Ne La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino, il protagonista, prestando servizio al seggio elettorale del Cottolengo per le elezioni del 1953, scopre finalmente le suore, sempre viste ma mai veramente guardate. In occasione di assemblee come quella nazionale dell’USMI (Unione superiore maggiori d’Italia; Roma 30 marzo – 1 aprile) torna l’invito a guardarle e non solo a vederle. 400 presenze (in rappresentanza delle circa 85.000 suore), con vestiti diversi a seconda dell’istituto, ma accumunate da una grande discrezione e una sostanziale omogeneità, sono state coinvolte nel 63° raduno con il titolo: «L’arte del passaggio. Nella missione risplende la misericordia del Padre».
Tensioni e indirizzi
Le linee di forza che hanno attraversato le sei relazioni e i lavori di gruppo si possono ridurre a due. Da un lato una posizione lucidamente critica nei confronti dell’attuale situazione della vita consacrata attiva come insufficiente rispetto alle domande profonde della fede e del tempo, ma in tensione rispetto ai segni positivi di futuro che sono stati intravisti; dall’altro un’argomentazione che ha ormai alle spalle la centralità delle opere e dei numeri e una sollecitazione opposta a non essere frettolosi nell’archiviare i segni visibili (le opere) quando sia possibile mantenerli o rinnovarli. I lavori, avviati da una lectio divina sono stati conclusi con un riferimento alle opere di misericordia, quindi al tema del giubileo. I relatori sono stati: Giacomo Morandi, Marco Rupnik, Lorenzo Prezzi, Nicla Spezzati, Annarita Cipollone, Edoardo Boitani.
La lectio divina (G. Morandi) ha preso avvio da Gv 15,16 in cui Gesù offre il testamento e le clausole per il discepolato cristiano il cui cuore è indicato dal rapporto tra vite e tralci. In un tempo che chiede decisioni improrogabili l’unico imperativo è di restare uniti al Cristo, o meglio di restare in lui. La logica di morte e fecondità del chicco di grano o quella della potature per produrre frutto costituiscono il viatico pasquale che da sempre accompagna l’esperienza cristiana. La fragilità e la passività (rimanere in lui) diventano l’elemento di forza quando l’insieme delle strutture e della opere mostrano la loro insufficienza.
P. Rupnik ha ulteriormente insistito sulla fondazione battesimale e cristologica del vivere insieme dei consacrati, lontani non solo da pensieri di potenza e di potere, ma anche consapevoli di una estraneità rispetto a ogni valore mondano. Invece di pensare che per essere affascinanti per il mondo bisogna essere totalmente uguali al mondo, che praticando l’umano slitteremo inesorabilmente verso il divino, dovremo rovesciare la prospettiva. Soltanto essendo eucaristici potremmo suscitare l’interesse del mondo, soltanto praticando la divina-umanità che il battesimo ci ha dato potremo salvare l’umano comune. Non si diventa spirituali senza dolore, per via intellettuale e culturale, ma nella preghiera e nella celebrazione. Come consacrati raccontiamo l’incontro di Gesù con i morti (peccatori) e incrociando il suo sguardo – come espresso nel logo del giubileo, opera dello stesso Rupnik – passiamo da individui a persone, da uomini a salvati. Sullo sfondo: un vero e proprio cambiamento di paradigma e di civiltà. Il richiamo al modello binario delle epoche organiche (nesso fra uomo-natura-creato e Spirito) e critiche (il primato del pensiero, dell’individuo e delle successione idea-pratica) stimola la percezione di una nuova epoca dove la domanda di senso e il dono dello Spirito rappresentano la soluzione davanti all’abisso dell’in-umano e alle domande sul post-umano e il trans-umano.
Segnali di futuro
Temi e indicazioni che possono sembrare astratti e che invece attraversano il corpo degli istituti femminili alle prese con una grave contrazione dei numeri, decisioni pesanti sulle grandi opere, alimentazione spirituale del carisma, rapporti intergenerazionali (con i pochi arrivi) e interculturali (con le suore di altri continenti e culture). Dismettere l’identità legata alle opere non significa immediatamente un rinnovato senso comunitario. L’«arte del passaggio» rimane difficile e ostica.
Per questo, la parte positiva, cioè i segni del futuro hanno raccolto un’attenzione non minore (L. Prezzi, sr. N. Spezzati). A partire dall’anno della vita consacrata che, se non ha visto decisioni e iniziative eclatanti, ha tuttavia segnato l’uscita dal cono d’ombra nel quale la via consacrata era stata ricondotta nei decenni precedenti. Fra i segni promettenti sono stati indicati: la fecondità (delle nuove fondazioni, ma anche il rinnovamento di quelle tradizionali, le comunità intercongregazioni, le presenze sulle emergenze sociali e di senso); la rinnovata centralità della parola di Dio che è ormai, accanto all’eucaristia, il tratto più coltivato della vita spirituale; il franco riconoscimento dei limiti, anche dolorosi come gli abbandoni e i casi di abuso; il carisma inteso non come separazione dagli altri ma come forza spirituale che richiede creatività, passione evangelica, attenzione ai poveri; l’attenzione alla laicità e alla donna perché il fondamento resta il battesimo e perché «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» anche nei luoghi dove si prendono decisioni importanti (EG 103); la profezia, cioè la capacità di leggere l’oggi con l’occhio di Dio, di attraversare gli eventi con la forza della Parola, di leggere la storia dall’escatologia, il presente a partire dal ritorno del Signore.
Di particolare rilievo è il rinnovamento della vita in fraternità. È una delle dimensioni più belle del percorso post-conciliare della vita consacrata, quella che papa Francesco indica come la «mistica del vivere insieme». Essa comincia dalla rinascita dall’alto, dal Padre nostro. «La fraternità ha una forza di convocazione enorme. Le malattie della fraternità, d’altra parte, hanno una forza che distrugge». E, infine, la gioia perché Dio è capace di riempire il cuore e rendere felici.
Quando i singoli, le fraternità e le comunità perseverano nel cammino di conversione crescono come memoria viva del Vangelo. Si aprono a una nuova esperienza di Dio, al riconoscimento del protagonismo dello Spirito e alla convinzione divenuta reale che non è la Chiesa a fare missione, è la missione a fare la Chiesa. Vi sono segnali importanti come il servizio dei religiosi e religiose in ordine al discernimento delle vocazioni ecclesiali, la creazione di reti di sostegno e di appartenenza alle Chiese locali, le esperienze ecumeniche e interreligiose. In particolare la dimensione interculturale di molte famiglie religiose sollecita fraternità nuove e nuovi modi di pensare e di tradurre il carisma. «L’obiettivo della vita consacrata non sarà quello di mantenersi come stato permanente nelle culture diverse che incontrerà, ma quello di mantenere permanente la conversione evangelica del cuore della costruzione progressiva di una realtà umana interculturale. Sembra quindi evidente che non c’è evangelizzazione possibile senza un approccio discreto e rispettoso delle culture, come pure non c’è approccio delle culture, senza spogliarsi di sé in nome del Vangelo» (N. Spezzati).
Opere e identità
L’avvocato Edoardo Boitani ha sviluppato un tema giuridico particolare (la riorganizzazione degli istituti in relazione al diritto civile e ai patti concordatari), ma con una premessa di peso: «A volte di fronte al tema “l’avvenire degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica” ho avuto l’impressione, mi auguro infondata, di un pessimismo latente o quantomeno di una incertezza per il futuro. Se la preoccupazione sorge dalle difficoltà, a volte oggettive, di gestione delle opere, lo stato d’animo può essere condiviso, ma il pessimismo, a mio sommesso avviso, deve essere respinto». Dopo avere illustrato la positività del quadro concordatario in ordine al riconoscimento civile degli istituti, al ruolo del loro rappresentante legale e delle loro attività nell’ambito dell’ordinamento giuridico-tributario italiano, ha sottolineato: «Prima di abbandonarsi a scelte che, pur imposte dalla criticità di situazioni e comprensibili, rischiano di fare scomparire l’opera o il suo collegamento con l’istituto religioso, mi parrebbe necessario insistere nella ricerca di nuove formule – eventualmente con la collaborazione delle altre componenti del popolo di Dio, soprattutto i laici – che ne evitino la chiusura, consentendo così la continuità dell’opera».
Un’unica rappresentanza?
L’intervento sulle opere di misericordia (A. Cipollone) da un lato ha incrociato il giubileo, enfatizzando più la dimensione pratico-caritativa e celebrativa (confessione) rispetto alla tradizione dell’indulgenza e, dall’altro, si è sintonizzato sul tema dell’umanesimo vissuto che è stato al centro del Convegno di Firenze (9-13 novembre 2015) della Chiesa italiana.
L’abitudine al ritrovarsi in assemblea ha creato ormai da tempo una conoscenza reciproca e un fitto intrecciarsi di scambi di esperienza e di amicizie. Si percepisce ormai maturo il tempo per chiedere una collaborazione più stretta, se non una rappresentanza unitaria, con l’insieme del mondo dei religiosi italiani (i maschi sono riuniti in una istituzione parallela, la Conferenza italiana dei superiori maggiori, Cism). La rappresentanza unitaria è pratica corrente in molti paesi europei e in alcune diocesi italiane. I numeri e le sfide comuni lo esigerebbero.