Il recente editoriale di Antonio Spadaro e Marcello Figueroa (cf. Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico, in: Civ. Catt. 2017, III, 105-113) e commentato da Francesco Sisci in Settimananews del 28 luglio, ha ricadute, teologiche ma non solo, che meritano di essere approfondite. Soprattutto l’ecclesiologia mi pare particolarmente messa alle strette dal complesso mondo fondamentalista o integralista.
Il saggio ha un ruolo su questo punto, rappresentando esso sia l’opportunità di riflettere su tutta una serie di fenomeni che attengono primariamente al cristianesimo statunitense sia la possibilità che il cattolicesimo mondiale familiarizzi di più con una geopolitica comune. La mia convinzione è che occorre non trascurare l’ampiezza della visione teologica, come cercherò di dire.
La polarizzazione delle identità
Un primo punto teorico riguarda le identità. Quelle presentate dai due autori oltrepassano il perimetro delle confessioni chiaramente distinguibili: in realtà sono tendenze di “rottura” che si risolvono in una «problematica fusione» tra elementi religiosi ed elementi non religiosi, ed è per questo che investono i presupposti e la sussistenza del discorso ecclesiale.
Ne viene fuori un sistema “scolpito”, che include il bisogno di sentirsi figli di un letterale e decontestualizzato «Dio degli eserciti», la diffusione di una subdola «teologia della prosperità», la paradossale instaurazione di un «ecumenismo dell’odio» o di trincea, la conseguente retorica di una «chiesa militante».
Si vede facilmente l’impossibilità di una coniugazione tra l’esperienza ecclesiale e questa forma particolare di radicalismo confessante. Il problema è che parlare delle persone che compongono una comunità vuol dire fare riferimento alla concretezza e alla percettibilità di una koinonía, mentre il differimento della concezione ecclesiologica dei credenti indica sempre che qualcosa non funziona.
Le identità, dunque, giocano forte sul piano dell’analisi critica, ma sono costrette a scontrarsi con il bisogno di accordare precedenza al sensus ecclesiae. L’articolo introduce per questo una «tentazione della guerra spirituale» che, però, non ha più sponde cattoliche o evangelicali, ma semplicemente partitiche – un fatto confermato dal numero e dal tipo di critiche che il saggio ha ricevuto.
Le conseguenze di un rifiuto
Questa presa di distanza conduce ad alcune conseguenze non calcolate. Intanto la compromissione del desiderio di unità ecclesiale, elemento che deve mettere in conto i rapporti con i dati biblici e magisteriali, ma anche l’invalidamento del contenuto teologico della missione, ridotta tout-court ad un approccio «colonialista».
Inoltre, la “sostanza” ecclesiale è messa a dura prova. Viene meno l’idea di una Chiesa per gli uomini, scompare la consapevolezza che il «popolo eletto» sia «a servizio del mondo». Questo sta a significare l’insorgere di un modello autoreferenziale. La visibilità che queste frange richiedono si traduce in un bisogno di integrazione che non hanno mai vissuto o misurato personalmente.
Si può dire che questi poli religiosi, integralisti o fondamentalisti, operino una cesura profonda e continuativa. Va escluso anche il rispetto di una unità nella pluralità, poiché proprio questo viene contestato con un’ideologia di parte, volta a identificare nemici e a sostenere etnicismi.
Manca, direi, il comune riconoscimento delle qualità ecclesiali dei soggetti, oppure l’apertura al desiderio di una vera comunità. Come ha scritto Francesco Occhetta, la comunità «ha le sue regole, non ammette divisioni e chiede di lavorare per il bene comune» (cf. Populismi, in: Civ. Catt. 2017, II, 547-559). Di tutto questo, nei fondamentalismi e negli integralismi partitici, sembra esserci molto poco.