Capita ormai con una certa frequenza di ricevere comunicazioni o lettere nelle quali, al posto della vocale designante il genere maschile o femminile della parola x, compare un asterisco: tipico, il “carissim*” che introduce un testo spedito ai destinatari.
Nella collezione di indizi che vado raccogliendo per diagnosticare il mio compiuto ingresso nella età senile, dalla stanchezza crescente alle giunture più arrugginite, a qualche vuoto di memoria, fino alla psicologica insofferenza per talune mode del nostro tempo, la faccenda dell’asterisco si è guadagnata un posto di prima fila.
Una forzatura artificiosa
Infatti, accanto a una reazione di iniziale sorpresa, cui poi è subentrato, moltiplicandosi i casi, un sottile benché passeggero fastidio che si risveglia ad ogni occorrenza, ho constatato un effetto secondario, involontario, sotto sotto gustoso, di comicità.
Non sono capace di ridere facilmente, le comiche televisive solitamente mi portano a cambiare canale, le battute occasionali dei pochi amici che frequento mi strappano a volte un sorriso freddino, di rado qualcosa di più aperto; però non mi ritengo una musona, il senso dell’ironia non mi manca, e spero di aver conservato, nella fisiologica maggior durezza delle arterie, una qualche flessibilità mentale e la disposizione (voluta, non istintiva) a vedere il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto. Cioè, a non dare spazio ai giudizi precipitosi, a stroncature immotivate, non meditate.
Ma questa cosa dell’asterisco proprio non mi va giù. In primo luogo, e forse è questo e solo questo il motivo fondamentale, perché mi sembra una forzatura dei codici linguistici consolidati, un arbitrio nemmeno giustificato dalla divina arte della poesia, che quando è tale sommuove la lingua da dentro, “detta dentro”, crea neologismi o nuove vibrazioni di parole antiche, insomma, rigenera lessico e sintassi fuori dalla piatta prevedibilità.
Ma quanti sono i poeti? E fra loro, i grandi poeti? In certo modo, lo stesso può dirsi anche dei prosatori, alla cui valentia il tempo talora rende giustizia, riscattandone il nome semisepolto, soverchiato dai best-seller del momento breve.
Il mare delle parole
Dopo la primissima infanzia che si inoltra nel continente delle parole a tentoni esplorativi, con effetti a volte straordinari, forzare la lingua dovrebbe essere, io credo, un esercizio governato da sufficiente consapevolezza di cosa è la lingua e di come funziona: non dalle mode, nemmeno quelle del “politically correct” che oggi vanno per la maggiore. Il patrimonio lessicale e le regole linguistiche che adoperiamo costituiscono un sistema complesso, stratificato, raffinatissimo e delicato: sappiamo bene che ogni lingua si evolve, che ogni generazione vi immette qualcosa di inedito, che non è dunque un sistema ingessato.
Così come sappiamo che molte parole cadono dall’uso, si dissolvono o restano consegnate alla memoria lunga dei dizionari o degli atlanti linguistici, ad esempio quelle legate alle opere e ai giorni del mondo contadino, della religiosità popolare, di tradizioni scomparse. Dare il nome alle cose è da sempre prerogativa dell’essere umano, “homo nominans”, ma è questione impegnativa, perché dare un nome, come i maestri ci hanno insegnato, significa dare un ordine al mondo, organizzare il mondo, dirigere il pensiero che i parlanti hanno del mondo.
Ora, la faccenda dell’asterisco sostituito alla desinenza finale di una parola (carissim*), per eliminare l’alternativa maschile/femminile e renderla (apparentemente?) più inclusiva, è ben piccola cosa dinanzi alla grande architettura del sistema linguistico: eppure, ogni intervento sulla forma, per quanto minimo, comporta potenzialmente la capacità di influenzare il pensiero, la rappresentazione della realtà. Se poi, come nel caso specifico, questa innovazione grafica risponde a una precisa intenzionalità dello scrivente, politica in senso lato, propagandistica o semplicemente corriva alla moda del momento, non si tratta più di un dettaglio trascurabile, ma di un segnale da esaminare con qualche critica attenzione.
La forza del nome
“La forza del nome è irresistibile”, diceva G. Luigi Beccaria, è più forte del vero. Ma qual è la forza intrinseca al genere maschile o femminile indicato dalle desinenze? Nelle Ardenne, ad esempio, la talpa aveva due nomi, “taupe” o “fouion”, di genere femminile il primo, maschile il secondo: ma era sempre lo stesso animale, fosse maschio o fosse femmina: il genere è convenzionale, la lingua è convenzionale. Diventerà convenzione corrente anche l’asterisco? Ma quale ne è il retro pensiero? (posto che ci sia un pensiero, e non solamente la pressione omologante dei mass-media di turno).
Fino a che punto è possibile, sensato, utile, forzare le regole d’uso della lingua, piegandole a un messaggio extralinguistico? Hjelmslev e altri linguisti ci hanno avvertito che i modi di organizzare il contenuto dei segni linguistici cambiano da lingua a lingua e le variazioni formali non corrispondono specularmente a variazioni del contenuto; inoltre, il rapporto fra i due piani è convenzionale, nella grandissima maggioranza dei casi è arbitrario: è il principio della doppia articolazione: non esiste nesso necessario tra l’enunciato e la “cosa”.
Perché diciamo, ad esempio, “ il carcere” (maschile) al singolare e “le carceri” (femminile), al plurale? Od anche “l’uovo” e “le uova”? Gli esempi sono numerosi, per non dire del paragone con altre lingue, dove l’assegnazione del genere maschile o femminile a un certo termine non coincide con quello dell’italiano: ancora un rapido esempio: “indirizzo” per noi è maschile (“ti do il mio indirizzo”), in francese “adresse” è femminile, ma si intende la medesima cosa. E ci sono nomi di genere grammaticale maschile che si riferiscono a donne, come, in ambito musicale, il soprano, il mezzosoprano, il contralto; parimenti, alcuni nomi di genere femminile possono riferirsi sia a uomini sia a donne, ad esempio “la guida”, “la recluta”, “la spia”, “la vittima”… Cosa dedurne?
Il sospetto (malevolo) è che, dietro certe innovazioni spinte avanti con pedagogica foga dai sostenitori di codici linguistici non sessisti ci sia una paurosa ignoranza della natura della lingua. O una non meno temibile propensione ad accodarsi ai cliché veicolati dai registi dell’opinione, od ancora, magari, una perdita su larga scala del senso del ridicolo. Speriamo di no.
La desinenza e la vigilanza
Con ciò, non intendo affatto sostenere che sia inutile un certo grado di vigilanza sugli atti linguistici, specie su quelli formali, o che il vocabolario stesso, il lessico col quale costruiamo architetture espressive e comunicative, diamo informazioni, cerchiamo di convincere o altro, non debba essere soggetto a filtri depurativi capaci di incanalarlo via via verso livelli più civili e alti di convivenza. Ma questo è veramente un altro discorso, anche se può avere qualche tangenza con quello precedente.
Una desinenza grammaticale non ha lo spessore significativo di certe parole che, spesso a fatica e con un lavoro culturale diffuso, sono state giustamente e opportunamente espunte dalla grammatica civile: eppure, è sempre questione di misura, di orecchio, di gusto, direi anche di “verità”.
Avevo un amico carissimo, ora scomparso, con cui ho passato anni di scuola e di università indimenticabili: era nato cieco, e ricordo che si alterava parecchio quando, con le migliori intenzioni, si cominciò a usare l’espressione “non vedente” al posto del termine “cieco” che suonava evidentemente troppo esplicita e dura. Cosa cambia, diceva? Non è forse una ipocrisia da benpensanti ben parlanti? Cosa c’è di offensivo nel termine “cieco”?
E potremmo continuare con le carezze linguistiche su altre forme di handicap, pur nella convinzione che forse abbiano contribuito, talvolta, a superare pregiudizi e tabù, mettendo l’accento non sulla mancanza ma su potenzialità diverse.
Ma il punto fondamentale è la visione della persona, delle persone: se questa viene alimentata come valore intrinseco, a prescindere dalle prestazioni, nel rispetto per ogni esistenza, allora anche usare il termine “vecchio” anziché la tortuosa espressione della “terza età” potrà suonare affettuoso, come quando si dice, da parte dei figli, “i miei vecchi”, con empatia. La formale algida versione della terza o della quarta età ha forse abbellito il confinamento squallido degli ospizi?
Postilla
«Una grammatica fissa le regole sintattiche di combinazione fra i simboli di una lingua e ci fornisce le istruzioni per assegnare a questi simboli e alle loro combinazioni i corrispondenti significati denotativi. Quando ascolto, o ho di fronte un testo, la prima operazione che mi accingo a compiere sarà appunto la sua decifrazione o decodificazione sulla base di una siffatta grammatica (…)
Ogni messaggio, al di là del suo senso grammaticale, si qualifica poi di volta in volta come una azione: sarà un invito, un ordine, una richiesta, una promessa, una minaccia, una affermazione o una domanda, e non sempre la sua forma linguistica determina univocamente il tipo di azione svolto dal messaggio come atto locutivo (“fa freddo in questa stanza” può non essere una affermazione, bensì un educato invito a chiudere la finestra).
I nostri comportamenti possono soddisfare le convenzioni linguistiche in modo più o meno forte, possono violarle, senza perdere per questo un senso riconoscibile; possono introdurre, infine, nuove convenzioni sul campo senza bisogno di renderle esplicite, ma suggerendole e confidando sulla capacità dei nostri interlocutori di interpretare correttamente gli indizi, le tracce, i segnali che inostri gesti gli trasmettono.
Se sto giocando a scacchi, non potrò muovere l’alfiere come la torre, o il cavallo come la regina, e se lo facessi non starei più giocando a scacchi: queste regole sono costitutive, fanno sì che il gioco sia quel gioco e non un altro, né possono in alcun modo essere violate (…). Creare significa introdurre novità. Ma non basta. Occorre infatti sottolineare che la novità è possibile solo all’interno di sistemi e condizioni dati. La nozione di novità è inoltre di per sé assiologicamente neutrale: non sempre, vogliamo dire, il nuovo è solo per questo efficace, vero, bello o moralmente accettabile.
La ruota non cessa di essere utile per il fatto che la conosciamo da migliaia di anni; la teoria della relatività non cessa di essere vera per il fatto che ormai ci abbiamo fatto l’abitudine; la “Commedia” non ci disgusta necessariamente alla trentesima lettura, e non sempre i sistemi politici più nuovi sono i più raccomandabili. Naturalmente i nostri criteri di efficacia, verità, bellezza o moralità mutano con il tempo, così che una novità a cui neghiamo valore oggi potrà domani essere riconosciuta come un’anticipazione profetica.
Perciò l’esplorazione dell’ignoto e l’attenzione verso l’emergente devono diventare componente essenziale della nostra visione del mondo, soprattutto in una civiltà che, come quella moderna, ha conosciuto una accelerazione così vistosa. Sarebbe un errore fatale, tuttavia, scambiare lo spontaneismo (che ignora le regole, affidandosi agli automatismi delle reazioni irriflesse) con la creatività (che modifica le regole, in vista di scopi e valori di cui possiamo prendere coscienza).
Né meno fatale sarebbe sostituire la ricerca, sempre provvisoria eppure intrinseca alla nostra umanità, dei significati e dei valori, con una mera ideologia del nuovo, solo in apparenza liberatoria e spregiudicata» (da F. Brioschi – C. Di Girolamo, “Elementi di teoria letteraria”, Principato 1986, pp.85 e 223-224).
- Si ringrazia la rivista EsseNonEsse e l’autrice per il permesso di pubblicazione su SettimanaNews.
Concordo in pieno con quanto l’autrice ha scritto a partire dalla linguistica e dal buon senso. Mi chiedo sempre che senso abbia il malvezzo di utilizzare, con l’aria di chi vuol apparire moderno, la locuzione ‘piuttosto che’ come se fosse una congiunzione. ‘Io mangio pasta piuttosto che fagioli’. ‘Ah, preferisci la pasta allora?’. ‘No, pasta e fagioli’. ‘E dillo cantando allora: pasta e faglioli!!!
Non ho particolare avversione per i vari asterischi schwa e co. In particolare la schwa la pronuncio da quando ho l’uso della favella, essendo io un napoletano ostinatamente attaccato all’uso della sua lingua madre. Però la schwa applicata all’italiano mi ha – sin da subito – suscitato ilarità. Non riuscivo a capirne il perché sino a quando non ho avuto uno di quei flashback di cui è piena la Recherche: nella mia mente si è composta nitida l’immagine di me intento alla lettura di un albo di Cattivik.
Fuor di satira concordo con l’articolista sul fatto che le innovazioni linguistiche calate dall’alto difficilmente hanno successo. Il tempo e l’uso ci diranno se la neolingua ci ridurrà a parlare come tanti, tristi Cattivik. Hi, hi, hi… yuk, yuk (W Bonvi)