Il 9 gennaio si è spento a Leeds, città inglese dove viveva e aveva insegnato, il sociologo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman, uno degli osservatori e dei teorici più acuti della società contemporanea, per la quale ha coniato la fortunata definizione di società «liquida». Aveva 91 anni. «Nella società senza padri, Zygmunt Bauman è stato un padre», lo ricordano Giaccardi e Magatti su Avvenire. «Uno dei primi a comprendere l’ambivalenza della modernità e a coniare un nuovo linguaggio per parlare di una realtà in mutamento. Egli ha messo parole e metafore nuove a disposizione di tutti; non come slogan da brandire in una schermaglia verbale, ma come lanterne per illuminare il nostro tempo e camminare insieme su sentieri incerti e pieni di insidie». Lo ricordiamo con un estratto de Il secolo degli spettatori, volume pubblicato nella collana Lampi delle Edizioni Dehoniane di Bologna (2015).
Chi «fa il male», infligge dolore e sofferenza oppure ordina agli altri di farlo, è stato in passato, ed è ancora oggi, generalmente esaminato e analizzato come «esecutore». Si è dato per scontato che l’azione malvagia sia legata casualmente a caratteristiche «naturali» o «alimentate» da chi la commette o a situazioni parimenti peculiari, nelle quali gli eventuali criminali si trovano solo in parte, o addirittura affatto, per loro scelta.
Chi, pur non avendo causato alcun dolore né sofferenza con le proprie azioni, ma vedendo perpetrare il male o sapendo che si sta perpetrando o sta per essere commesso, non opponeva alcuna resistenza a esso, veniva generalmente esaminato e analizzato come «spettatore». Una parte integrante della definizione di «spettatore», di fatto una delle sue principali caratteristiche, era il non essere fra i criminali. Il classico triangolo di ruoli interpretati nel corso di un’azione criminosa separa gli spettatori dagli attori non meno radicalmente che dalle vittime.
Tuttavia, esiste un’affinità fra «fare il male» e «non opporsi al male». Ciò che collega questi due aspetti, secondo il vocabolario di Stanley Cohen, è la loro disperata negazione della colpa. La negazione rende il perpetrare il male e l’astenersi dal reagire a esso psicologicamente e sociologicamente possibili. La negazione è, per entrambi, uno strumento fondamentale e una condizione indispensabile.
La «negazione» è la risposta a interrogativi angoscianti – «Che cosa ne facciamo della nostra conoscenza del dolore degli altri e che cosa opera in noi questa conoscenza?» –, i quali sorgono quando «persone, organizzazioni, governi o intere società ricevono informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale per poter essere assorbite del tutto o apertamente riconosciute».[1] L’informazione viene, quindi, in qualche modo repressa, rinnegata, accantonata o reinterpretata.
Esistono molte forme di negazione della colpa o di pretesa di innocenza, che è la stessa cosa, ma gli argomenti a cui si ricorre sono straordinariamente simili. La negazione ha una struttura a due strati – mancanza di conoscenza e mancanza dell’opportunità di agire sulla conoscenza –, che possono facilmente adattarsi a tutti gli argomenti più utilizzati. Privati dei loro abbellimenti, tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro dei seguenti modelli: «Non sapevo» oppure «Non ho potuto fare nulla».
Il primo, una risposta diretta, non ponderata, per lo più estemporanea alla dissonanza cognitiva, è «Io non sapevo» – che alcuni soffrissero, che il dolore venisse inflitto loro da altri, che accadessero cose tanto orribili all’estremità della catena di azioni di cui la mia era solo uno dei tanti anelli. Se l’argomento dell’ignoranza perde credibilità, giunge in aiuto quello dell’impotenza – non avevo scelta, perché l’alternativa al non fare nulla era anch’essa orribile; inoltre, non sarebbe cambiato nulla qualunque cosa avessi o non avessi fatto, perché le circostanze non lasciavano scelta.
In un’epoca in cui autostrade d’informazione attraversano il pianeta, le argomentazioni basate sull’ignoranza stanno rapidamente perdendo credibilità. L’informazione sulle sofferenze degli altri, trasmesse in una forma vivida e facilmente leggibile, è disponibile all’istante quasi ovunque; una volta che l’accesso alla rete mondiale di autostrade d’informazione ha smesso di avere bisogno persino della vicinanza a una presa telefonica, la distanza non può più essere un pretesto valido. Questo ha due conseguenze che pongono dilemmi etici d’inaudita gravità. In primo luogo, «essere spettatori» non è più la condizione eccezionale di poche persone. Ora siamo tutti spettatori: testimoni dell’afflizione, del dolore e della sofferenza che ciò causa. In secondo luogo, abbiamo tutti bisogno di discolparci e di giustificarci. Poche persone, per non dire nessuno, non si trovano a dover ricorrere, una volta o l’altra, all’espediente della negazione della colpa.
Nell’inventario che Karl Jaspers fa dei tipi di colpa, la colpa morale – di cui i colpevoli con coscienza morale sono consapevoli, tanto da pentirsene – è separata dalla colpa metafisica. Quest’ultima, secondo Jaspers, va al di là del dovere moralmente significativo. La colpa metafisica esiste ogni qual volta la solidarietà umana si arresta di colpo di fronte ai suoi limiti assoluti, di fatto infiniti. Diversamente dalla colpa morale, la colpa metafisica non richiede prove, e nemmeno sospetti del nesso causale fra l’azione, o l’inazione, del presunto colpevole e il caso della sofferenza umana. In senso metafisico sono colpevole indipendentemente dal mio contributo, deliberato o non intenzionale, alla pena sofferta da un altro essere umano.
Emmanuel Lévinas incorporerebbe forse la «colpa metafisica» di Jaspers nella categoria della colpa morale come tale. Per Jaspers, l’assenza di una connessione causale fra il comportamento del colpevole e il dolore della vittima non è così potente da cancellare la colpa, perché il postulato della solidarietà umana assoluta è la pietra d’angolo di tutta la moralità ed è inscindibile dalla posizione morale. Per Lévinas, ciò che rende irrilevante la presenza o l’assenza del nesso causale è la postulata incondizionalità della responsabilità umana per l’Altro.
Lévinas e Jaspers hanno fissato in maniera diversa le loro categorie, ma il disaccordo che ne risulta è più che altro terminologico. In entrambi i casi, i termini sono utilizzati per trasmettere la distinzione essenziale fra il reame delle materie legali e l’universo del sé morale. Il nesso fra causa ed effetto, che è la principale differenza specifica della categorizzazione di Jaspers, è privo di forza e ha un’importanza secondaria in Lévinas. La detronizzazione della causalità e l’attribuzione alla solidarietà e alla responsabilità umane della forza di respingere tutti gli argomenti ontologici sono state forse le caratteristiche costitutive del sé morale e, di fatto, il suo prerequisito trascendentale, in tutti i tempi.
Tuttavia, nell’era della globalizzazione la disputa annosa fra etica e ontologia perde molta della sua forza insieme al suo contenuto. Nel nostro mondo d’interdipendenza universale, il reame delle cause e degli effetti dell’azione umana e lo scopo dell’umanità si sovrappongono. Virtualmente, nessuna azione, per quanto confinata localmente e ristretta, può essere certa di non avere conseguenze sul resto dell’umanità, né ogni segmento dell’umanità può limitarsi a se stesso e dipendere totalmente e solo dalle azioni dei suoi membri. Commentando il memorabile intervento del 1979 di Edward Lorenz dal titolo che è divenuto da allora una delle frasi più note dello scorso secolo – «Il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas» –, Roberto Toscano suggerisce che «oggi l’interconnessione globale richiede, nelle relazioni internazionali, modelli etici che vadano al di là di un concetto ristretto e legalistico di responsabilità».[2] La farfalla non conosce le conseguenze del battito delle sue ali, ma non può escluderle. Passiamo dalla responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo: quello di precauzione.
Pur mantenendo la sua funzione eterna di creare e sostenere il sé morale, la «responsabilità per l’Altro», una responsabilità pienamente e veramente incondizionata, che ora include anche il dovere di previsione e di precauzione, diviene nella nostra epoca il «fatto bruto» della condizione umana. Indipendentemente dal fatto che riconosciamo e volontariamente ci assumiamo la responsabilità gli uni degli altri, in realtà essa è già in noi e possiamo fare poco o nulla per scrollarcela di dosso. Il 5% della popolazione mondiale può emettere il 40% degli agenti inquinanti del pianeta e utilizzare/sprecare la metà o più delle sue risorse, ricorrendo al ricatto militare ed economico per difendere con i denti e con le unghie il suo diritto a continuare a comportarsi così. In un futuro prossimo, potrà utilizzare la sua forza superiore per far pagare alle vittime il prezzo della loro condizione (durante il nazismo gli ebrei non erano forse obbligati a pagare il biglietto per Auschwitz?). In ogni caso la colpa è sua, non solo in senso astrattamente filosofico, metafisico o etico, ma nel senso pratico, terreno, diretto, causale – ontologico, se si vuole – del termine.
La nostra responsabilità si estende ora a tutta «l’umanità». La questione della coesistenza, della «sopravvivenza reciprocamente assicurata», è andata ben oltre il problema dei rapporti di buon vicinato e della coabitazione pacifica con chi vive al di là dei confini statali, questioni alle quali si era limitata la maggior parte della storia umana. Si tratta di una responsabilità che coinvolge la popolazione di tutto il pianeta, i viventi e i nascituri. Dunque, siamo tutti spettatori: sappiamo che bisogna fare qualcosa, ma anche che abbiamo fatto meno del dovuto e non necessariamente quello che andava fatto prima di tutto. Sappiamo di non essere particolarmente desiderosi di fare di più o meglio, e anche di essere meno inclini ad astenerci dal fare ciò che non dovremmo fare affatto. Per rendere la condizione di spettatore, già penosa di per sé, ancor più straziante, il divario fra cose fatte e cose da fare sembra aumentare invece che diminuire.
[1] S. Cohen, States of Denial: Knowing about Atrocities and Suffering, Polity Press, Cambridge 2001, XI.
[2] R. Toscano, «The Ethics of Modern Diplomacy», in J.M. Coicaud – D. Warner (a cura di), Ethics and International Affairs: Extent and Limits, United Nations University Press, Tokyo 2001, 73.