Il professore emerito di diritto canonico Winfried Aymans ha scritto recentemente, in una lettera inviata al direttore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che “un tempo tali questioni – intendeva la disputa legata alla pubblicazione dei rapporti sugli abusi nella diocesi di Colonia – si sarebbero combattute in camera caritatis, oggi invece si combattono davanti alla telecamera dei media”.
Non ha mancato di aggiungere che questa è stata anche la conseguenza del Cammino sinodale. Si tratta di due schiaffi in faccia: uno per il nuovo e più aperto stile dei vescovi tedeschi; e uno per il Cammino sinodale.
Aymans sta probabilmente piangendo ancora la disciplina dell’arcano dei tempi passati; quando si tratta, invece, della parresia, della parola aperta, un desiderio fondamentale anche di papa Francesco. Una cultura del dibattito aperto è d’obbligo, anche all’interno della Chiesa.
La fede come scelta personale
Ci sono delle buone ragioni per questo. La trasmissione della fede oggi non avviene più per procreazione, ma per convinzione. I tempi della pressione del milieu circostante e del controllo sociale in materia di fede sono finiti; è diventato quindi più faticoso giustificare il perché si appartiene ancora alla Chiesa anziché scegliere di abbandonarla.
Gli effetti si sentono anche nei sistemi familiari: nonostante una comune biografia d’origine, i figli prendono strade molto diverse. Alcuni se ne vanno, altri vivono con distanza, pochi trovano una casa nella Chiesa. Le proprie esperienze sono decisive per queste decisioni.
Per la maggior parte delle persone non è più l’argomento del potere che conta, come una volta, ma la forza degli argomenti. In una società di opzioni, la Chiesa deve essere in grado di argomentare in modo tale poter essere scelta come riferimento.
Non per ragioni di spirito del tempo, ma per ragioni di rilevanza. Il mero riferimento alla tradizione non è sufficiente. C’è anche un comodo tradizionalismo: pigro nel pensiero, ma basato sul potere.
La Chiesa e i media
Il tutto diventa ancora più complesso in una società mediatica: la maggior parte delle persone non ha più una percezione della Chiesa attraverso le proprie esperienze fondamentali, ma attraverso le esperienze filtrate dei media. La critica dei media è poco complessa: si tratta piuttosto di formare la propria opinione in un mondo plasmato dai media, senza soccombere al conformismo o all’accusatoria a buon mercato.
La società dei media – è vero – garantisce un bonus ai dissidenti: se i dissidenti erano eretici in passato, oggi sanno di essere delle star agli occhi del pubblico. Ma la discretio spirituum vale anche per i dissidenti: da quale atteggiamento parlano? Anche nel caso del vescovo di Anversa Johann Bonny, che si vergogna del giudizio della Congregazione per la dottrina della fede sulla benedizione delle coppie omosessuali.
In questo caso, Bonny parla non solo come vescovo locale, ma anche come partecipante al Sinodo sulla famiglia, e giunge alla conclusione che i pronunciamenti attuali di Roma non rendono giustizia al lavoro di questa assemblea. Non tutte le critiche a Roma sono antiromane!
Il sapere e la parola
La Chiesa oggi non deve più argomentare esclusivamente in maniera giuridica, deve farlo piuttosto epistemicamente. Questo modo è più appropriato per una società del sapere. Nel XIX secolo la Chiesa, definendo la dottrina dell’infallibilità papale, ha sottolineato l’obbedienza fino al giuramento modernista dei suoi ministri.
In tal modo ha distrutto la natura metaforica del suo stesso linguaggio di fede. Ma la fede è più che la somma delle verità di fede (fides quae), la fede è un radicamento esistenziale in qualcosa di più grande di me (fides qua).
Il compito della Chiesa nella modernità radicalizzata è la realizzazione credibile della sua identità originante nella vita, morte e risurrezione di Gesù; una fede con cui si può vivere, con cui e per cui si può anche morire.
La definizione di illuminismo come uscita dall’immaturità autoimposta (Kant) deve essere oggi riscritta autocriticamente dalla Chiesa: come l’uscita dall’immaturità inflitta ecclesiasticamente, per cui vale la pena di fare ogni sforzo. Se il magistero non si avvale del sapere della teologia, rimane disinformata per sua stessa colpa. Contro questo, si chiede di protestare – come nella Dichiarazione di Colonia del 1989 o nella recente dichiarazione di 278 professori di teologia – contro il responsum di Roma sulla proibizione della benedizione delle coppie omosessuali.
I tempi in cui vi era un dibattito pubblico ecclesiale
Quello che la maggior parte della gente non ricorda è che ai tempi del Concilio di Nicea (di cui celebreremo presto il 1700° anniversario) ci fu una disputa sulla somiglianza o sull’essere immagine di Dio di Gesù (homoi-ousios o homo-ousios – la famosa disputa sullo iota), e su di essa si discuteva addirittura dal parrucchiere o a casa intorno alla mensa in famiglia. È così che dovremmo tornare a discutere: coinvolti esistenzialmente e informati intellettualmente.
Alcuni ministri sognano ancora un magistero papale solitario e siderale, ma ben strumentalizzato da loro. Invece, si tratta di tutti i carismi che lavorano insieme. Solo questo può essere un dogma traducibile in forma di preghiera. Alla fine, gli atti magisteriali riguardano la prospettiva della salvezza: nel rifiuto dell’ordinazione delle donne la salvezza non è aperta ma chiusa.
Solo le affermazioni positive di salvezza, a cui si può dare un affidamento incondizionato, possono essere presentate con la pretesa dell’infallibilità. Coloro che richiedono pareri o risposte magisteriali da Roma, per dare alla propria posizione una pretesa di infallibilità, non solo alla lunga distruggono il ruolo della Santa Sede, ma anche la realtà di salvezza della fede.