A un anno e mezzo dell’aggressione russa all’Ucraina, il panorama religioso del paese conosce una progressiva secolarizzazione, una piegatura nazionalistica o identitaria, una maggiore distanza fra le tre Chiese maggiori (ortodossa autocefala, ortodossa non autocefala, greco-cattolica), una visione incerta per il futuro.
Lo scandalo di una guerra fra cristiani, l’abbondante utilizzo del deposito simbolico religioso, il consenso acritico della Chiesa russa alla violenza aggressiva dell’esercito di Putin e il corrispondente dubbio sull’affidabilità della Chiesa non autocefala alimentano la progressiva lontananza dalla fede, come ha intuito l’arcivescovo maggiore degli ucraini, Sviatoslav Shevchuk.
L’urgenza della compattezza sociale nella tempesta bellica ha enfatizzato la connotazione nazionale della Chiesa autocefala di Epifanio e dei greco-cattolici. Lo sforzo di salvare il legame canonico-spirituale con Mosca ha portato la Chiesa non autocefala di Onufrio sulle sponde di un identitarismo poco comprensibile ai fedeli e molto sospetto ai poteri amministrativi e politici, decisi a chiedere ragione di un collaborazionismo sotto copertura.
Uno degli effetti dei processi in atto è la maggiore distanza fra le Chiese e una minore credibilità del Consiglio nazionale delle Chiese e delle religioni. Tutti percepiscono il compito ecclesiale per il dopo guerra, ma senza una leadership adeguata e senza una visione complessiva.
Chiesa di Onufrio
In un argomentato articolo, mons. Silvestro di Belgorod, rettore dell’accademia teologica di Kiev, ricostruisce i comportamenti della sua Chiesa (non autocefala) nei mesi della guerra.
Dopo la tempestiva denuncia dell’invasione pronunciata dal metropolita Onufrio il giorno stesso dell’invasione (24 febbraio 2022), racconta l’affannosa programmazione del concilio (27 maggio 2022) in un clima di grande incertezza. «Oggi possiamo dirlo chiaramente; nel corso dei mesi di guerra non abbiamo ascoltato alcuna condanna dell’aggressione militare e neppure un cenno di semplice compassione umana per gli ucraini travolti dal dolore da parte del clero della Chiesa ortodossa russa, ad eccezione di pochi ecclesiastici».
Avviata come semplice riunione di vescovi, l’assemblea si è trasformata in concilio in poche ore, con l’inserimento di preti e laici disponibili. Dopo quell’assemblea, scelta e intronizzazione del metropolita non necessitano della benedizione del patriarca Cirillo, nessuna decisione della Chiesa passa da Mosca, il nome del patriarca non entra nei dittici delle celebrazioni, il metropolita non è più membro del sinodo russo e la preparazione del santo olio crismale si fa a Kiev e non viene da altrove. Non è stata espressamente chiesta l’autocefalia perché avrebbe posto la Chiesa ucraina in una terra di nessuno, in uno scisma, senza possibile dialogo con le altre Chiese.
Nonostante questo, il servizio nazionale per l’etnopolitica e la libertà di coscienza ha prodotto, pochi mesi dopo, un testo di valutazione che afferma la permanenza di un legame significativo e censurabile con il patriarcato di Mosca. Una conclusione considerata errata, perché incapace di avvertire il vincolo dei canoni ecclesiastici e per le critiche dirette che permangono verso la concessione dell’autocefalia all’altra Chiesa ortodossa locale da parte di Bartolomeo di Costantinopoli.
La sospensione della comunione eucaristica con il Fanar e con la Chiesa autocefala ha ragioni ecclesiali e non politiche. È necessario un dialogo intra-ortodosso per costruire una formula di consenso.
Nella sua argomentazione, Silvestro di Belgorod ammette che, nei mesi della guerra, fra le due Chiese «le relazioni si sono considerevolmente deteriorate». La Chiesa di Epifanio «ha oggi una posizione apertamente aggressiva verso la nostra Chiesa. I loro dirigenti utilizzano la situazione per schiantare letteralmente la nostra Chiesa».
Dal novembre del 2022 si sono seriamente deteriorate anche le relazioni fra Chiesa non autocefala e gli istituti statuali ucraini che l’accusano di collaborazionismo con l’invasore. «Anche se ci sono state alcune decine di casi di collaborazionismo, non si tratta di un fenomeno di massa fra il nostro clero».
La Lavra e i monaci
Il caso più noto della tensione con lo stato riguarda la Lavra delle Grotte di Kiev, il maggiore complesso monastico del paese che ospita 200 monaci, 300 studenti di teologia, la curia del metropolita, alcune delle chiese maggiori del paese e una serie numerosa di attività artistiche e commerciali. Proprietà dello stato, il monastero è nella responsabilità di una fondazione che fa capo al ministero della cultura.
La volontà politica di rimuovere la presenza della Chiesa non autocefala ha interessato solo in parte il complesso e sono in atto decine di conflitti giuridici. In questi ultimi giorni, il cambiamento del ministro e del responsabile della fondazione sembra congelare la situazione con una compresenza conflittiva delle due Chiese.
Le proposte ai monaci e all’accademia (passare all’obbedienza di Epifanio, collocare il monastero sotto la protezione di Bartolomeo, trasferirsi in un monastero russo) sono ancora sul tavolo.
Nel frattempo, un conflitto giudiziario ha coinvolto il vescovo Paolo, responsabile del monastero, sottoposto a giudizio e agli arresti e ora liberato dietro pagamento di una cauzione a cui avrebbero contribuito un migliaio di fedeli. Figura molto discussa per il lusso esibito nella sua vita personale, ha visto schierarsi a sua difesa il patriarca Cirillo e il patriarca della Chiesa serba, Porfirio. Stessa difesa per il vescovo Gionata di Tulcin, condannato il 7 agosto a cinque anni di carcere.
A favore della Chiesa non autocefala è la notizia che le proposte di legge finalizzate a dichiarare la sua illegalità non sono entrate in discussione in parlamento. A suo sfavore è, invece, la decisione del governo che anticipa il Natale al 25 dicembre (secondo il calendario gregoriano-corretto delle Chiese elleniche) invece che il 6 di gennaio (calendario giuliano difeso dalle Chiese slave) e la decisione del tribunale amministrativo di Kiev che considera legittima la rescissione del contratto tra la fondazione della Lavra e la Chiesa di Onufrio.
I segni maggiori di inquietudine della Chiesa di Onufrio sono la polemica al calor bianco del vescovo di Odessa contro Cirillo, dopo che un missile ha gravemente danneggiato il tempio maggiore della città, e la richiesta di 430 preti, indirizzata al metropolita, per una chiarifica definitiva rispetto al taglio delle relazioni con Mosca.
Le «benedizioni» blasfeme di Cirillo
Il 23 luglio i missili russi colpiscono Odessa e distruggono la cattedrale, ricostruita e consacrata da Cirillo nel 2010.
Davanti al disastro, il vescovo Victor d’Artsyz scrive al patriarca di Mosca: «Continuamente nei tuoi sermoni parli dell’unità della santa Rus’ che stai distruggendo radicalmente con le tue benedizioni e i tuoi atti. Ti domando di prestare attenzione al fatto che è precisamente con la tua benedizione personale che l’esercito russo compie atrocità nella guerra sul territorio di uno stato indipendente. A mio avviso tu hai dimenticato che in Russia come in Ucraina ci sono (c’erano) tuoi fedeli, che consideri tali. E tu hai benedetto coloro che oggi li uccidono. Nell’ultima conferenza dei vescovi a Mosca non hai detto una sola parola per arrestare questa guerra caina, per interrompere i massacri e le distruzioni di città e villaggi». «Quando ho visto che il missile da te benedetto ha distrutto la parte più sacra del tempio, ho capito che la Chiesa ortodossa ucraina (di Onufrio) non ha più niente in comune con te. A causa delle tue ambizioni personali hai perduto la Chiesa ucraina e altre Chiese della santa Rus’».
Per la prima volta Cirillo si degna di rispondere agli appelli dei suoi (ex) fedeli ucraini con una lettera del 1° agosto. Considera brusco e irrispettoso il tono del testo che gli è arrivato, ma addebita il tutto allo scompenso emotivo del momento. Afferma «l’immenso dolore e la profonda afflizione» per il popolo credente, ma ritiene ingiuste e infondate le accuse ricevute. Ricorda i suoi sforzi per alleviare i disagi di una guerra che è cominciata nel 2014 (secondo la vulgata putiniana) e conferma l’unione spirituale con le Chiese che non hanno adorato la Bestia (Ap 20,4), mantenendo fedeltà alla tradizione, ai canoni e al giuramento episcopale. Conferma il sostegno alla Chiesa di Onufrio e si trincera dietro le attuali situazioni per non rischiare con dichiarazioni pubbliche imprudenti.
I preti protestano
Dopo il disastro di Odessa, alcune centinaia di preti scrivono al metropolita Onufrio per chiedere una rottura definitiva con la Chiesa russa di Cirillo: «Non vogliamo soffrire per la Russia, Putin o Cirillo. La maggioranza di noi ritiene di essere perseguitata da loro e non da presunti attacchi di altri alla fede in Cristo». «Lei sa bene che, nonostante le decisioni prese nel concilio (maggio 2022), tutti quelli che lo desiderano continuano a commemorare nella liturgia il patriarca Cirillo, che alcuni gerarchi della nostra Chiesa hanno fatto dichiarazioni inequivocabili sull’unità con la Chiesa di Russia e il nostro clero, in generale, non si è segnalato per scelte chiare. Conseguentemente non resta che affermare l’inesistenza di una vera rottura con Mosca». Non si tratta di misconoscere le violenze amministrative e giudiziarie contro la nostra Chiesa, ma di dare una risposta chiara a noi stessi circa il nostro futuro. «La invitiamo a una immediata convocazione di un concilio in cui sancire una rottura reale e non effimera con la Chiesa ortodossa russa».
I preti ricordano che la Chiesa «non ha ancora emesso un verdetto sull’apostasia di alcuni vescovi e sacerdoti». Chiedono un dialogo con le altre Chiese e confessioni e un «ritorno all’unità di preghiera con il patriarca ecumenico e con le Chiese che hanno riconosciuto la Chiesa autocefala».
Onufrio non ha apprezzato. Non ha voluto incontrare i rappresentanti dei firmatari, delegando a questo un suo collaboratore. La risposta è arrivata dal cancelliere, il vescovo Antonio: simili interventi danneggiano la Chiesa e favoriscono il perseguito annullamento della stessa. Non si può aprire un dialogo con Chiese che non hanno la successione apostolica e canonica (Epifanio).
Il 28 luglio prende parola il metropolita Onufrio in un breve discorso in cui conferma la sua posizione attendista. Ricorda la sua netta condanna dell’aggressione russa e la necessità del consenso dell’intera società ucraina nella resistenza all’invasore (cf. qui su SettimanaNews). Non ha senso indicare la Chiesa non autocefala come una Chiesa nemica e indicare i suoi preti come sacerdoti di Mosca sospettandoli di collaborazionismi non dimostrabili. Quanto alle diocesi sotto occupazione, si limita a dire che non ci sono comunicazioni e invita alla preghiera.
La Chiesa di Epifanio
La vicenda recente della Chiesa ortodossa autocefala è stata raccontata in una lunga intervista del metropolita Epifanio a Orthodox Times (22 e 27 giugno). Secondo lui, l’invasione dell’Ucraina è stata preparata dell’ideologia del Russky Mir del patriarcato di Mosca che alimenta dall’inizio la delegittimazione del tomo dell’autocefalia ucraina da parte di Bartolomeo di Costantinopoli.
Cosa direbbe a Cirillo? «Gli direi che deve temere Dio e non Putin. Dio è eterno mentre Putin morirà come tutti i tiranni e gli assassini. Gli direi che, come patriarca della Chiesa ortodossa russa, porta la responsabilità di avere le mani piene di sangue di decine di migliaia di ucraini, vittime delle sue “benedizioni”».
Sintetizza i doveri della sua Chiesa autocefala nella preghiera, nella testimonianza alla verità, negli aiuti umanitari alla popolazione, nel fornire assistenza spirituale alle forze armate ucraine e nella critica culturale e teologica all’ideologia del Russky Mir (mondo russo).
Le decisioni più importanti avviate dalla sua Chiesa sono state l’uso della lingua ucraina nel culto (rispetto allo slavone della tradizione russa), l’affermazione dello status autocefalo della Chiesa e la sua autonomia e la modifica del calendario che è passato da quello giuliano (russo) a quello gregoriano-bizantino.
L’elemento più vistoso è lo spostamento della data del Natale dal 6 gennaio al 25 dicembre, poi garantita dalla legge dello stato. Oltre, naturalmente alla pastorale parrocchiale, territoriale e monastica in cui si impegnano 5.300 chierici, 8.500 comunità parrocchiali, 45 diocesi, 80 monasteri maschili e femminili, 1.200 studenti teologi. Si dichiara disponibile al dialogo con la Chiesa di Onufrio senza condizioni previe. Condizioni che invece la Chiesa non autocefala ha specificato più volte: riconoscere che il clero e i vescovi autocefali non hanno una valida ordinazione, che il tomo dell’autocefalia non è accettabile senza l’approvazione di Mosca, che il passaggio delle comunità parrocchiali dalla Chiesa di Onufrio a quella di Epifanio sia annullato. Pretese considerate inaccettabili.
Il concilio (vescovi e preti) della sua Chiesa ha chiesto a Bartolomeo di deporre Cirillo dal ruolo di patriarca attraverso un’assemblea dei patriarchi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme a causa del suo sostegno alla guerra e dell’eresia espressa nel Russky Mir (mondo russo). Riconosce l’anziano Filarete (all’origine dello scisma da Mosca) come vescovo e chiede la regolamentazione dei tre vescovi da lui ordinati. Considera opportuno chiedere per Kiev il patriarcato. A guerra finita, il problema sarà quello della ricostruzione morale del paese: «Si tratterà del rinnovo dell’unità sociale interna, della riabilitazione dei soldati tornati dal fronte, del sostegno a coloro che hanno sofferto le violenze della guerra. Ci sarà molto lavoro da fare per gli anni a venire».
La Chiesa greco-cattolica
«Trovare Dio nella notte della nostra stessa paura, sentire la sua presenza quando forse meno di tutto pensiamo a lui, è la chiave della fortezza, la chiave della capacità di una persona di camminare con Cristo sulle acque dell’abisso del nostro mare della vita, che è pieno degli orrori della guerra, del dolore e della morte. Cristo ci chiama a sé, alla sua pace, perché solo lui è la chiave della nostra pace, forza e vittoria».
Le parole pronunciate dall’arcivescovo maggiore degli ucraini, Sviatoslav Shevchuk, il 6 agosto 2023 sottolineano la dimensione di consolazione, accompagnamento e sostegno che la Chiesa greco-cattolica ha privilegiato nei mesi della guerra. Forte della memoria del martirio dei decenni comunisti, unica Chiesa a essere totalmente cancellata dallo spazio pubblico e quindi indenne da ogni forma di compromesso, e unica compagine religiosa ad aver sostenuto senza incertezze le «rivoluzioni colorate» che hanno scandito la progressiva consapevolezza democratica e nazionale della popolazione, sta ora spendendo una credibilità difficile da mantenere.
Sollecitata, come le altre Chiese, da una piegatura nazionalista, ha alimentato un buon rapporto con la Chiesa autocefala di Epifanio e una relazione pragmatica con le comunità di Onufrio.
Nel caso dell’«occupazione» della lavra ha chiesto per sé solo un possibile utilizzo occasionale delle chiese superiori e davanti alle pressioni amministrative verso la Chiesa non autocefala ha valutato l’opportunità di non creare dei martiri, ma ha anche sottolineato la scarsa credibilità del clero di Onufrio che denuncia persecuzioni là dove si tratta spesso di scarsa abitudine a obbedire alle leggi. Non partecipa al discusso passaggio delle parrocchie ortodosse da una obbedienza all’altra.
Tutto ciò non le ha evitato l’aspro rimprovero di Cirillo di Mosca, in occasione dell’assemblea episcopale del 19 luglio 2023, di essere corresponsabile dei numerosi «sequestri illegali» delle chiese, di connotarsi in senso nazionalistico e di essere complice delle vessazioni amministrative nei confronti della Chiesa non autocefala.
La fatica maggiore e l’impegno più creativo di mons. Shevchuk, espressamente anti-russo, sono stati quelli di rendere digeribili, all’interno, gli inviti alla pace di Francesco in un contesto di forte scontro di “civiltà” (Oriente slavo contro Occidente) e, all’esterno, di evitare la simmetria fra aggressore e aggredito.
Rimane una certa difficoltà a capire l’ottica internazionale e pacifica di Roma relativamente a segnali minori (come le due signore, russa e ucraina, in occasione della via crucis del venerdì santo) o maggiori (come la continuità di rapporti con figure istituzionali del patriarcato come Hilarion o, il successore Antonio, nel ruolo di responsabili del servizio estero di Mosca; oppure davanti all’iniziativa di pace in capo al card. M. Zuppi).
Un elemento di interesse è l’azione intrapresa con la Chiesa cattolica polacca in ordine alla pacificazione della memoria (qui), ai massacri di 100.000 polacchi e 15.000 ucraini negli anni della guerra (1943-1944). Un fondiglio ulceroso mai adeguatamente affrontato.
Un colpo d’ala
L’opera di pacificazione delle memorie potrebbe innestare un colpo d’ala per ora assai poco prevedibile, una capacità di visione che trasformi il luogo dove si è prodotto la scisma inter-ortodosso, la crisi dell’ecumenismo e il fallimento della profezia cristiana della pace, nel punto di ripartenza della credibilità cristiana. Un luogo dove ortodossi e cattolici, con il consenso di Costantinopoli e Roma, si riconoscono in un unico patriarcato con una doppia obbedienza giuridica.
Verso l’unificazione delle Chiese ortodosse ucraine va il documento elaborato dal CEMES, un centro ecclesiastico di studi di Salonicco. In un testo, pubblicato il 12 aprile 2022, si ipotizza o una doppia giurisdizione (Mosca e Costantinopoli) con strumenti di rappresentanza binaria come già succede nella diaspora in Occidente o avviando una struttura sinodale comune provvisoria che anticipi l’unificazione possibile.
La proposta più creativa viene dalla recente tradizione della Chiesa greco-cattolica, quella cioè di un unico patriarcato in cui confluiscono tutte le Chiese ortodosse locali e la Chiesa greco-cattolica. L’unico patriarca dovrebbe essere in comunione con Roma, prendendo distanza dall’esercizio monarchico del primato petrino, e permettere alle Chiese ortodosse di mantenere i reciproci riferimenti spirituali.
Una sorta di anticipo dell’unità delle Chiese in un contesto dove le differenze non sono teologiche, ma storiche e culturali. Come mi diceva il card. Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore degli ucraini, nel 2008: «Il nostro auspicio, desiderio e sforzo è di favorire il ritorno all’unità primigenia (della Chiesa a Kiev). Questo richiede anzitutto un unico capo, un unico patriarca, come sempre per le Chiese orientali. Un capo significherebbe l’unità e noi, come greco-cattolici, vorremmo che tale patriarca fosse in comunione piena con il successore di Pietro».