Il giorno del dodicesimo anniversario della elezione di Jorge Mario Bergoglio a papa (13 marzo 2013) merita una piccola riflessione sul valore “teologico” del suo modo di interpretare e di vivere il papato, in questi 12 anni. Lo faccio con una breve rassegna di 4 temi che meritano una considerazione non solo “curiosa”, ma “pensante”.
Il primo papa figlio del Concilio
Questo primo aspetto porta in primo piano il lavoro che le generazioni, nel loro succedersi, portano a realizzazione, nella invisibilità. Dopo 4 papi “padri del Concilio” (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), il primo papa che non è stato al Concilio, come vescovo o come esperto, implica una relazione “non autobiografica” con il Vaticano II.
C’è in Francesco l’inizio di una vera “tradizione conciliare”, che non era stata possibile per coloro che del Concilio erano stati “autori”. L’“intenzione dell’autore”, con Francesco, si identifica con il lavoro ermeneutico del “figlio”.
Se i “padri” sono sempre un po’ apprensivi e preoccupati per i loro figli “dottrinali”, un figlio è necessariamente più libero e più sereno. Di questo la storia è capace, nel passare delle generazioni. In questo modo introduce, dei testi e degli eventi conciliari, una lettura autorevole, proposta non più dai padri, ma dai figli.
Il primo papa che non risiede nel Palazzo Apostolico
Uno dei primi gesti simbolici di papa Francesco è stato quello di “non abitare” nel luogo del suo Ufficio. Così iniziava una ridefinizione, certo faticosa e lenta, della figura stessa del “Vescovo di Roma”, a partire dall’“uscita” dal Palazzo Apostolico.
Non si può dimenticare che, poco prima della sua elezione, nel suo ultimo discorso nella Congregazione dei cardinali, il card. Bergoglio avesse evocato la curiosa immagine di un Signore che “bussa alla porta”, ma non per entrare, bensì per uscire. Una “Chiesa in uscita” non è solo uno slogan efficace, ma un modo di ricomprendere anche la funzione del papato, a partire dallo sfrondamento delle forme del “risiedere”.
Senza aver molto puntato sulla “riforma istituzionale”, in questi dodici anni Francesco ha proposto piuttosto una “riforma simbolica” che merita attenzione.
Il primo papa americano
Con Francesco abbiamo potuto vedere in quale misura la “cultura americana” sia diversa dalla cultura europea. Il fatto che la Chiesa cattolica abbia fatto esperienza, a partire dal Concilio Vaticano II, di essere una Chiesa “su cinque continenti” ha di molto acuito la sensibilità verso una necessaria inculturazione della fede, del culto, della forma giuridica e delle forme di vita ecclesiali.
Per quanto si tratti di un fenomeno lento e graduale, un’accelerazione sorprendente abbiamo constatato per il semplice fatto che un papa interpreta il proprio ministero attraverso una cultura diversa da quella europea.
Questo è un evento teologico di prima grandezza, anche se cerchiamo di nasconderlo con le facili “riduzioni” di Francesco ad un “italiano con uno strano accento”, e comunque di origine piemontese. In realtà la sua comprensione del mondo e della tradizione è segnata da una terra che dista da Roma 10.000 km e nella quale le stagioni sono capovolte. Questo è un dato che innova profondamente la tradizione del papato.
Il primo papa gesuita
Un ultimo aspetto di novità è costituito dalla natura “religiosa” del cardinale Bergoglio, primo gesuita a diventare papa. Questo fatto ha portato al suo ministero un tratto di novità legato al modo di pensare, di pregare, di esercitare la misericordia, di celebrare e di amministrare tipico della tradizione ignaziana.
Molto interessante è scoprire come, teologicamente, il primato della misericordia, che è sicuramente un tratto qualificante il suo pontificato, sia stato mediato da una linea di interpretazione della misericordia (in campo sacramentale ed extrasacramentale) che è facilmente riconducibile alla “casuistica” gesuita, di cui troviamo tracce nel modo di impostare le questioni intorno al sacramento della penitenza o al sacramento del matrimonio.
Questo non ha impedito a Francesco di scrivere una lettera apostolica per celebrare Blaise Pascal, nel IV centenario dalla nascita (Sublimitas et miseria hominis).
Questi quattro punti, in relazione tra loro, permettono di giudicare questi dodici anni di pontificato come un evento che può essere molto interessante studiare sul piano squisitamente teologico.
- Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.
Stranamente mi trovo a concordare su quasi tutto con Grillo che, come è noto, ha un debole per questo Papa ma non per gli uomini che il Papa ha messo a capo di alcuni Dicasteri. Detto altrimenti… se questo Papa – a rigor di logica – è tanto bravo, tanto innovativo, come mai, secondo Grillo, non sono così coloro che dal Papa sono stati nominati? Questo non significa che non ci siano criticità che debbano essere messe in luce (cfr. https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2023/03/francesco-10-anni-di-pontificato.html), ma tanta clemenza dovrebbe essere usata tanto verso l’uno (il Papa) quanto verso gli altri ( i SUOI collaboratori). Ovviamente a rigor di logica. La cosa che non condivido di Grillo è che Francesco è un gesuita “sui generis”. Credo sia nota la battuta – chissà se è realtà??? – su cosa pensi realmente un gesuita.
Non possiamo nemmeno dimenticare la recezione del magistero papale da parte di frange sempre più ampie del popolo di Dio: un rifiuto mai prima avvertito all’interno della Chiesa e, di contro, un apprezzamento inatteso da parte delle forze progressiste sia all’interno che fuori della compagine ecclesiale. Il pontificato bergogliano potrebbe essere paragonato alla riapparizione di Trump sulla scena politica?