«Tutte le membra soffrono insie­me»

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«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insie­me». Con questa citazione presa dalla prima Lettera di san Pa­olo ai Corinti il Papa apre la Lettera al popolo di Dio del 20 agosto scorso, per fare memoria e chiedere perdono per i tan­ti abusi da parte di membri della Chiesa a danno dei più pic­coli e indifesi.

Basta ascoltarsi, ascoltare per un attimo il proprio corpo, il proprio mal di testa, per comprendere quanto questa metafora dalla lunga storia sia vera e quanto possa dire a noi, a questa comunità che cammina nella storia col nome di Chiesa. Dio in Abramo ha scelto un popolo, con Mosè ha liberato un popolo, nell’esilio ha pianto col popolo, a questo popolo ha promesso un Messia. Ogni infedeltà di qualcuno, ogni perdita, ogni in­giustizia ha colpito tutto quel popolo e ha richiesto la peniten­za, a volte la punizione, di tutti. E Gesù, il Figlio di Dio, ha vo­luto accanto a sé quel popolo, nei Dodici, ha chiesto al Padre che siano “uno”, li ha amati fino alla fine. E quando rinnega­mento, tradimento, assopimento hanno ferito questa piccola comunità, tutti ne hanno sofferto, e poi, pur rimasti Undici, in­sieme hanno ricevuto nuovamente la forza del Risorto.

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme». È il mistero della Chiesa, corpo di Cristo-Capo, che tutta intera con lui grida sulla croce il suo abbandono e tutta intera con lui è destinata alla Risurrezione. Se un piccolo, un innocente, un povero soffre, tutto il corpo viene colpito, nessuno può sentir­sene indifferente, lontano, estraneo. «Siamo interpellati come popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito» (dalla Lettera).

Ma appena sopra, nello stesso passaggio della Lettera ai Corinti, Paolo dice che «le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle inde­corose sono trattate con maggiore decenza». Rimaniamo sem­pre corpo, anche se qualche parte di noi è “meno onorevole”, è “indecorosa”, è “malata”. Rimane corpo il Giuda che tradi­sce, rimane corpo il Pietro che rinnega e lo rimangono Giaco­mo e Giovanni che con lui si addormentano di fronte alla sof­ferenza dell’Amico. Rimane corpo la mano ferita, il piede pia­gato, quell’organo interno che anche se non lo vedi non fun­ziona più e fa dimagrire, toglie le forze all’intero corpo. Rima­ne parte del nostro corpo, la Chiesa, anche il membro che sba­glia, che porta sofferenza al corpo stesso, che diventa sempre più “indecoroso” e sempre “meno onorevole”. La mia mano è malata, è fuori controllo: la fascerò, perché non faccia del ma­le. Me la legherò al collo, ancora più vicino a me. Le metterò un supporto rigido, che la costringa a stare ferma e diritta. Di sicuro, se vorrò stare bene, non farò finta di nulla, perché co­sì facendo purtroppo la sua malattia si trasmetterà agli altri or­gani e farà loro sempre più male. Ma neppure la taglierò, sen­za provare a guarirla, come se non fosse parte di me, come se dalla sua guarigione non ne guadagnasse tutto il resto del cor­po. E se, alla fine, sarò proprio costretto a tagliarla, tanta è la cancrena, sarà sofferenza per tutti, sarò per sempre un “cor­po mutilato”.

Risentirci corpo ci restituisce la cura e la preoccupazione per la parte ferita, ma anche la cura e la preoccupazione per la parte malata. Molte reazioni, pur legittime, che sono venute dall’interno della Chiesa, non sono la voce di un corpo. «Ma questi fenomeni di abuso ci sono anche, e di più, nelle altre ca­tegorie sociali, nelle famiglie, nei gruppi sportivi … ». Come se la mano malata dell’altro fosse la guarigione della mia. Come se non fosse una sofferenza in più, un motivo in più per cerca­re insieme una medicina. «Ma nella Chiesa ci sono tante mem­bra sane, sono la maggior parte, guardiamo a quelle!». Come se due piedi e una mano sani facessero dimenticare quel­la malata, non si dovessero preoccupare di portare dal medi­co quella malata, non piangessero, assieme al resto del corpo, per quella malata.

Prevenzione, diagnosi, cura, anche dolorosa e severa, so­no necessarie perché il corpo stia bene. Esse servono perché la mano non si ammali, per riconoscere la sua malattia, perché non porti conseguenze negative al resto del corpo. Ma non dimentichiamolo: esse servono anche perché la mano guari­sca, perché possa migliorare, e così ne avranno beneficio tutti.

Fuor di metafora, senza nasconderci dietro le parole: sia­mo, come Chiesa, un unico Corpo, uniti in maniera sacramen­tale, siamo per forza dello Spirito “edificati insieme”, alimen­tati dall’unico Cuore pulsante. Non possiamo rimanere indiffe­renti di fronte alle sofferenze di nessuno, dei più piccoli abusati e per troppo tempo trascurati, dimenticati, oltraggiati due vol­te dal nostro silenzio. Non possiamo permettere che ciò acca­da ancora; siamo chiamati ad agire con fermezza e senza am­biguità, affermando che l’offesa dei più piccoli e indifesi è sem­pre inammissibile e assolutamente incompatibile con l’eserci­zio di qualunque ministero. Ma neppure possiamo chiamar­ci fuori di fronte al fratello e alla sorella che hanno sbagliato e sbagliano, che sono vittime del loro stesso peccato, che hanno storie piene di ferite, subite e compiute. La “tolleranza zero” è per il peccato, che va evitato in tutti i modi, non per il pec­catore. La misericordia è per tutti, lo sguardo del Signore dal­la croce è per tutti, per le vittime innocenti ma anche per quel­le colpevoli, «perché non sanno quello che fanno». La Chiesa possa camminare “nella verità e nella carità” in ogni situazio­ne, di fronte ad ogni uomo, per far emergere la verità dove è stata soffocata, per mostrare la verità a chi la soffoca, per co­niugare la carità in tutte le sue possibili forme: riconoscimento, sostegno, attenzione, giustizia, riparazione, prevenzione, pen­timento, perdono.

Il testo qui riportato è l’editoriale dell’ultimo numero della rivista di spiritualità pastorale Presbyteri, 52(2018)9, un monografico dedicato al tema: «Quando a sbagliare è il prete».

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