«Vedere. Si potrebbe dire che, in questa parola, è racchiusa tutta la Vita. […]. Ecco perché la storia del Mondo vivente si riduce all’elaborazione di occhi sempre più perfetti in seno a un Cosmo in cui è possibile discernere sempre meglio».[1] Così iniziava Il fenomeno umano di Teilhard de Chardin, un elogio dell’occhio e una profezia sul futuro della vita intesa come capacità sempre più accurata di visione.
L’occhio che vede
È interessante che lo stesso termine greco Theòs (Dio) derivi dalla radice del verbo theàoma, vedere, e in effetti nell’immaginario delle diverse tradizioni religiose la divinità è spesso definita come l’essere che vede ogni cosa. Anche nell’iconografia cristiana Dio è ritratto spesso come un unico occhio che veglia sul cosmo.
Questo genere di immagini ha avuto fortuna anche nell’ambito politico e sociale, si pensi all’utopia del controllo evocata da Orwell in 1984 o al cosiddetto panopticon, una prigione progettata nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, in cui un’unica guardia avrebbe potuto controllare tutti i detenuti senza essere vista a sua volta.
Tra i molti progressi tecnologici lo sviluppo di sistemi ottici sempre più potenti è tra i più evidenti. Uno dei luoghi deputati al progresso delle tecnologie visive è certamente il cinema; e tra i cineasti che maggiormente hanno contribuito a fare di quest’ultimo un vero e proprio laboratorio di ricerca nel campo della strumentazione ottica e più in generale delle arti visive, troviamo indubbiamente James Cameron.
Effetti visivi
Ogni suo film, infatti, più che per l’originalità narrativa, ha sempre stupito per l’introduzione di nuovi effetti visivi o nuove tecniche di ripresa. Basta citare pellicole come Terminator, Aliens, Titanic e sopratutto Avatar, che nel 2009 fu il primo film a sfruttare in pieno le possibilità del 3D e ad oggi è la pellicola col massimo di incassi nella storia del cinema.
Sono più di dieci anni che il regista sta lavorando ai sequels di Avatar e mentre in molti aspettano con ansia le nuove pellicole, dal 14 febbraio è nei cinema Alita. L’angelo della battaglia: film fortemente voluto da Cameron, qui in veste di produttore esecutivo, che si è visto costretto ad affidare la regia a Robert Rodriguez a causa dei troppi impegni.
Alita è un fumetto (manga in giapponese) di Yukito Kishiro serializzato tra 1990 e il 1995 e diventato da allora un vero e proprio cult, ma anche uno dei tanti sogni nel cassetto di Cameron, che ne comprò i diritti di adattamento più di 20 anni fa, realizzando poi la serie tv Dark Angel (2000-2002) come esperimento per quello che sarebbe dovuto essere l’adattamento cinematografico del manga.
Questo nuovo progetto di Cameron era molto atteso ma – come sempre accade nel caso di un adattamento americano di un prodotto nipponico – anche molto temuto. Ogni singola volta che il cinema americano ha provato ad adattare manga o anime ha fallito sia commercialmente che nel gradimento del pubblico, si veda per esempio il caso recente di Ghost in the Shell. Tuttavia, bisogna dire che Alita si presenta come uno degli adattamenti forse più apprezzabili visti negli ultimi tempi.
I resti della guerra
Nel film ci troviamo nel 2563, il nostro pianeta è stato devastato da una grande guerra combattuta 300 anni prima chiamata La caduta, che ha lasciato intatta solamente Zalem: l’ultima delle città sospese. All’ombra di Zalem si estende la città di ferro, che prospera attorno alla discarica di rifiuti che piovono in continuazione da Zalem. Alita è una cyborg i cui resti vengono trovati da Ido Dyson, un medico esperto nella cura dei cyborg e in cerca di parti di ricambio nella discarica ai piedi della città sospesa.
Ido riesce a riparare Alita – che non ricorda nulla del suo passato – dandole un nuovo corpo. Nella città di ferro Alita farà poi amicizia con Hugo (un ragazzo umano) e imparerà a conoscere il Motorball, uno sport violentissimo che vede lottare fino alla morte agguerriti cyborg, poiché solo vincendo si può ottenere il privilegio di salire a Zalem. Hugo e Ido si renderanno presto conto però, che Alita non è una comune cyborg e che nel suo passato si nasconde un profondo legame con la stessa Zalem e una élite di avanzatissimi cyborg combattenti.
L’organico e l’artificiale
Nonostante l’ambientazione lo suggerisca, Alita non dev’essere considerato come un’opera di fantascienza tout-court. Il film, infatti, assume come sostanzialmente pacificato il rapporto tra uomo e macchina, organico e artificiale, il cui conflitto è solitamente il centro di questo genere di narrazioni. Alita e Hugo ad esempio non hanno alcun bisogno di tenere nascosta la loro relazione.
Da questo punto di vista Alita prosegue quanto Cameron aveva già ampiamente anticipato con Avatar dieci anni fa. In quel film il rapporto tra uomo e corpo artificiale era, infatti, l’aspetto più interessante. Gli avatar[2] sono ibridi creati in laboratorio con geni umani e geni Na’vi (gli indigeni del pianeta Pandora che gli umani stanno cercando di colonizzare), ma privi di coscienza propria. Ciascun avatar può essere quindi utilizzato solo dall’essere umano il cui DNA è stato impiegato per comporlo e nel quale è possibile trasferire la propria coscienza attraverso un apposito dispositivo.
Lo sguardo
Avatar si concludeva con i grandi occhi felini del protagonista che si aprivano sulla sua nuova vita completamente trasferita nel corpo del proprio clone Na’vi e lo stesso sguardo troviamo anche in Alita. La forza di questo film, infatti, si trova nel volto digitalizzato della sua protagonista, nei suoi occhi enormi, enfatizzati e quasi deformati dalla tecnica digitale.
Fin dai primi trailer apparsi in rete, quello che aveva fatto storcere il naso a molti erano proprio i grandi occhi della protagonista e in generale la trasformazione del volto di Rosa Salazar tramite la tecnica del motion-capture. È la prima volta che vediamo un personaggio femminile cosiddetto forte, modello ormai frequente nelle produzioni per cinema e tv degli ultimi anni, essere anche incredibilmente emotivo, caratteristica enfatizzata dai massicci effetti applicati al volto umano dell’interprete del personaggio.
La cosa deve far riflettere perché nel film è proprio la qualità degli effetti visivi a rendere ancora più emozionante e credibile la recitazione dell’attrice protagonista. Alita poi non è l’unica resa potente dal suo sguardo: nel film il temibile Nova, misterioso abitante di Zalem, può vedere tutto quello che accade nella città di ferro rubando lo sguardo di quelli di cui prende possesso.
La fantascienza ha messo sempre in evidenza gli aspetti critici dell’evoluzione tecnologica: per quanto l’uomo possa progredire, i problemi generati dal progresso sono sempre più grandi degli effettivi benefici. Ma se non fosse così, se la tecnologia fosse invece il supporto necessario, o meglio la via specificamente umana, attraverso la quale l’uomo può cercare di vedere, di volgere in modo più particolare il suo sguardo verso se stesso? Alita sembra suggerire questa strada.
[1] P. T. de Chardin, Il Fenomeno Umano, Queriniana, Brescia 2008, 27.
[2] Dal termine sanscrito avatara che nelle diverse teologie indù indica la discesa della divinità nel mondo attraverso un corpo.