Serbia ortodossa: laicità perduta?

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Il patriarca ortodosso Porfirio e il presidente serbo Aleksandar Vučić

«Dall’elezione del patriarca Porfirio (2020) non c’è alcuna barriera fra il patriarca e il presidente Vuċić. Sono in totale simbiosi. Preferisco usare questo termine e non quello teologico di “sinfonia”, perché quest’ultimo suggerirebbe la normalizzazione dell’attuale situazione. Una simbiosi ulteriormente rafforzata dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Assistiamo a un processo accelerato di de-secolarizzazione della Serbia, a una manipolazione dei sentimenti religiosi a fine politici».

L’affermazione dell’informatore religioso serbo, Vladimir Veljkovic (Courrier des Balkans, 1 agosto 2024) pone sotto inchiesta l’esposizione politica dell’ortodossia serba.

Intervenendo alla «giornata dell’unità, della libertà e della bandiera della Serbia» (15 settembre, Novi Sad) davanti a tutte le autorità dello stato il patriarca Porfirio ha proclamato un inno alla Serbia riconoscendone i fondamenti nell’esigenza di unità, di libertà e di fedeltà alla bandiera. Tutti e tre radicali nella storia del popolo e della sua fede cristiano-ortodossa.

Sebbene nelle sue ultime parole si sia richiamato alla saggezza e responsabilità dei poteri civili e all’opportunità del dialogo interno, le sue argomentazioni sono coerenti a un impianto nazionalistico e a una religione civile. L’unità di cui si parla è sostanzialmente etnico-religiosa e non una pattuizione civile e la libertà è libertà dal male mentre le altre sono superficiali, erronee e talora false e pericolose.

Chiesa e stato sintonici

La storia personale del patriarca non è priva di attenzioni simpatetiche con la cultura occidentale, con il dialogo ecumenico e con una certa distanza dagli estremismi nazionalistici di destra.

La temperie politica interna e internazionale, il condizionamento dei sinodali, in particolare del vescovo di Baċka Ireneo, e la deriva complessiva delle Chiese ortodosse slave lo portano su posizioni più esposte. La teorizzazione del «mondo serbo» (Srpskl Svet) segue da vicino quella del «mondo russo» (Russkji Mir) nel suo intento di rappresentanza di tutti i popoli di ceppo serbo presenti in Macedonia del Nord, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Albania e nella diaspora (cf. qui su SettimanaNews; e qui su SettimanaNews).

La politica serba non ha la potenza espansionistica della macchina da guerra russa e la stessa proclamazione del «mondo serbo» è per buona parte retorica risolvendosi in incontri regolari fra Vuċić, Porfirio e Dodik, il presidente della regione serba della Bosnia-Erzegovina. Una seconda differenza rispetto al modello russo è la maggior debolezza del governo rispetto alla Chiesa. In Russia è il contrario.

Fra gli episodi che costruiscono l’immagine di una chiesa nazionalistica vi è la polemica sulla formazione scolastica che Ireneo di Baċka denuncia come del tutto subalterna alla cultura occidentale e priva di spazi adeguati per l’insegnamento della religione.

Da sottolineare anche la perfetta convergenza di chiesa e governo in ordine all’opposizione alle richieste di LGBT per una legislazione più favorevole. La sospensione del Gay Pride (settembre 2022) e la spinta a una normativa a favore della «famiglia tradizionale» arrivano a questioni più politicamente delicate, ai nervi più scoperti.

Anzitutto la difesa dell’area della Metochia, il centro simbolico e storico della Chiesa serba, ora in territorio kosovaro (la Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo) dove la fuga delle popolazioni serbe sguarnisce sempre più il presidio dell’area contesa. In secondo luogo alla memoria storica che la Chiesa salda alle sponde più intransigenti del revanscismo.

Il santo sinodo è ufficialmente intervenuto per attestare la «verità» delle 7-800.000 vittime che sarebbero avvenute nel campo di concentramento di Jasenovac durante la seconda guerra mondiale ad opera dello stato indipendente e filo-nazista della Croazia.

Gli studi più affidabili, e fra questi quello del vescovo ortodosso di Pakrac, J. Ċulibrk, espressamente ammonito a non entrar più nell’argomento (14 settembre 2023), parlano di circa 90.000 vittime. Un vero genocidio, ma con diversa proporzione.

Sabor

Furibonda è stata la battaglia ecclesiale e civile per impedire all’assemblea dell’ONU (23 maggio 2024) di dichiarare l’11 luglio come giorno di memoria per il massacro di 8.372 persone a Srebrenica (1995) compiuto dalle truppe regolari della Serbia.

Infine il Sabor, l’assemblea (di origine medioevale) del «mondo serbo» convocata l’8 giugno scorso, per attestare l’identità serba al di là dei confini oggi recepiti con la pretesa di una (nicodemica) annessione della parte serba della Bosnia-Erzegovna alla «madre patria».

La convergenza su questi e altri temi fra attuale governo e la Chiesa ortodossa serba fa concludere così Vladimir Veljkovic: «Abbiamo in Serbia una copia della relazione fra il presidente russo Vladimir Putin col patriarca Cirillo di Mosca. Il modello del dispotismo russo si riflette sempre di più in Serbia».

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