Quando ho sentito l’invito del papa, quasi un ordine, a dare avvio a un processo sinodale in Italia, immediatamente mi sono venute in mente le mie esperienze sinodali: il Sinodo della diocesi di Milano che iniziò nel novembre del 1993, ma anche e soprattutto il “sinodo delle donne” che si celebrò prima, nel marzo del 1993, presso l’Università Cattolica.
Mi sembra significativo riprendere la memoria di quell’esperienza perché la storia ci incoraggia e ci fa capire quando il nostro sentiero è solitario o già percorso. E perché riprendendolo in mano, anche per una veloce rilettura, ci si rende conto di passi compiuti e di parole purtroppo ancora attuali.
Il sinodo era stato organizzato dal Gruppo di promozione donna, nato in seno all’azione Cattolica milanese, di cui era fondatrice Maria Dutto, già presidente dell’AC milanese.
La vicenda del gruppo si è conclusa nel 2013 – tanti i motivi, ma certo anche perché per alcuni discorsi o riflessioni non c’è più bisogno di far parte di un gruppo: ci raggiungono più facilmente.
Il sinodo fu preparato con un questionario, che non pretendeva di giungere a statistiche ma chiedeva alle donne, e non solo, di dire la loro. L’intento era produrre un discorso che aprisse un percorso tra la riflessione della teologia femminista e il vissuto quotidiano.
L’esito fu una serie di domande poste al Sinodo diocesano.
Le domande affrontavano diversi ambiti: pari dignità uomo-donna; valore della soggettività femminile; relazioni sessuali; coppia e famiglia; contributo delle donne al progresso della cultura; presenza e incidenza della donna nella Chiesa ambrosiana.
E ogni serie di domande interpellava anche sulle proposte.
Dai risultati emersero chiari i punti da approfondire, nel senso che chiedevano di essere collocati all’interno della riflessione femminista. In questo modo si comprendeva che il vissuto di molte, che faticavano a dirsi femministe, trovava invece in questo orizzonte teologico un modo per collocarsi all’interno del cammino cristiano.
E, infine, proposte di orizzonti diversi; per la diocesi ambrosiana invece temi più specifici: ministeri istituiti, autocoscienza femminile da sviluppare…
Per apprezzare i contenuti bisognerebbe compiere un’analisi storica che metta in luce l’orizzonte in cui si diede questo sinodo in rosa, come lo battezzarono i giornali, la situazione ecclesiale milanese e non solo.
Qui, invece, seguendo l’invito di Maria Dutto, che scriveva nell’introduzione degli Atti[1] la speranza che questo sinodo fosse modello per gli altri, vorrei sottolineare alcune suggestioni.
Trent’anni dopo: poco è cambiato
Innanzitutto l’ascolto libero e diffuso della base (si deve dire ancora così). È stato fatto per un sinodo universale, si potrà trovare il modo di farlo per uno nazionale.
In secondo luogo, credo importante, nel formulare domande e nel rileggerle, non aver paura del femminismo, e anche di quello che spesso è definito rivendicazione.
In realtà non è rivendicazione ma è solo tono di voce alto, perché su questo – e non solo – è un attimo non essere più ascoltate. Purtroppo siamo ancora qui a ragionare di ruolo della donna nella Chiesa, il che vuol dire che l’attenzione va tenuta desta.
Del resto le decisioni di papa Francesco con il Motu proprio e con le varie nomine lo stanno dicendo: si tratta di trovare vie concrete.
Decidere che alcune domande sono “troppo…” significa disporsi a piccoli ritocchi di facciata che non aiutano.
Rileggendo il sinodo milanese delle donne, leggo che si costatava nel 93 una diminuita conflittualità a livello familiare, ora i femminicidi sono all’ordine del giorno. Segno che se non si costruisce una rete strutturale di educazione, di formazione e di aiuto, alla fine la buona volontà di rispettare l’altro si perde sotto spinte altrettanto forti e significative. E come dicono i manifesti femministi: non chiamiamoli raptus.
Inoltre credo che per molte donne cattoliche sia importante collocare la quotidiana ironia sugli uomini, sul maschilismo nella Chiesa, in orizzonti teologici che da anni aiutano a pensare una Chiesa diversa.
Ma soprattutto dovrebbe essere il paziente e certosino chinarsi sul vissuto delle comunità e, momento per momento, individuare i passi possibili in ordine alla pari dignità battesimale ribadita dal Motu proprio.
Sino a ora ci siamo sempre dovuti fermare (impiego il maschile universale perché ci sono anche uomini preoccupati del ruolo della donna nella Chiesa) davanti al diritto Canonico.
Non è un ragionare da cristiani che può cambiarlo e neppure un sinodo nazionale, ma porre la questione credo che sia un grande aiuto per il papa. E del resto lui stesso ci ha mostrato che cambiare si può.
Sinodo è un percorso fatto insieme. Avere attenzione affinché le donne e la riflessione sulle donne nella Chiesa facciano parte del cammino. Sarebbe auspicabile che ci fosse un Sinodo delle donne anche in quest’occasione, e magari che non nasca proprio solo da donne.
[1] Gruppo promozione Donna (ed.), L’utopia dell’intendersi. Sinodo delle donne, In Dialogo, Milano 1993.
Lavoro nell’organizzazione diocesana da oltre 30 anni e da solo tre anni rivesto un ruolo di pseudo responsabilità (non sono stata definita capo ufficio, titolo riservato ai presbiteri). Sento fortemente la presenza delle donne nel mio ambito lavorativo, ma non amo definizioni che distinguano in continuazione ciò che riguarda le donne, a partire dalle quote rosa, fino al termine femminicidio che secondo me riduce la percezione della gravità di ciò che realmente è: omicidio (non c’è il maschicidio). Ugualmente in seno alla Chiesa non vedo positivo un Sinodo al femminile, nemmeno auspicando che non nasca proprio solo dalle donne.
Il nostro sforzo di donne e soprattutto di madri va investito nell’ambito educativo soprattutto dei più piccoli. Da lì emergeranno donne e uomini in grado di rispettarsi e dal rispetto scaturiranno quasi automaticamente parità di genere, non violenza, accoglienza, dignità per tutti.