Che cosa fa di un oggetto un’opera d’arte? La risposta a questa domanda è più difficile di quanto possa apparire. Nel corso del tempo i filosofi non sono giunti infatti ad una risposta, sulla quale tutti potrebbero convenire.
Se per gli «antichi» a qualificare un «arte factus» sarebbero qualità intrinseche all’opera stessa (la forma, la bellezza, la misura, l’armonia, il disinteresse), per i «moderni» è invece anzitutto l’intenzionalità dell’artista e la sua capacità di rivelare la «visibilità» o «profondità» delle cose, a qualificare l’opera d’arte. Entrambi i paradigmi, con le loro numerose variazioni interne, concordano tuttavia nel riconoscere l’arte come mezzo di comunicazione rivolto a un destinatario ideale.
Una vera e propria crisi in questa alternativa fra oggettivismo antico e soggettivismo moderno interviene allorché agli inizi del Novecento è il destinatario dell’arte a determinarne il concetto stesso di opera.
Colui che introduce questa rottura è Marcel Duchamp con l’idea del «objets trouvés», ovvero con l’assunto che qualunque cosa possa essere elevata ad opera d’arte, sia essa una ruota di bicicletta (Roue de bicyclette del 1913) o un orinatoio (Fountain del 1917), se qualcuno le da un titolo speciale e se una comunità di esperti approva quella «trasfigurazione ermeneutica».
L’intronizzazione del ready-made in un museo con la concomitante attribuzione di un valore di mercato, diventa ora il certificato di nascita dell’opera d’arte. Come noto, il Concettualismo di Duchamp aprirà le strade al Dadaismo e al Surrealismo e ispirerà autori come Andy Wharol.
La provocazione e le domande
Una provocazione simile a quella lanciata del Concettualismo nella discussione sui confini del canone estetico è rappresentata oggi dall’arte generata dalla artificial intelligence (A.I.).
Se, da un lato, quest’ultima si differenzia dal ready-made in quanto non pretende «trasfigurare ermeneuticamente» un prodotto, ma genera qualcosa di mai visto prima, dall’altro, si basa su una profonda minimizzazione del ruolo dell’artista umano nella produzione artistica e su una enfatizzazione della comunità di riferimento.
Tale novità provoca oggi in modo inedito l’«ontologia dell’arte» e solleva la domanda circa la legittimità di valutare i risultati della A.I. come opere d’arte a pieno titolo. E in caso affermativo, perché?
Non solo l’estetica filosofica, ma anche l’etica e il diritto sono provocati dalle questioni sollevate dall’intelligenza generativa nella produzione artistica.
Quando un algoritmo adattivo viene addestrato per la prima volta con un set di dati di centinaia di ritratti dal XVIII al XIX secolo e genera autonomamente un portrait inedito, intitolato «Edmond de Belamy», che viene battuto all’asta a New York nel 2018 per 432.500 dollari, sorge la domanda: chi detiene il copyright di quest’opera? Il collettivo di artisti «Obvious» o l’algoritmo creativo? E come regolare il copyright di tutte le opere che sono state incorporate nel database sorgente del software? Da quali opere provengono le singole parti dell’immagine generata dall’intelligenza artificiale?
O cosa dire del progetto «The Next Rembrand»? Un team di informatici olandesi ha alimentato l’algoritmo con 346 originali di Rembrandt scansionati tridimensionalmente: A.I. ha imparato a riconoscere i tratti e i chiaro-scuri tipici del maestro e ha generato un nuovo motivo originale, che imita in tutto e per tutto lo stile e la combinazione di colori di Rembrandt. Ci troviamo di fronte ad un falso o ad un originale? Dipinti di questo tipo vengono oggi venduti a prezzi molto alti.
Alla luce di questo entusiasmante sviluppo, la nostra domanda non è più: «Che cosa fa di un oggetto un’opera d’arte?», ma piuttosto: «Quale concezione dell’arte può comprendere e allo stesso tempo distinguere sia i risultati della creatività umana sia i prodotti della creatività artificiale?».
Una possibile risposta a questa domanda risiede in una precisa differenziazione del concetto di creatività.
Una visita alla «sala macchine»
Per avvicinarsi al tipo di «creatività» di cui è capace la A.I. è necessario prendere atto dei modi di funzionamento del software applicato alla produzione di arte visiva. Degno di nota, a tal guardo, è lo studio di un gruppo di ricerca americano intitolato «CAN: Creative Adversarial Networks Generating “Art” by Learning About Styles and Deviating from Style Norms», presentato alla ottava conferenza internazionale di Computational Creativity (ICCC) in Atlanta dal 20 al 22 giugno 2017.
Il gruppo di informatici ha presentato un modello per modificare il «Generative Adversarial Network» (GAN), utilizzato, ad esempio, nella conversione di foto in dipinti o nella traduzione linguistica (DeepL), per formare un «Creative Adversarial Network» (CAN).
Un GAN è composto da due sotto-reti: un generatore e un discriminatore. Il discriminatore ha accesso a un insieme di immagini (immagini di addestramento) e cerca di distinguere tra immagini «reali» (quelle del set di allenamento) e immagini «false» create dal generatore.
Il generatore cerca, a sua volta, di generare immagini simili a quelle dell’insieme di addestramento, senza però vederle. Il generatore inizia infatti col produrre immagini casuali, ma riceve ogni volta un segnale dal discriminatore grazie al quale impara a stabilire se i suoi sub-prodotti siano adeguati o meno ai criteri del set di allenamento.
Secondo il team, questo sistema binario, che lavora secondo un andirivieni «contraddittorio» («adversarial»), presentava limitazioni strutturali che impediscono al software di discostarsi dagli stili consolidati e dunque di espandere lo spazio creativo. In effetti, i prodotti del GAN sono, per loro stessa ammissione, «imitativi e non creativi».[1]
Per superare questa impasse, e arrivare ad un «Creative Adversarial Network» (CAN), i ricercatori hanno modificato il sistema, in modo da soddisfare i tre criteri di «creatività» proposti dall´informatico Simon Colton[2]: un sistema può essere definito «creativo» se ha la capacità di produrre artefatti nuovi (imagination) di alta qualità (skill) e la capacità di valutare le proprie creazioni.
Per raggiungere questo ambizioso scopo e passare dunque da un GAN a un CAN, il team ha matematizzato un nuovo modello sulla base della teoria proposta da Colin Martindale per spiegare come avvengano le rotture stilistiche nella storia dell’arte.[3]
Martindale si rifà al principio del minimo sforzo, ovvero alla celebre «curva di Wundt»: un potenziale di eccitazione troppo basso viene percepito come noioso dal destinatario, mentre un potenziale di eccitazione troppo alto attiva il sistema di avversione, che porta a una reazione negativa. Le persone preferiscono quindi stimoli che sono esattamente il giusto equilibrio tra «troppo leggero» e «troppo brusco».
Martindale ipotizza dunque che i geni creativi, quelli cioè che introducono una rottura stilistica nella storia dell’arte, cerchino sempre di aumentare il potenziale di eccitazione della loro arte per contrastare l’assuefazione. Tuttavia, questo aumento dell’eccitazione deve essere minimo per evitare reazioni negative da parte degli spettatori (principio del minimo sforzo).
«Aura» creata in laboratorio
Ispirandosi a questi presupposti, il team ha assunto la curva di Wundt come livello di controllo aggiuntivo nel rapporto fra generatore e discriminatore. Una vasta collezione di immagini d’arte dal XV al XXI secolo è servita come base per l’addestramento del sistema, il quale ha via via generato nuove immagini in base ai segnali del discriminatore e alla curva di Wundt.
Questo ha permesso al software di generare artefatti originali che massimizzavano la deviazione dai concetti stilistici stabiliti, riducendo al minimo l’irritazione negativa del destinatario ideale. Sembrerebbe dunque che il team abbia trovato la formula alchemica per generare opere con una certa «aura».
I prodotti di questi processi insieme ad altre opere d’arte di noti autori contemporanei sono stati infatti presentati in forma anonimizzata al giudizio di un gruppo di controllo. Ai soggetti è stato chiesto di giudicare la serie di opere, secondo una scala di sei valori: «Likeness», «Human», «Intentionality», «Composition», «Communication» e «Inspiration». Le loro reazioni difronte alle opere generate dalla A.I. sono state poi confrontate con le loro reazioni alle opere create dagli artisti umani.
I risultati sono stati sorprendenti: i soggetti del test non hanno saputo sempre distinguere l’arte generata artificialmente da quella prodotta da artisti contemporanei e in alcune voci hanno addirittura valutato come superiori le immagini create dalla A.I.
Questo studio è uno dei primi esempi di come una A.I. abbia dato prova di «creatività». Sì, ma che tipo di creatività ha dimostrato nei fatti questo sistema?
Tre forme di «creatività»
Per rispondere a questa domanda, possiamo distinguere con Margaret Boden[4] tre forme di creatività: «esplorativa», «combinatoria» e «trasformativa».
La creatività esplorativa avviene all’interno di un sistema o codice esistente e ne esplora i limiti esterni, espandendo i confini del possibile senza infrangere le «regole del gioco».
Questa forma di creatività, che secondo Boden rappresenta il 97% della creatività umana, si esprime in particolare nei sistemi informatici che vengono utilizzati, ad esempio, per risolvere problemi matematici o giocare a scacchi e che, nell’ambito di regole precisamente definite, sono in grado di eseguire una somma di calcoli superiore, in termini di velocità e quantità, a quella del cervello umano. Tuttavia, da questa creatività esplorativa non ci si possono aspettare risultati radicalmente inaspettati.
Nel secondo tipo di creatività, la creatività combinatoria, due aree o sistemi di regole vengono combinati fra loro e dalla loro interazione emerge qualcosa di nuovo. Molte conquiste in matematica o fisica sono il risultato di questo incrocio di teorie o modelli diversi. In senso stretto, la A.I. si basa proprio su questa forma di creatività additiva-combinatoria, in quanto essa è in grado di generare qualcosa di nuovo a partire dalla combinazione di una data quantità di dati in modo algoritmicamente interessante, che si tratti del dipinto «Edmond de Belamy» o «The Next Rembrandt».
La forma più alta di creatività è quella che Boden chiama creatività trasformativa. Si tratta di quei rari momenti in cui uno scrittore (Joyce), un fisico (Einstein), un musicista (Schönberg), un pittore (Picasso) capovolgono il paradigma vigente, introducendo un’innovazione radicale che ribalta le precedenti regole del gioco e introduce qualcosa di veramente inedito.
Ogni movimento artistico, come il Romanticismo, l’Espressionismo o il Cubismo, ne sono un esempio. I loro rappresentati hanno anzitutto valutato criticamente il canone artistico contemporaneo e, in alternativa, hanno inaugurando un nuovo modo di vedere il mondo.
L’algoritmo, invece, che pure digerisce centinaia di immagini e concetti stilistici, nulla sa del loro significato, della loro storia, né del modo in cui ciascuno di questi artisti ha cercato di «abitare» il mondo mediante la pittura.
Il «capolavoro» rimane
A differenza di questi processi esplorativi-combinatori, la terza forma di creatività può essere attribuita solo all’essere umano come unità corporeo-spirituale e intenzionalità incarnata, costitutivamente in relazione mentale e affettiva con se stesso, con l’altro, con il mondo, con la storia.
Solo la persona può essere «attiva» in tal senso. Non esisterà dunque mai un modello di A.I in grado di raggiungere o superare questa forma di creatività trasformativa. A ben guardare, infatti, l’«aura» delle opere d’arte prodotte dall’uomo non si basa affatto sulla reazione del consumatore o sulle aspettative del committente, che sono secondarie. Piuttosto, emerge dal «framezzo» tra stati mentali, fisici, affettivi e spirituali che sono sempre pienamente presenti nella persona-artista e – in forma mediata – nella sua opera.
Tuttavia, essi non possono essere localizzati singolarmente e quindi non possono essere estrapolati in modo da ricavarne un codice che possa poi essere imitato da un algoritmo (creato pur sempre dall’uomo!). Del resto, il ruolo dell’uomo nella creazione di queste immagini di alta qualità generate dalla intelligenza artificiale, deve essere reso particolarmente esplicito contro l’affermazione che l’opera d’arte è stata creata «solo» dalla A.I.
Tutto ciò significa che oggi è certo inevitabile un ampliamento della semantica di ciò che può essere etichettato come «arte». Dopotutto, ottimi quadri generati dall’IA sono espressione di creatività esplorativa e combinatoria, cioè non «artefatti», ma opere d’arte.
Tuttavia, le aspettative spesso acritiche di chi vuole dotare lo strumento della A.I. di caratteristiche quasi umane (come la coscienza, la capacità decisionale o la spontaneità) sono destinate a fallire. Per quanto infatti la complessità dei sistemi artificiali sia destinata ad aumentare, essi non produrranno mai intenzionalità (umana).
In definitiva: il concetto di arte può essere ampliato, non quello di mente o spirito. Una cosa rimane alla fine di certezza matematica: anche in futuro potremo aspettarci solo da artisti umani qualcosa che metta in scena una maniera completamente nuova di vedere e abitare il mondo. Non dunque i prodotti dell’intelligenza artificiale, ma essa stessa ne è la prova.
L’articolo è apparso nella pagina culturale del quotidiano Il Foglio. Gianluca De Candia è Professore ordinario di Filosofia e dialogo con la cultura contemporanea presso la Kölner Hochschule für Katholische Theologie (KHKT) e uno dei protagonisti dello scambio filosofico transalpino. La sua ultima pubblicazione, Der Sprung in den Glauben. Von der existenziellen Relevanz des Christentums, Herder Verlag, Freiburg i. Br. 2023, è stata eletta «libro religioso del mese, luglio 2023» dalle due associazioni rappresentative dell’editoria cattolica tedesca.
Una versione video del seguente articolo è apparsa sul canale:
https://www.youtube.com/watch?v=6t6_JkSJyIo&t=659s
[1] A. Elgammal et al., CAN: Creative Adversarial Networks, Generating “Art” by Learning About Styles and Deviating from Style Norms, https://doi.org/10.48550/arXiv.1706.07068, 6.
[2] S. Colton, Creativity versus the perception of creativity in computational systems, in: AAAI spring symposium: creative intelligent systems, Stanford, United States of America, 2008, 14–20.
[3] C. Martindale, The clockwork muse: The predictability of artistic change, Basic Books, New York 1990.
[4] M. Boden, The Creative Mind: Myths and Mechanisms, Weidenfeld and Nicolson, London 1990.