Sarà perché il cognome del vincitore è anagramma perfetto del mio, sarà perché il Giro passava da Pàvana, paese del grande Francesco Guccini (e ci sono passato anch’io per andare a Sestola per l’arrivo della tappa del Giro), fatto sta che non posso non raccontare non tanto la corsa in sé, ma che cosa il ciclismo e in particolare il Giro d’Italia è per me. «Parabola della vita» scrissi un bel po’ di anni fa la prima volta che mi misi a scrivere di ciclismo su un giornale. Un’esperienza di umanità vera, di vittorie mai regalate ma conquistate sempre con fatica e sudore, di sconfitte da cui si impara a vivere più che dalle vittorie (e a volte il secondo è perdente quanto e più dell’ultimo), di lotta contro l’avversario senza però rinunciare a passargli una borraccia d’acqua (quel gesto tra Coppi e Bartali che per me resta la foto sportiva più bella di sempre), di crisi memorabili e di risurrezioni, di fughe improvvisate ma capaci di durare duecento chilometri, di polvere e di altare, «le discese ardite e le risalite»…
Quasi tutti gli anni una tappa del Giro d’Italia non me la perdo, anzi sono io che mi perdo tra la folla degli appassionati in cima a una salita o alle transenne di un arrivo in volata, con la Gazzetta che per un giorno sostituisce la Bibbia, panini e uova sode nello zaino, un cappellino per il sole e l’occorrente per la pioggia e per la gioia, la gioia di ritrovare amici di vecchia data e ricordare le imprese di “quelli sì che erano campioni”, incazzature per quel mostro chiamato doping che aleggia ancora (per sempre?) sul ciclismo come su quasi tutto lo sport attuale, poesia che, nonostante tutto, mi porta ad affermare – rubando i versi a Umberto Saba che pensava a un altro sport – che “pochi momenti come questi belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere”.
Momenti belli della tappa partita da Campi Bisenzio e arrivata a Sestola cavalcando su e giù per il gucciniano Appennino – e il cantautore c’era a veder passare la corsa – sono stati decisamente la vittoria in solitudine del ventunenne Giulio Ciccone, la generosità della maglia rosa Brambilla, il coraggio del redivivo Damiano Cunego, il servizio sulla Gazzetta del colombiano Esteban Chavez.
Andiamo per ordine: la vittoria di Ciccone è insieme il trionfo di un singolo e il risultato vincente di una squadra. L’iniziale vantaggio acquisito in discesa per uno sbandamento si è fatto invece incolmabile grazie a una pedalata sciolta e potente sulla non ripida ma costante salita verso l’arrivo. Ma la vittoria è stata il risultato di una precisa strategia di squadra: nel gruppetto in fuga fin dalle prima fasi della corsa erano tre gli uomini della Bardiani, formazione giovane e l’unica a gareggiare solo con atleti italiani.
Cunego non è più quello di un tempo, ma grazie una condotta di gara generosa – purtroppo sfortunata in discesa – è tornato a vestire la maglia azzurra, segno del primato come miglior scalatore. Provaci ancora, Damiano!
Gianluca Brambilla ha perso la maglia rosa, ma quando si è accorto di non poterla difendere si è prodigato perché restasse sulle spalle di un suo compagno di squadra, il lussemburghese Bob Jungels.
Infine, Esteban Chavez, leggerissimo atleta colombiano, attualmente decimo in classifica generale e uomo di punta della squadra australiana. Legge Gabrièl Garcia Marquez ed è forte (o forse fortissimo?) in salita grazie anche ai suoi 55 chili di peso. Crede in Dio anche se non va in chiesa e afferma di papa Francesco: «Per i giovani è bello averlo come punto di riferimento. Un papa rivoluzionario. La grande speranza del Sud-America e del mondo».
Mi unisco a una speranza che condivido in pieno.
Pubblicato su Altra Toscana il 18 maggio 2016.