Dopo la pubblicazione dell’intervento di Giorgio Agamben su SettimanaNews abbiamo sentito alcuni amici. Persone che guardano con sapiente intelligenza alla vita del paese e delle comunità cristiane.
Si va dal pieno consenso alle parole di Agamben (visto come l’unica voce in Italia che usi ancora la ragione), all’apprezzamento per alcuni passaggi (in particolare quello sul morire e sui morti), fino a un senso di estrema distanza. Per quanto ci riguarda, desideriamo fare solo alcune brevi precisazioni senza entrare nel merito del dibattito che si è aperto. Per questo siamo lieti di ospitare un confronto il più ampio possibile sul nostro sito.
Nella sua asprezza il breve testo di Agamben ha fascino, ma anche le sue afasie:
- la sovranità è oramai uscita dal modello costruito dalla modernità, annidandosi nelle maglie impenetrabili di un’oligarchia fatta di interessi economici privati e volontà di controllo statale – questo con il pieno consenso dei cittadini;
- il «diritto si sta suicidando» (Jacques Ellul) da tempo, prendendo il posto della coscienza del singolo cittadino su questioni di ordine morale e di comportamenti personali – a questo hanno contribuito sia l’avanguardia dell’emancipazione per i nuovi diritti individuali sia il neo-liberalismo tecno-finanziario, anche qui non senza il nostro quantomeno tacito assenso a questo suo snaturamento;
- un’ipotesi fortemente anti-istituzionale come quella di Agamben dovrebbe essere più avveduta nel non esaurire la fede cristiana nella Chiesa in quanto pura istituzione – l’astrazione così prodotta è del tutto speculare a quella che immagina la comunità senza istituzioni, con l’unica differenza che la tensione fra pratica quotidiana della fede da parte delle comunità cristiane e la sua rappresentanza istituzionale è reale (esiste davvero già adesso).
La storia, anche quella della Chiesa, non va usata ma compresa. Per il cristianesimo un martirio senza fede è, nel migliore dei casi, suicidio e, nel peggiore, mero terrorismo. Per fede i martiri sono stati certo disposti a sacrificare sé stessi, se non vi era altra via di praticare la dovuta corrispondenza al Vangelo, ma di sicuro non lo erano a condannare a morte i propri fratelli e sorelle nell’umano – rischiare la vita dell’altro in nome della propria fede è semplicemente contraddittorio col gesto di Gesù.
Se guardiamo al cristianesimo reale e praticato, e non a un’immagine distorta della sua totale identificazione con l’istituzione, la fede non ha assolutamente abdicato alla cura del prossimo. Basti pensare al numero di sacerdoti che sono morti in questi mesi, proprio per essere rimasti in contatto con la loro gente; alle pratiche della carità che le comunità cristiane hanno saputo ripensare in fretta; e anche ai modi che esse si sono inventati per accompagnare degnamente la morte e i morti dovendo pagare lo scotto di una distanza fisica da loro e dai loro cari.
Un vassallaggio incondizionato della fede cristiana rispetto alla scienza («diventata la vera religione del nostro tempo» secondo Agamben) ci sembra altrettanto improbabile: l’istituzione teologica, in nome di quella fede, è impegnata da tempo in un confronto, né servile né dispotico, col sapere scientifico. D’altro lato, era uno scienziato, Richard Feynman, a distinguere tra scienza come passione per la scoperta, che presuppone un permanente non sapere (e comporta quindi l’impossibilità di una parola scientifica con pretesa normativa), e la tecnica come uso e applicazione delle conoscenze raggiunte. Come consapevolezza del non sapere e passione per la scoperta la scienza ha nella sua prassi gli anticorpi che ne impediscono la trasformazione in religione. Se qualcosa del genere è avvenuto, ciò non riguarda la scienza e non è stato fatto in suo nome.
Mai come in questi mesi si è rivelata sia la provvisorietà del sapere scientifico, con le contraddizioni che in esso sono circolate (e circolano), sia la genuina passione della comunità scientifica a favore dell’umano – dal personale ospedaliero ai ricercatori che stanno mettendo in rete conoscenze e procedure per far fronte a una nuova minaccia per l’umanità.
Come redazione ci auspichiamo che il confronto aperto dall’intervento di Agamben possa proseguire sul nostro sito raccogliendo competenze e prospettive diverse. È qualcosa che ospitiamo ben volentieri.
Buon giorno Silvia, in primo luogo mi scuso con il ritardo con cui le rispondiamo – sono giorni intensi ed è difficile seguire tutto con la dovuta puntualità.
Abbiamo pubblicato l’intervento di Agamben per due ragioni di fondo. La prima è che pensiamo SettimanaNews anche come uno spazio di circolazione di idee che non devono necessariamente corrispondere a quelle della redazione, quando si tratta di contributi che possono aiutare noi e i lettori a pensare in maniera argomentata la propria posizione nella Chiesa e nella società italiana.
In secondo luogo perché Agamben chiamava direttamente in causa la Chiesa italiana (e i giuristi): ci sembrava un modo di avviare un dibattito sul tema (dato che non tutti i credenti la pensano allo stesso modo rispetto alle misure adottate per far fronte all’emergenza Coronavirus). Come può vedere questo confronto con Agamaben è iniziato e può offrire ai lettori e lettrici ulteriori spunti di riflessione.
La ringrazio per la sua lettura attenta di SettimanaNews e per il suo intervento su questo articolo. Marcello Neri
Totalmente d’accordo con Silvia.
Con l’aria che tira, la scelta di Settimana di incentivare un simile dibattito lascia temere più un “prurito intellettuale” mal orientato di qualcuno della redazione, che una necessità di utile discussione tra punti di vista diversi. Detto – con tutta franchezza e ovvio rispetto – da un antico e fedele amico di Settimana.
Come mai è stato proposto un contributo dal carattere già evidentemente controverso e distante se non contrario rispetto allo spirito di settimana news? Solo per un dibattito? I lettori che trovano un grande aiuto come me si sono trovati in difficoltà interpretativa sugli obiettivi del blog se non fosse arrivato l’intervento di Grillo prima di questo. Grazie