Era prevedibile che, all’annuncio del premio Nobel a Bob Dylan, avvenuto come di consueto il secondo giovedì di ottobre, molti sarebbero stati i mugugni da parte di quanti hanno una concezione pura e dura della letteratura. È stato così, in effetti, dimenticando che, ad esempio – seguendo la loro ipotesi di lavoro – né Francesco d’Assisi, che il Cantico di frate Sole lo faceva accompagnare dalla musica, né Francesco Petrarca, le cui rime erano regolarmente lette ad alta voce e completate da strumenti musicali, sarebbero stati premiati; ma neppure, a ben vedere, il nostro Dario Fo, più giullare e commediante di altissimo livello che letterato in senso stretto, né la splendida Svetlana Aleksievič, premiata lo scorso anno dagli accademici svedesi, più saggista e giornalista sui generis che scrittrice tradizionale.
Ora, è la nozione di letteratura che si è ampliata e diversificata, in modo tale che il riconoscimento al cantautore statunitense non è altro che la fotografia di un dato di fatto, riferita a colui che, più e meglio di ogni altro, pari solo al canadese Leonard Cohen, ha saputo dare voce e testi e musica agli ideali di pace, giustizia sociale e fraternità di tre o quattro generazioni.
Quel paradiso perduto
Mi piace ricordare che il riferimento alla Bibbia rappresenta una bussola costante lungo il cammino creativo di Dylan, di famiglia ebraica e iniziato all’ebraismo con la cerimonia del bar-mitzvà nel 1954. Buona parte dei suoi primi successi, a partire dalla celebre Blowin’ in the Wind, s’ispira a passi dei libri di Ezechiele e Isaia, tanto che «la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto» (A. Carrera).
Dai suoi ricordi giovanili, nacque a Duluth in Minnesota nel 1941, si può cogliere un sentimento di appartenenza alla comunità ebraica sfumato e debole. Ha un primo approccio col testo biblico in famiglia, che si fa più sistematico con la frequentazione del rabbino per la preparazione del bar-mitzvà, ma l’ambiente in cui cresce è tutt’altro che facile: con la post-adolescenza si registrano i primi conflitti col padre Abe, il cui carattere autoritario e i costumi borghesi mal si combinano col carattere del figlio, inquieto e ribelle al punto da eleggere a eroi gli interpreti della gioventù bruciata dell’epoca, i vari James Dean e Marlon Brando.
Dylan non solo rigetta l’educazione familiare ricevuta, ma diventa un dropout, svincolato da qualsiasi dovere nei confronti di famiglia e società. Tuttavia il grande codice biblico resta un testo di riferimento ricorrente nella sua produzione artistica: egli lo legge essenzialmente da poeta, quale insuperabile repertorio di metafore e di parabole. Più un riferimento culturale che pietra d’angolo personale.
La trilogia cristiana
Eppure, a un certo punto del suo percorso Bob arriva a praticare la canzone come atto di fede: sa di avere un pubblico vasto con sé, di possedere un carisma capace di affascinare le platee. Al riguardo è esemplare la famosa e controversa trilogia cristiana, tre album incisi dal 1979 al 1981, in un momento particolare della sua vita. A metà degli anni Settanta il rapporto con la moglie Sara inizia a deteriorarsi, tra infedeltà del marito, liti e incomprensioni, fino a sfociare nel divorzio nel 1977: la crisi ha come esito la conversione alla religione cristiana e, in particolare, alla Vineyard Fellowship, Chiesa evangelica fondata dal pastore Ken Gulliksen, presso la quale passa qualche mese, per cinque giorni la settimana, a studiare la Parola di Dio.
Da qui nascono i dischi – Slow train coming, Saved e Shoot of love – in cui Dylan non si risparmia nel cantare la nuova fede, ricorrendo alla forma del gospel, con brani nel complesso deludenti. Se oggi, al netto delle critiche che piovvero ai tempi sul capo del reborn, del rinato a Cristo, si può convenire sull’ottima cura degli arrangiamenti e sulle capacità vocali sfoggiate nell’occasione, certi testi sono lontani anni luce dalle precedenti prove: «Quando la distruzione arriverà improvvisa/ e non ci sarà tempo per un ultimo addio/ avete deciso da che parte stare?/ Col paradiso o con l’inferno?/ Siete pronti, siete pronti?». Il pezzo, Are you ready?, è inserito in Saved, album con cui esce definitivamente allo scoperto, usando toni talmente perentori che rischiano di sconfinare nel fondamentalismo. Qui la Bibbia di Bob è implacabile, non fa sconti, richiede una fede «aggrappata a una solida roccia» (da Solid rock).
Una visione profetica
Per trovare canzoni dal sapore biblico ma anche riuscite artisticamente, conviene tornare al Dylan classico, quello degli esordi. Come A hard rain’s a-gonna fall (da Freewheelin’ Bob Dylan del 1963), scritta al tempo della crisi dei missili a Cuba, che ha ispirato generazioni di musicisti: «Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno/ Ho visto un’autostrada di diamanti e nessuno che la percorreva/ Ho visto un ramo nero e sangue ne scorreva/ Ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati/ Ho visto una scala bianca tutta ricoperta d’acqua/ Ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate/ Ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini/ E una dura, e una dura, e una dura, e una dura/ e una dura pioggia cadrà».
Il pezzo, letto in chiave di protesta contro la corsa agli armamenti e la paura per una terza guerra mondiale che appariva incombente, trascende il suo primo livello di lettura e acquista un significato universale grazie alla presenza di diversi riferimenti biblici. Innanzitutto l’uso delle numerazioni, tipiche del Primo Testamento (dodici montagne nebbiose, sei strade contorte, sette tristi foreste, dodici oceani morti, diecimila miglia nella bocca di un cimitero, diecimila persone che parlavano, cento tamburini, diecimila persone bisbigliare); poi le immagini, simboliche o meno, degli eventi catastrofici. A hard rain’s a-gonna fall è il primo di una lunga serie di brani in cui Dylan userà toni profetici per dire della malvagità del mondo e della necessità di un cambiamento profondo.
Anche nel terzo disco (The times they are a-changin’, 1964) si trovano pezzi del genere: in When the ship comes in canta che «I mari si divideranno/ e le navi si scontreranno/ e le sabbie sulla riva tremeranno./ Poi la marea risuonerà/ e le onde scrosceranno/ e il mattino comincerà a sorgere/ …e le rocce sulla sabbia/ si ergeranno fiere,/ l’ora in cui la nave arriverà in porto/ …i nemici si alzeranno/ con il sonno ancora negli occhi/ e dai letti si scuoteranno…/ …Allora alzeranno le mani/ dicendo “Faremo ciò che volete”,/ ma noi dalla prua grideremo “i vostri giorni sono contati”./ E come il popolo del faraone, saranno sommersi dalla marea, e come Golia saranno vinti».
Curiosamente una delle migliori fra le sue canzoni relativamente recenti, del 2000, richiama The times they are a-changin’, sia nel titolo (Things have changed, Le cose sono cambiate) sia per l’approccio, anche qui, da fine del mondo: «Ho camminato sulla cattiva strada per quaranta miglia/ se la Bibbia dice il vero il mondo sta per esplodere».
Una lunga fedeltà, quella alla Scrittura, al di là delle giravolte esistenziali, per il menestrello di Duluth, ora assurto alla gloria letteraria. Ripetiamolo, del tutto meritatamente.