Il rito delle celebrazioni ufficiali si ripete ogni anno, il 25 aprile, con il ricordo della lotta di liberazione e dell’eroismo dei partigiani. Giusto e doveroso. Ma non sempre la ripetizione del tema riesce a coinvolgere le generazioni venute alla luce negli anni del disincanto politico e della liquefazione degli ideali. È la ragione per cui, consapevole di tale deficit, ogni volta che mi accade di parlare nelle scuole, cerco di mettere in luce la differenza tra il “prima” (il regime fascista) e il “dopo” (la democrazia) per rendere l’idea del passaggio dal buio della dittatura alla luce della libertà.
Per questo mi ha fatto piacere quest’anno l’invito dell’ANPI, l’associazione dei partigiani, a scrivere, in occasione del 25 aprile, sul significato della conquista della libertà, intesa nella sua accezione plenaria, cioè come complesso di diritti e doveri così come sono descritti nella Costituzione.
Così mi è venuto spontaneo di evocare il mio primo impatto con il concetto della libertà nella sua completezza ricordando che, per me, esso avvenne attraverso… una moneta: quella che usavano i soldati alleati in Italia. Si chiamavano am-lire, acronimo per allied military currency; e su ogni biglietto si poteva leggere l’enunciazione delle “quattro libertà” in nome delle quali combattevano.
Lo stupore della scoperta
Per quelli della mia generazione, allattati alla scuola fascista del “libro e moschetto” e del “credere, obbedire, combattere”, fu una sorpresa trovare su ognuna di quelle banconote un annuncio così impegnativo: “libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura”. Era – ma nessuno di noi lo sapeva – il nucleo della “visione” del presidente Roosevelt, ripreso nella Carta Atlantica del 1941; e su di esso si sarebbe poi modellata l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Sarebbe bello poter trasmettere ai giovani d’oggi la percezione che allora avemmo di entrare in un mondo nuovo. Era come un cambio dei punti d’orientamento, uno spartiacque, appunto, tra il prima che si era consumato e il poi che si intuiva mentre i nazifascisti venivano debellati. Pareva infatti incredibile che si potessero proclamare la libertà di parola e di espressione là dove il canone era stato quello del “Mussolini ha sempre ragione”.
Così correvamo ai primi comizi per comprendere il significato di quell’espressione: perché erano tante le voci che esprimevano opinioni e proposte e chiedevano proprio a te di scegliere, anzi di decidere, ciò che preferivi. Stavi esplorando una terra sconosciuta.
Soprattutto per la mediazione della Democrazia Cristiana le realtà popolari cattoliche familiarizzarono rapidamente con il nuovo contesto. Ma non ci fu una egualmente veloce elaborazione culturale che permettesse di archiviare la vecchia icona del suddito obbediente per lasciare spazio a quella del cittadino sovrano.
La contrapposizione ideologica che raggiunse il suo culmine nel 1948 introdusse ulteriori ritardi anche nell’attuazione della Costituzione.
In particolare, pareva meno comprensibile la proclamazione della libertà religiosa. Specie nei nostri paesi la consistenza “cattolica” delle comunità non presentava crepe. Ti incuriosivi, al più, quando ascoltavi un cappellano americano rivolgersi ai soldati dicendo: «Ed ora ognuno preghi il suo Dio». E ti meravigliavi quando vedevi interi reparti di marocchini prostrati in adorazione col viso rivolto alla Mecca.
Il contatto con altre fedi religiose e altre forme di culto, che pur avvenne empiricamente, fu tuttavia la rivelazione di un mondo, un’umanità, più vasta e plurale di quanto alla nostra pigra “autarchia religiosa” era stato dato di immaginare.
Né un carattere lineare ebbero gli svolgimenti seguiti all’inclusione della libertà religiosa nella Costituzione e ai processi del post-concilio fino al nuovo Concordato del 1984.
Qui non si possono negare i progressi compiuti, con riguardo al versante cattolico nel segno dell’affermazione della laicità dello stato e dell’autonoma responsabilità della politica.
Viceversa, il cammino delle “intese” con le altre confessioni rappresentate in Italia, per quanto facilitato dalla possibilità di accedere alla ripartizione dell’“otto per mille”, non ha registrato progressi con l’area dell’islam, che pure vanta oggi la presenza più estesa e crescente nella realtà italiana.
Il bisogno e la paura
La “libertà dal bisogno” conobbe invece da subito una grande popolarità: il peso delle distruzioni e delle privazioni imponeva un confronto serio con la miseria e la povertà, già largamente diffuse specie nel Mezzogiorno. Pareva che ne potesse derivare un orientamento politico forte in direzione di quella che veniva chiamata la “democrazia sostanziale”.
E i primi impulsi delle forze in campo andavano in tale direzione, anche se gradualmente subirono un raffreddamento le idee di un governo sociale dell’economia. Tanto che oggi sembra non ortodosso parlare di programmazione o – per citare Giorgio La Pira – di «un governo con un solo obiettivo», il lavoro. E ciò per il semplice motivo che il lavoro è ormai considerato – a dispetto del primo articolo della Costituzione – solo una variabile dipendente delle convenienze del mercato.
Quanto alla “libertà dalla paura”, è difficile parlarne dopo che una buona metà del secolo XX è stata impiegata in una “guerra fredda” basata sull’“equilibrio del terrore tra Est e Ovest” che non ha – come si sostiene – garantito la pace ma ha almeno scongiurato un secondo sterminio nucleare.
Oggi, però, incombe la minaccia di un terrorismo diffuso, animato dal fanatismo religioso, che non presenta, al contrario di altri soggetti, un appiglio “istituzionale” con cui attuare un confronto politico. Così la paura, che costituiva l’indotto dei conflitti, ne è diventata essa stessa il soggetto e il protagonista.
È una situazione che interpella in modo speciale il versante religioso imponendo una valenza estensiva del tema: non solo libertà di ma anche libertà da. E dunque libertà dall’integralismo, cioè dalla pretesa di avere “Dio con noi”, e libertà dal fanatismo, che bestemmia il nome di Dio usandolo a copertura di crimini contro l’umanità.
Più in generale. il ricordo del modo in cui venimmo a contatto con quelle parole-chiave spinge più che mai oggi a riconsiderare che i principi che in quel remoto 1945 furono proclamati hanno un valore permanente, molto superiore a quello delle monete di allora, giustamente andate fuori corso.