di lì allontana gli abitanti.
– Storicamente, l’evangelizzazione delle popolazioni indigene è sempre stata intrecciata con gli interessi delle potenze coloniali. Per purificare la memoria, papa Francesco nel 2015 ha chiesto per questo perdono. Si può dire che su questo punto la Chiesa cattolica impara la lezione dalla storia e compie una riflessione autocritica, nel senso che ora è fortemente decisa a schierarsi dalla parte della popolazione indigena per difenderla da questi interessi economici neocoloniali?
Si può senza dubbio affermarlo, e vorrei aggiungere allo stesso tempo: tutto ciò che è stato fatto per le popolazioni indigene è stato compiuto in gran parte o quasi esclusivamente dalla Chiesa. Si inizia con la bolla Sublimis Deus di Paolo III, del 1537, in cui il papa – piuttosto discutibile per quanto riguarda la sua vita – rivendica con estrema chiarezza i diritti dei popoli indigeni e chiede alle potenze coloniali – soprattutto alla Spagna, ma anche al Portogallo – la proibizione della schiavitù delle popolazioni indigene. La Chiesa era l’unico potere reale di difesa anche se era giunta in quei luoghi per evangelizzare insieme ai colonizzatori. Fino ad oggi, la conoscenza delle popolazioni indigene e la conservazione delle loro tradizioni è stata promossa quasi esclusivamente dai missionari cattolici.
Fino a un passato recente, i missionari erano pronti a imparare le lingue dei popoli indigeni, a metterle per scritto, a raccoglierle in vocabolari, a scrivere le loro tradizioni, come avevano fatto già nel secolo 16° i francescani in Messico. Grazie a questo lavoro disinteressato e affascinante, sono stati conservati molti dei loro tesori culturali e religiosi.
– Siamo così alla parola chiave della “conversione culturale” e al problema dell’inculturazione del Vangelo. Il sinodo ha proposto di elaborare un proprio rito amazzonico. Già nel contesto del sinodo alcuni hanno squalificato la cultura indigena come pagana. Ricordo il gesto con cui alcune statue intagliate che rappresentavano “la vita, la fertilità, la Madre Terra” furono rubate dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina e gettate nel Tevere. Questo atto iconoclasta fu celebrato come un atto simbolico “profetico”. Dall’altra parte, c’era una certa idealizzazione della pietà naturale indigena. Essa ha trovato espressione in una preghiera che diceva: «Pachamama di questi luoghi, bevi e mangia di questo sacrificio a tuo piacimento, in modo che la terra possa essere feconda». Questo pone l’interrogativo se l’inculturazione del Vangelo debba essere sempre anche un’evangelizzazione della cultura. La cultura può avere successo senza giungere a forme di miscuglio sincretistico. Quali criteri applicherebbe lei su questo argomento?
Credo che l’argomento sia antico quanto il cristianesimo. La Chiesa primitiva se ne è occupata intensamente. In definitiva, è già un tema primordiale della Bibbia. La storia del popolo di Dio è una storia di costante confronto con gli idoli e gli idoli, Dio sa, non sono solo i Pachamama e i riti pagani, ma l’idolatria che ci minaccia oggi nel mondo illuminato e cosiddetto civile almeno quanto essa costituisce una minaccia per le popolazioni indigene.
L’evangelizzazione ha sempre cercato di accogliere gli elementi positivi delle religioni, come già dice la celebre dottrina dei Padri della Chiesa circa i semina Verbi, gli elementi del Logos nelle culture dei popoli. Questo può spingersi fino al punto che san Massimo confessore (580-662) nel sacrificio umano dei pagani – con tutte le riserve che si possono fare – può persino vedere una prefigurazione del sacrificio del Figlio di Dio. Ovviamente, questo processo di inculturazione è sempre anche un cammino di purificazione, ma è anche un modo per essere coinvolti con le persone, la loro storia, la loro cultura, le loro vite, e qui ci saranno sempre dei limiti.
Nella disputa sul rito, il mio ordine domenicano, insieme ai francescani, ha tenuto una posizione piuttosto rigorista rispetto ai gesuiti. In retrospettiva rimane l’interrogativo: i gesuiti, con la loro assimilazione e inculturazione di vasta portata, si movevano su una strada migliore di coloro che fin dall’inizio avevano cercato il martirio?
Per quanto riguarda il sinodo dell’Amazzonia, la mia impressione è che lo sforzo di vedere l’inculturazione nel suo aspetto positivo sia stata predominante, e lo interpreto un po’ anche in termini di riparazione, perché molti ritengono che l’evangelizzazione sia avvenuta con poca sensibilità e forse anche che si siano distrutti degli elementi che avrebbero potuto fare da punto riferimento. Papa Francesco ha detto, nel suo discorso introduttivo al sinodo, che noi dobbiamo avvicinarci ad una cultura in punta di piedi.
Questa cautela ha prevalso nel sinodo. Alcuni hanno avuto l’impressione che ciò esprimesse troppo poco la differenza. Poco è stato detto sul modo con cui, tra le popolazioni indigene, le tradizioni e le pratiche disumane avrebbero dovuto essere criticate in base al Vangelo.
– Ciò è anche in linea con la teologia dell’inculturazione del Concilio che cerca di rintracciare gli elementi di verità e di santità in altre culture, per purificarli, risanarli e poi illuminarli alla luce del Vangelo. Da un punto di vista scientifico liturgico, si pongono ulteriori domande: come dovrebbe essere il nuovo rito amazzonico tenendo in considerazione circa 160 popolazioni indigene e le loro culture locali? E siccome, a differenza di altri riti presenti nella Chiesa cattolica, non ha conosciuto uno sviluppo storico, come evitare che il nuovo rito diventi un prodotto artificiale?
Condivido questa preoccupazione, anzi questa critica. Si è sentita varie volte anche nel sinodo. Io stesso, una volta, ho concelebrato a Bangalore la liturgia in rito locale indiano. Si può dire oggettivamente che è un prodotto artificiale. Non è derivata da una lunga storia. Il problema è analogo in Amazzonia. Con una varietà di popoli, una molteplicità di tradizioni religiose e culturali, creare un rito amazzonico indio comune è un artificio.
Ma, per sapere se è giustificato integrare elementi culturali nella liturgia, basta leggere il celebre gesuita Josef Andreas Jungmann (1889-1975), che già alla fine degli anni ’40 pubblicò uno studio sull’inculturazione di elementi germanici nella liturgia latina. Molte cose che abbiamo considerato tipiche del rito romano si rifanno – come egli ha potuto dimostrare – agli influssi delle tradizioni popolari germaniche che furono integrate nella liturgia.
Nelle discussioni durante il sinodo, ha aiutato molto una citazione di John Henry Newman (1801-1890), riportata da Andrea Tornielli nell’Osservatore Romano, tratta dall’Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), in cui Newman, appena canonizzato e forse anche presto dottore della Chiesa, ha indicato molti esempi di come il cristianesimo ha purificato e assorbito alcuni elementi pagani. Si dice in questo saggio: «L’uso dei templi, dedicati anche a singoli santi e occasionalmente addobbati con fronde d’albero, incenso, lampade e candele, oggetti benedetti per la guarigione delle malattie, acqua santa, festività e tempi festivi, uso di calendari delle feste, processioni, paramenti sacerdotali, la tonsura, l’anello nuziale, il volgersi verso Oriente, e poi le immagini, forse il canto liturgico e il Kyrie eleison: tutto ciò ha una derivazione pagana ed è stato benedetto così da essere stato adottato dalla Chiesa».
– Per quanto riguarda la “conversione pastorale”, il sinodo ha sottolineato che è necessario il cambio di paradigma da una pastorale occasionale a una pastorale di presenza continua. Cosa c’è dietro e quali passaggi sono richiesti?
Il tema di una pastorale di visita rispetto a una pastorale di presenza è stato onnipresente nel sinodo. Ovviamente, questa è semplicemente l’esperienza dei vescovi con territori di grande estensione che noi non possiamo immaginare. È come se una parrocchia avesse un territorio grande quanto tutta l’Austria dove ci sono quindici parrocchie con una quantità di piccoli villaggi che fanno capo ad essa, ma così lontani che il sacerdote può visitarli solo una volta all’anno.
Questa tensione tra visita e presenza è notevolmente accentuata dall’esistenza dei carismatici e dei pentecostali. Questo è un problema che, a mio avviso, è stato discusso troppo poco nel sinodo. Ho l’impressione che tutti lo sappiano, ma preferiscono non parlarne. Se è vero – come è stato descritto in un accurato documento informativo sulla situazione pastorale – che circa il 60% (alcuni sostengono fino all’80%) dei cristiani nella regione hanno ora trovato casa nelle Chiese libere e pentecostali, allora siamo in presenza di una sfida incredibile che certamente non può essere risolta da una riforma pastorale come l’introduzione dei viri probati.
Qui si tratta dell’interrogativo di fondo che cosa significa presenza pastorale. La mia impressione, a sinodo concluso, è che il grande compito che la Chiesa in Amazzonia deve affrontare è quello di chiedersi onestamente perché i pentecostali raggiungono i villaggi più remoti e noi no.
– Nei commenti si è accennato ai metodi missionari invadenti e a una problematica teologica della prosperità nelle Chiese libere e pentecostali. La critica è certamente giustificata. Ma, per trovare una via d’uscita ai bisogni in Amazzonia, bisognerebbe chiedersi autocriticamente con la volontà ecumenica di imparare, quali sono gli elementi che possono essere ripresi fruttuosamente dalle Chiese libere e pentecostali, allo scopo di migliorare la pastorale della Chiesa cattolica nella regione.
In effetti, per me ciò che nei pentecostali interpella più radicalmente la pastorale della Chiesa cattolica è il problema della proclamazione del Vangelo. Vescovi e partecipanti laici al sinodo hanno sottolineato che i pentecostali annunciano il kerygma in maniera franca e libera.
Noi cattolici facciamo una pastorale de conjunto, una pastorale d’insieme in cui in primo piano è l’aspetto sociale. Il rispetto delle tradizioni indigene talvolta ostacola l’annuncio diretto. I pentecostali, come ha detto un vescovo, parlano alla persona che è vicina e le dicono: “sai che Gesù Cristo è morto per te, è risorto e ti invita a dargli la tua vita?”. Questa forma diretta a noi è piuttosto estranea, ma è certamente un fattore per cui i pentecostali hanno così tanto successo. Un problema sono anche le promesse del benessere – il messaggio “se tu vieni da noi, Dio ti benedirà e avrai il benessere” –, ma anche la successiva delusione per il fatto che ciò non avviene. Il più delle volte questo fa sì che molti abbandonino le Chiese libere e vadano a cercare altrove. Molto alla fine, delusi, diventano atei. Altri ritornano alla Chiesa cattolica perché la Chiesa cattolica è con i poveri e perché non fa false promesse.
– Veniamo alla proposta secondo cui il bisogno pastorale dell’Amazzonia può essere alleviato anche con la raccomandazione di introdurre uomini che hanno dato buona prova in famiglia e nel lavoro. In precedenza c’erano state aspre critiche perché ciò avrebbe significato una “mondanizzazione borghese” del sacerdozio, una “rottura con la tradizione”. Nonostante questi avvertimenti, il sinodo ha appoggiato a grande maggioranza questa richiesta. Si tratta di un’autentica innovazione se si pensa che Paolo VI aveva sottratto al Concilio la discussione sull’allentamento del celibato e anche i suoi due successori e i corrispondenti sinodi episcopali non hanno messo in discussione la forma celibataria per i sacerdoti. Quali sono gli argomenti che stanno dietro a questa iniziativa?
Vorrei prima accennare a ciò che io stesso ho detto nel sinodo. Come europeo che non è mai stato in Amazzonia, non ho voluto fare grandi affermazioni, ma porre alcune domande che possono illuminare il nesso che c’è con il problema delle condizioni per l’ammissione al ministero sacerdotale.
La prima domanda diceva: cosa dice a noi Dio con il successo delle Chiese pentecostali? Senza rispondere onestamente a questa domanda, corriamo il rischio di trovare soluzioni approssimative, ma di non tener presente il tutto.
La seconda domanda diceva: se è vero che dalla Colombia – un paese dove ci sono molte vocazioni al sacerdozio – 1.200 sacerdoti si sono recati negli Stati Uniti, in Canada e in Spagna, allora si pone l’interrogativo se 200 o 300 di questi, invece di andare a lavorare nel prospero Occidente, non avrebbero potuto o non avrebbero dovuto prestare il loro servizio in Amazzonia.
Insieme a questa, vi è un’altra domanda di maggiore portata: a che punto è la solidarietà latino-americana con l’Amazzonia?
Questo è il famoso interrogativo posto più volte dai papi fin dal 19° secolo: come va la distribuzione del clero? Non esiste forse nella Chiesa cattolica un obbligo continentale e universale di aiuto reciproco là dove c’è una carenza di sacerdoti? All’indirizzo delle Conferenze episcopali latinoamericane la richiesta sottolinea: se l’Amazzonia è una priorità – come ha affermato l’Assemblea generale dei vescovi dell’America Latina ad Aparecida nel 2009 –, allora ci dovrebbe essere anche la disponibilità di inviare dei sacerdoti in quella regione. In Brasile c’è una grande fioritura di nuove comunità, da cui provengono non poche vocazioni sacerdotali. Non occorrerebbe una maggiore solidarietà?
La terza domanda che ho posto riguarda il diaconato permanente, cioè se uno debba essere diacono prima di poter venire ordinato sacerdote. Il diaconato permanente è stato introdotto dal concilio Vaticano II (cf. LG 29, AG 16). Esiste già da oltre 50 anni. Perché non è stata percorsa questa strada in Amazzonia in cui dei viri probati diaconi possano essere concretamente messi alla prova? Gli uomini sposati hanno un lavoro, una famiglia e, nello stesso tempo, sono impegnati nelle comunità come diaconi e possono essere persone del luogo.
E, infine, la domanda sui ministeria quaedam. Papa Paolo VI, in un documento del 1972 che reca lo stesso titolo, ha abolito gli ordini minori e li ha sostituiti con i ministeri del lettorato e dell’accolitato. Egli ha affermato esplicitamente che questi erano dei ministeri laicali e li ha riservati, per rispetto della tradizione, solo agli uomini.
In questo sinodo la domanda ripetutamente posta riguarda la guida delle comunità da parte dei laici in comunità molto disperse, dove in concreto molto raramente può giungere un sacerdote, comunità che non sarebbero nemmeno in grado di mantenere un sacerdote. È possibile in questi luoghi affidare ufficialmente ai laici compiti di guida, che de facto esercitano già ampiamente, se si pensa ai catechisti, come ci sono in molti paesi anche in Africa. Esiste una statistica dell’Africa che mostra quanti vescovi attuali sono figli di catechisti, per non parlare delle vocazioni sacerdotali.
La figura del catechista, e anche delle donne che in queste piccole comunità di villaggio guidano la preghiera e la pastorale, è un percorso che de facto è già stato intrapreso e che potrebbe sicuramente ottenere un maggiore incoraggiamento e sostegno da parte della Chiesa.
Riassumendo tutto ciò, ci si può domandare: che dire dei viri probati presbiteri? Il documento finale del sinodo non usa mai questa espressione, ma parla della possibilità di imporre le mani a diaconi permanenti che hanno dato buona prova di sé e siano richiesti dalla comunità in modo da poter anch’essi presiedere l’eucaristia.
– Si tratta del ben noto articolo 111. Già la possibilità di pensare a facilitare le condizioni di ammissione all’ufficio sacerdotale ha suscitato voci preoccupate nel periodo di preparazione al sinodo. Secondo i più decisi sostenitori del celibato, occorre attenersi al celibato per il Regno dei cieli. Essi portano a questo scopo un insieme di argomenti: quello cristologico, che richiama la conformità con la forma di vita di Gesù, quello ecclesiologico sulla totale disponibilità per la Chiesa e quello escatologico, che sottolinea la natura di segno, rimandando oltre l’esistente verso la pienezza del compimento. Papa Francesco ha ripetutamente sottolineato che un celibato opzionale è fuori discussione ma, allo stesso tempo, ha annunciato la sua intenzione di voler riflettere su alcune norme eccezionali per regioni remote. È ciò che ha fatto il sinodo.
Prima di tutto, vorrei aggiungere un’importante affermazione. Credo che per la maggior parte dei vescovi – spero per tutti coloro che in questo sinodo hanno votato a favore dell’articolo 111 – sia ovvio che per la Chiesa latina la forma di vita celibataria del sacerdote rimane la forma fondamentale.
Nell’anno 692, il Trullanum (Concilio di Trullo) decise per le Chiese orientali, in particolare per la tradizione bizantina, che il clero sposato era per così dire il modello basilare. A quel tempo, Roma non riconobbe quel concilio, ed è chiaramente rimasto fermo fino ad oggi che il carattere simbolico del sacerdozio celibatario rimane la forma basilare. Credo che questo debba rimanere tale anche in futuro, perché su questo punto alla Chiesa cattolica romana è stato affidato un grande tesoro che, nel corso dei secoli, nonostante tutte le difficoltà e tutte le debolezze, ha dimostrato di essere estremamente fecondo.
Ciò che l’articolo 111 propone nel documento sinodale è una norma eccezionale che esiste già oggi nella Chiesa latina. Io ho un parroco luterano che è diventato cattolico con tutta la sua famiglia, e con l’autorizzazione di papa Benedetto XVI ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale. E questo non è il primo caso, ma rimane evidentemente una norma speciale in situazioni speciali.
Credere che i viri probati possano diventare la forma fondamentale del sacerdozio nella Chiesa cattolica romana, penso che sarebbe un grave errore di calcolo. Ma non credo nemmeno che i sacerdoti sposati siano sacerdoti di seconda classe; e sottolineo questo come ordinario delle Chiese cattoliche orientali in Austria con circa 30 sacerdoti sposati in questo ordinariato i quali vivono con le loro famiglie e compiono il loro servizio. Se fosse vera l’affermazione secondo cui esiste un nesso ontologico tra celibato e sacerdozio, significherebbe che questi preti ontologicamente non sono sacerdoti in senso pieno, e ciò non può essere.
– Il Concilio ha espressamente dichiarato in Presbyterorum ordinis (art. 16) che il celibato non fa parte dell’essenza del sacerdozio e ha apprezzato i meriti dei sacerdoti sposati nelle Chiese orientali uniate. Questo deve essere ricordato ad alcuni critici che parlano di preti sposati con un linguaggio addirittura sprezzante.
L’aequa dignitas, di cui ha parlato il Concilio, è qui da richiamare. Con la forma di vita celibataria, se vissuta in maniera credibile, è sottolineata l’alterità di Dio. La rinuncia è un vuoto che indica un mistero più grande.
– Una domanda aperta è come possono i viri probati significare, a modo loro, questa alterità di Dio.
Il problema dei viri probati rimane in effetti anche per noi un interrogativo. L’abbiamo detto al sinodo e penso che sia lo stesso anche per la Chiesa universale. Il diacono permanente, che ha un lavoro, ha famiglia ed esercita il suo servizio nella Chiesa, è un laboratorio per un eventuale ministero sacerdotale che, naturalmente, deve accettare i limiti che comportano l’attività professionale e la vita familiare. Ma sostanzialmente non è impossibile.
In relazione alla sua domanda, se un sacerdote in questa forma di vita possa significare chiaramente l’alterità rispetto al mondo e mettere in risalto anche la dimensione escatologica, vorrei semplicemente raccomandare di leggere alcune biografie dei santi della Chiesa orientale. Uno dei grandi santi della Chiesa ortodossa russa è Giovanni di Kronstadt (1829-1908), che era un sacerdote sposato ed è una delle sante figure sacerdotali della Chiesa universale.
Penso che non si debbano assolutizzare gli argomenti a favore del celibato di cui si è parlato. Rimane sempre il velo o l’occultamento del sacramento. Non siamo ancora nel compimento, e la forma sacramentale contiene la pienezza, ma la contiene anche in forma frammentaria. Raccomando di leggere il n. 1550 del Catechismo della Chiesa cattolica, che parla dell’agire in persona Christi del sacerdote: non tutti gli atti del sacerdote si compiono con tutto il peso dell’in persona Christi, ma solo i grandi atti sacramentali dell’eucaristia, dell’assoluzione ecc.
Naturalmente, anche il ministero pastorale è un’immagine di Cristo, una sua icona. Ma non ha tutto il peso e la grandezza della sacramentalità e questo coopera a far in modo che il sacerdote non sia posto oltre misura su un piedestallo, cosa che non può di fatto realizzare. Il pericolo del clericalismo, di cui papa Francesco parla così spesso, ha qualcosa a che fare con il fatto che, nell’École française, il prete sia compreso come una forma superiore dell’essere cristiano. Ma il Concilio ha chiaramente affermato nella Lumen gentium n. 10 (e il Catechismo lo ha adeguatamente spiegato): il sacerdote è anzitutto un cristiano e la sua santità si manifesta nella santità dell’essere cristiano. Pertanto, credo anche che un vir probatus, a cui il vescovo ha imposto le mani, debba prima di tutto dare testimonianza di essere un vero cristiano.
– Lei ha detto che “non è impossibile” pensare a dei viri probati anche nelle nostre regioni. Di fronte alla desertificazione spirituale delle comunità rurali più piccole e al fatto che le vocazioni al sacerdozio vanno verso il punto zero, vorrei qui ancora una volta ritornare alla domanda se il “non impossibile” non è forse troppo debole. Non bisognerebbe – in vista di una situazione di emergenza – pensare anche qui concretamente ai viri probati?
Certamente, ma solo alle seguenti condizioni. In primo luogo, che il servizio sacerdotale celibatario sia promosso in modo molto esplicito come forma di base, perché era questa la forma di vita di Gesù. Questa sfida deve rimanere. E io penso che l’intera questione della pastorale vocazionale debba concentrarsi decisamente su questo. Consideri la forma di vita di Gesù senza legami, il suo rapporto con il Padre e con gli uomini in questa disponibilità totale e in piena trasparenza. Questa forma di vita è in se stessa un grande valore per cui vale la pena in ogni tempo invitare giovani e meno giovani a sceglierla.
La seconda cosa richiesta per questo cammino è che noi stiamo già iniziando un percorso alternativo alla formazione sacerdotale, che non va oltre la piena formazione degli otto anni in seminario, ma è predisposto per accompagnare vocazionalmente uomini non sposati – e ci sono diversi di questi candidati che si mettono in questione –, ma che non possono lasciare il loro lavoro professionale, e potrebbero compiere un percorso di formazione sacerdotale. Sarebbe un passo sperimentale in direzione dei viri probati e spesso parliamo di questa possibilità. È un imperativo urgente dell’ora. Ci sarebbero sicuramente non pochi candidati che si mettono in questione se non si insiste nell’avere solo un percorso per arrivare al sacerdozio.
La terza è lo sguardo ai criteri presenti nelle Lettere pastorali paoline. Cosa consente a una persona di essere presentata al vescovo come possibile sacerdote per una comunità che si sta estinguendo? Deve essere in grado di saper guidare bene la propria famiglia, deve godere di buona reputazione e deve aver dato buona prova nella vita e nel lavoro (cf. 1Tim 3,1-7; Tit 1,6-9). E tali uomini esistono. Lo dico e lo ha detto il sinodo per l’Amazzonia: i diaconi permanenti costituiscono un laboratorio di questo tipo. Essere diacono è certamente una vocazione vera e particolare, ma non in vista del presbiterato. È pensabile, tuttavia, che le comunità dicano che questo diacono ha dato così buona prova di sé tanto che il vescovo potrebbe ordinarlo sacerdote? L’ipotesi non è fuori luogo.
– Nel periodo preparatorio al sinodo, alcuni hanno chiesto un’apertura al ministero sacerdotale per le personae probatae e, come primo passo, hanno proposto il diaconato delle donne. Papa Francesco ha detto chiaramente che per lui l’ordinazione delle donne è fuori discussione. Egli ha anche costituito nel 2016 una commissione di studio per chiarire il problema. La crescente inquietudine nei riguardi di questo problema indica che il posto della donna nella Chiesa è in tensione con il discorso della parità nella società moderna. Il documento finale del sinodo, nonostante iniziative occasionali, è stato tuttavia piuttosto cauto e il problema di un possibile diaconato femminile è stato rimandato a una nuova commissione di studio per ulteriori ricerche. Cosa c’è dietro a ciò?
Il problema del diaconato alle donne non è dottrinalmente deciso. Ci sono state delle diaconesse, esiste un antico rito di ordinazione per la diaconessa nelle cosiddette Costituzioni Apostoliche (IV secolo). Ma queste diaconesse hanno ricevuto il sacramento dell’ordine nel senso attuale? Sono paragonabili ai diaconi di oggi? Secondo gli insegnamenti del concilio Vaticano II, il diaconato è all’interno dell’unico sacramento dell’ordine di grado non sacerdotale; i diaconi sono ordinati «non per il sacerdozio, ma per il servizio» (LG 29). A questo riguardo, credo, ci sia ancora bisogno di un chiarimento teologico e magisteriale. Nel dopo-sinodo ci sono già voci che parlano di un “effetto domino” delle norme eccezionali, e in effetti una petizione lanciata on-line da Paul Zulehner chiede di introdurre molto presto anche da noi le raccomandazioni del sinodo per l’Amazzonia.
– Cosa pensa al riguardo?
Anzitutto, il sinodo non ha deciso nulla, ma ha sottoposto delle proposte al papa, come fanno sempre i sinodi. Papa Francesco ha annunciato che spera di emanare il documento postsinodale entro Natale. Io dico, poco diplomaticamente, che sono indignato per questo abuso del sinodo per l’Amazzonia. Innanzitutto, dobbiamo prendere sul serio il messaggio di questo sinodo. Per noi, ciò significa innanzitutto una conversione ecologica.
Se, nei nostri interventi, copriamo tutto con l’unica questione dei viri probati, allora ignoriamo completamente il messaggio di questa assemblea sinodale. Questo sinodo è un grido di angoscia! Un grido che riguarda tutto il mondo – e papa Francesco nel suo discorso conclusivo ha chiesto familiarmente ai partecipanti: «Per favore, dite ai giornalisti e in questo caso anche ai teologi e alle persone di Chiesa che lanciano queste iniziative, non parlate delle cosette, ma della cosa». Si tratta di qualcosa di terribilmente serio in questo sinodo. Riguarda i popoli, gli abitanti di questa regione che sono fortemente minacciati, riguarda il clima del nostro mondo, riguarda una sfida globale ecologica che dobbiamo affrontare. I problemi interni alla Chiesa possono e debbono essere messi da parte dando spazio alle urgenze che riguardano tutti gli abitanti di questa terra e non solo ai nostri problemi.