Negli anni ottanta, sul testo La comunità: luogo di perdono e di festa di Jean Vanier, ho cercato di motivare una delle prime comunità per dipendenze patologiche nel bolognese.
Di Marko Ivan Rupnik amo contemplare estasiato i mosaici della chiesa del Corpus Domini, a Bologna.
Ciò premesso, a mio parere, credo sia importante articolare alcune riflessioni sul tema degli “abusi.
Argomento molto delicato, per cui le parole vanno ponderate.
Da subito l’espressione “a mio parere” per sottolineare la relatività di ciò che scrivo. Chi crede di possedere la verità passa immediatamente al giudizio, come se le persone si identificassero esclusivamente in quello che di negativo hanno commesso.
Quindi, non uso neppure l’espressione “a mio giudizio”, per non incorrere nella tentazione della colpevolizzazione di qualcuno o di qualcosa.
Parto da tre verbi – a mio parere – fondamentali: abusare, giustificare, capire.
Abusare, inteso come mettere in atto comportamenti illeciti e condannabili contro persone o cose.
Credo sia utile sottolineare che, quando si tratta di persone, anche il verbo “usare” non andrebbe bene. Le persone non si usano, ma si coinvolgono o, insieme, si fanno tante cose.
A maggior ragione l’abusare è condannabile. Non tutti gli abusi però hanno la stessa gravità.
Le violenze sessuali sono abusi particolarmente obbrobriosi per il danno profondo e duraturo che provocano nelle persone.
Per la lingua italiana il verbo giustificare significa rendere scusabile, ammissibile, legittimo.
In questo senso gli abusi non sono né giustificabili, né ammissibili e, tanto meno, legittimi.
Sono obbrobriosi e punibili! Anzi, sul piano umano, a volte vanno anche oltre il penale e il civile! Soprattutto quando l’abuso è sopraffazione del forte sul debole.
Il verbo capire apre spazio a considerazioni complesse che – sempre a mio parere – aiutano a superare facili semplificazioni che potrebbero indurre alla tentazione di voler separare immediatamente il loglio dal grano.
Il verbo capire coinvolge il piano intellettivo, ma va anche oltre.
Quando Gesù guardava negli occhi, capiva in profondità!
Quando si tratta di persone, non si può ridurre il verbo capire esclusivamente sul piano intellettivo. Si tratta di capire comportamenti umani. Come mai una persona abbia fatto quelle cose. Come abbia potuto, soprattutto quando la persona che ha abusato ha fatto anche tante cose buone.
Il verbo capire apre a tante domande che aiutano a evitare l’immediata condanna complessiva e a favorire altre considerazioni anche di utilità sociale.
In psicoterapia, un approccio moderno evidenzia che i cambiamenti sono facilitati quando il terapeuta si mette nell’atteggiamento del capire in profondità.
Il terapeuta entra in gioco lui stesso in modo sincero. Con l’empatia interagisce e aiuta l’altro a sentirsi capito. Relazione che facilita l’uscita dall’isolamento che ingabbia l’immagine negativa di sé.
«Evitate le diagnosi. Lasciate che il paziente sia importante per voi… Empatia: guardare dal finestrino del paziente… In terapia la forza del cambiamento non è un’intuizione intellettuale, non è un’interpretazione, ma è invece un incontro profondo e autentico tra due persone» (Irvin Yalom, Diventare sé stessi).
Questo atteggiamento aiuta a ripercorrere il vissuto per scoprire ciò che non ha funzionato. Se uno si sente negativo in tutto, attiva meccanismi di negazione o si deprime fino ad annullarsi.
Non si tratta di deresponsabilizzare rispetto al misfatto, ma di non ricacciare nel disumano una disfunzione profonda.
Chi abusa è condannabile per le azioni commesse, ma è recuperabile se si riconosce bisognoso di aiuto e incontra un aiuto adeguato.
Per capire è indispensabile avere il coraggio di ammettere che – dopo Adamo e Eva – il rischio della perversione è dentro ognuno di noi. Se mi ritengo migliore, chiudo la comunicazione e l’altro rimane isolato.
Capirsi per capire, aiuta a capire.
Se condanno e punisco gli abusi non posso condannare in toto la persona. Non può essere tutto brutto quello che ha fatto. Non posso eliminare i quadri di Caravaggio perché omicida.
Nessuno può essere tutto buono o tutto brutto.
Queste considerazioni sono alla base della giustizia riparativa.
Prima ancora di diventare strumento giuridico, la giustizia riparativa è opportunità di cambiamento attraverso la consapevolezza del reato, del proprio star male e la disponibilità a essere aiutato.
Lei parla di cambiamento. Ed è la parola chiave per combattere gli abusi nella Chiesa, focalizzando bene l’ attenzione su cosa si innesca in un presbitero per sentirsi autorizzato ad abusare di donne, suore o meno, col pretesto della direzione spirituale. Che cosa abbia innescato tanta complicità e cecità in chi sapeva e lo permetteva. Che cosa trattenga ora Rupnik dal collaborare perché tutto venga alla luce. È vero, occorre capire. E gli strumenti li abbiamo per capire che è fin troppo sottile il confine tra autorità spirituale e abuso spirituale e tra questo e quello sessuale. Abbiamo gli strumenti per capire che non c è nessuno, nemmeno un blasonatissimo Rupnik, immune da tali derive e che proprio per questo occorre vigilare e soprattutto operare seriamente per cambiare la rotta. Capire che il cambiamento è possibile se ci sarà da parte della Chiesa una nuova, finalmente realistica, percezione di sé stessa.