È utopia pensare di riformare la Chiesa ampliando le sue strutture e le sue iniziative, prescindendo dalla formazione spirituale delle persone.
La Chiesa esiste al fine di svolgere la sua missione, quella cioè di essere segno e strumento nel mondo dell’azione cristologica della salvezza, che alimenta l’intima unione dell’umanità con il Dio trinitario e al proprio interno (cf. LG 1). Per questa ragione, per riflettere adeguatamente e fruttuosamente sulla riforma ecclesiale occorre chiedersi anzitutto che cosa sia l’esperienza cristiana che le comunità sono chiamate a proporre e a servire.
Potrà sembrare scontato che, nell’ambito ecclesiale, vi sia una fondamentale unità di vedute sul senso del cristianesimo, ma purtroppo non è così. Al di là delle eresie vere e proprie, cioè di quei modi di dire la fede che sono gravemente difformi dalla Tradizione apostolica, vi sono altri fraintendimenti molto più elementari che rischiano di far perdere di vista le caratteristiche dell’esperienza cristiana, e quindi di impedire anche un’autentica riforma della comunità ecclesiale.
Confondere i mezzi con il fine
Una delle distorsioni più pericolose del cristianesimo è quella indicata da Y. Congar con queste parole: «Tertulliano diceva fieramente che cristiani non si nasce, si diventa. Tuttavia, dal giorno in cui si nacque cristiani e i fedeli formarono un gruppo numeroso di uomini per i quali non si era posta alcuna questione di scelte o di conversione, sorse il rischio di dare per contenuto reale al cristianesimo non tanto il senso profondo, quanto i suoi gesti, i suoi obblighi esteriori, i suoi riti, la materialità della sua realtà sociale. È utile osservare che la messa in opera dei mezzi ha qualche cosa di seducente e talvolta d’interessante e d’affascinante. In un certo senso, essa finisce per riempire la vita». (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 126-127).
Con queste parole il teologo domenicano ci mette in guardia da quello che potremmo definire un cristianesimo senza conversione, che è una delle derive più pericolose dell’esperienza cristiana e quindi della riforma della Chiesa. Quando ci si trova in questa situazione, non si aderisce veramente nell’amore a Gesù Cristo e al Padre nella forza dello Spirito, con tutto ciò che questa scelta comporta, ma si riempie la propria vita di una serie di attività, di riti, di modi di dire e di fare con i quali ci si illude di essere cristiani anche se in realtà non si è scelto di avere fede.
Cristiani senza fede
Per fare un’analogia con la vita familiare, questo stile è simile a quello di un coniuge che fa tante cose per il proprio partner – regali, bei discorsi, gentilezze ecc. – ma, in fondo, non lo ama affatto. Oltre quei gesti esteriori non c’è nulla. Così il cristianesimo senza conversione assume come un fine quei mezzi di cui ci si dovrebbe semplicemente servire per vivere una relazione filiale con Dio in Cristo, cioè quelli che Congar chiama i gesti, gli obblighi esteriori, i riti e la vita sociale. E poiché questi mezzi divenuti fini possono riempire la vita, danno la sensazione di vivere in pienezza l’esistenza cristiana.
In realtà, si può stare quasi permanentemente in parrocchia o un un’associazione ecclesiale, partecipare assiduamente ai momenti rituali, fare tantissimo volontariato o difendere pubblicamente i principi dell’etica cattolica senza aver fatto una scelta di fede e aver preso sul serio il cammino della conversione cristiana in tutta la sua drammaticità.
È evidente che pensare alla riforma della Chiesa in questo contesto significherebbe andare fuori strada. Questa riforma verrebbe ridotta all’aumentare sempre più i mezzi di cui parla Congar in modo che possano riempire ancora di più la vita dei cristiani senza fede. Così la comunità si arricchirebbe di ulteriori e improbabili iniziative e servizi, proposti però come realtà che hanno in loro stesse la capacità di dare un senso di appagamento e di soddisfazione, e non come mezzi per vivere la propria dedizione a Dio in Cristo.
Eppure si ha l’impressione che talvolta la prassi pastorale delle nostre comunità vada proprio in tale direzione, quando è più orientata alla promozione indiscriminata di questi mezzi che a favorire la libera scelta di fede delle persone e la maturazione della loro vita spirituale.
Un’esperienza cristiana a basso prezzo
Consideriamo, ad esempio, il problema pastorale delle pratiche della pietà popolare, come novene, tridui, processioni ecc. Anche se, in passato, sono state strumenti preziosi per favorire la preghiera dei credenti, ci si può chiedere se oggi lo siano allo stesso modo. Ora, un conto è valutare l’utilità di questi mezzi in rapporto alla loro capacità di promuovere la preghiera comunitaria, altro è vederle come pratiche tradizionali di cui è sempre bene riempire la vita delle persone perché così restano cattoliche. In realtà, partecipare ad iniziative del genere senza la minima disponibilità a pregare non serve proprio a nulla, anzi è dannoso perché può illudere di essere ancora cristiani quando forse non lo si è più.
Una delle ragioni per cui questo approccio pastorale che scambia i mezzi con i fini è tuttora un’opzione è data dal fatto che ancora oggi una parte del mondo ecclesiale vede in termini drammatici il calo del numero dei cattolici in quanto questo comporta per la Chiesa una perdita di autorità nella società civile. Così, anziché dedicarsi all’evangelizzazione di chi non ha fede, si rischia di proporre una specie di esperienza cristiana a basso prezzo, nella quale si fanno tante cose buone – gesti esteriori, riti, battaglie contro il nemico di turno ecc. – ma in cui non c’è una conversione profonda al Signore.
Riformare la Chiesa alla luce di questo orientamento vorrebbe dire cercare di ampliare le sue strutture e le sue iniziative prescindendo dalla formazione spirituale delle persone. Questo, però, avrebbe un impatto fortemente distruttivo. La comunità ecclesiale, infatti, non cresce nella misura in cui si fanno degli sconti per aumentare in qualunque modo il numero dei sedicenti cattolici e darsi l’impressione di essere ancora forti, ma quando si propone a tutti la fede in Cristo come scelta libera e si aiutano le persone che l’hanno accolta a viverla in modo sempre più pieno.
“Consideriamo, ad esempio, il problema pastorale delle pratiche della pietà popolare, come novene, tridui, processioni ecc. Anche se, in passato, sono state strumenti preziosi per favorire la preghiera dei credenti, ci si può chiedere se oggi lo siano allo stesso modo. Ora, un conto è valutare l’utilità di questi mezzi in rapporto alla loro capacità di promuovere la preghiera comunitaria, altro è vederle come pratiche tradizionali di cui è sempre bene riempire la vita delle persone perché così restano cattoliche. In realtà, partecipare ad iniziative del genere senza la minima disponibilità a pregare non serve proprio a nulla, anzi è dannoso perché può illudere di essere ancora cristiani quando forse non lo si è più.”
Dove vede l’autore questo pullulare di Novene, Tridui, ecc? Se pure la Messa domenicale è partecipata solo da una sparuta minoranza?
l’autore vive ancora negli anni ’60, quando queste devozioni erano cose erano frequenti
per il resto tutti questi riti erano i più diretti successori della preghiera comune della Chiesa Antica (tesi di Taft) e la loro sparizione ha solo creato un vuoto che è difficile da riempire, vista anche la difficoltà nel promuovere l’ufficio divino
Ma se anche il Papa oggi ammette che la cristianità è ufficialmente finita dove le vedete tutte queste novene tridui e processioni?
È una polemica spuntata da almeno 50 anni.
Concordo con lei Angela
Tutto molto giusto.
Non si comprende però quale sia l’alternativa alle pratiche devozionali tradizionali.
Insomma poniamo per ipotesi l’abolizione di processioni, tridui, novene e per assurdo della Messa stessa.
Cosa rimarrebbe?
Come si potrebbe misurare la fede?
Torna però utile ricordarsi in questi casi di Giacomo e della sua lettera.