Il malessere circola nell’aria da tempo e spinge talvolta il cattolicesimo a reazioni a dire il vero un po’ scomposte. Sarà poi che il clima festivo dei giorni natalizi accentua una condizione vissuta con evidente disagio: tutti fanno festa (in un modo o nell’altro) per qualcosa che riteniamo essere strettamente nostro; e lo fanno sapendo poco o nulla del perché tutto ciò sta avvenendo.
Ma quello che ci fa imbufalire di più è che tutti possono fare festa (che oggi vuol dire avere almeno per qualche ora un’apparente buona ragione per la nostra ossequiosa sudditanza al Dio del consumo) senza dover pagare il benché minimo dazio al cristianesimo (ossia a noi) e al suo Dio – che sono i veri proprietari di queste festività.
Ma il nostro tempo non si limita a questo. Sembra che alcuni osino utilizzare a proprio piacimento i personaggi delle scene natalizie, omettendo rigorosamente qualsiasi citazione a piè pagina (almeno per dire da quale remota fonte hanno preso la loro ispirazione… ma forse non lo sanno nemmeno loro).
La reazione di profondo disagio, quasi di stizza, rabbia, frustrazione, oramai neanche più temperata da un desiderio di abitare il contemporaneo, la si può cogliere in molti rivoli del sentire cattolico di questi giorni. Alcune volte ancora con qualche parvenza di maniera, altre proprio sbrodolata giù senza più alcun freno inibitore.
La rabbia di non essere più proprietari del cristianesimo e del suo immaginario; anzi, oramai ci siamo giocati anche l’ultima irrisoria partecipazione di minoranza nella sua gestione. E guardiamo esterrefatti al cristianesimo minimale che imperterrito continua a circolare anche negli usi più impropri che di esso può fare il nostro tempo.
Le reazioni alle poche righe di Saviano sul Natale sono, a mio avviso, sproporzionate e anche un po’ fuori misura rispetto alla cosa in sé. La predica di mons. Crepaldi per il giorno dell’Epifania, che sta bucando la rete per il suo attacco all’identificazione di Gesù con gay, pedofili e sardine varie, che una sua qualche buona ragione pur ce l’ha. Questi e tanti altri sono segni di un’esasperazione che non riusciamo più a controllare: ci stanno portando via il nostro patrimonio e reagiamo in maniera scomposta (anche quando abbiamo ragione), rischiando di non farci poi una così bella figura.
E non otteniamo neanche quello che vogliamo, perché non abbiamo la lingua per dire la regola della fede in maniera sensata e comprensibile alla nostra epoca e alla nostra gente. Possiamo continuare a ripeterla nella sua sontuosità quella regola, per affermare la nostra convinzione identitaria, ma dobbiamo essere ben consapevoli che così facendo non la diciamo a nessuno e non annunciamo nulla.
Forse, dovremmo iniziare a riconciliarci con il fatto che non abbiamo più alcun diritto d’autore sul cristianesimo che circola un po’ ovunque: sia nella sua forza ispiratrice di una misura più esigente dell’umano di cui i nostri tempi sono immemori, sia nelle perversioni di una qualche minoranza che senza il cristianesimo sarebbe condannata all’irrisorio.
Che poi fin dagli inizi i segni affidabili del Regno non siano mai stati nostri né di nostra esclusiva proprietà, è la buona notizia che vale anche per oggi.