Con una immagine plastica si può dire che l’uomo sia un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto: ragnatele che Geertz denomina “formazioni culturali”, ossia strutture “di significati trasmesse storicamente, incarnate in simboli, in un sistema di concezioni ereditate ed espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita” (Clifford Geertz, Interpretazioni di cultura, Bologna, il Mulino, 1987).
L’antropologia ha studiato e descritto come i gruppi umani differiscano per i modi del pensiero e, attraverso di questi, per le cognizioni, le categorizzazioni di spazio e tempo, le rappresentazioni dei sessi e del mondo naturale, i criteri di causalità. Tali elementi sono codificati nel linguaggio, nella gestualità, nei sistemi simbolico-interpretativi, quali quelli che riguardano la salute e la malattia.
Malattia e sofferenza
La malattia, lo stare male, il dolore, l’angoscia, fanno parte dell’esperienza di vita di ciascuno di noi e ciascuno di noi, a seconda del suo modo di pensare nella cultura a cui appartiene, conferisce – a tali proprie condizioni vissute – particolari significati ed interpretazioni.
Va detto che – ancor prima di entrare nella competenza degli apparati medici – la sofferenza è la percezione che caratterizzata l’interruzione di uno stato di benessere o l’aggravamento di un precedente malessere, ossia la rottura o comunque lo scarto negativo rispetto alla situazione precedente. Ciò comporta sempre l’ansia, il tentativo, spesso angosciante, di trovare delle risposte alle consuete domande: “perché a me?”, “perché ora?”, “quanto durerà?”, “chi potrà aiutarmi?”. Il tentativo della interiorità personale è sempre di ‘capire’, di dare un ‘senso’.
Solo a questo punto possiamo cogliere il verso degli interventi dei sistemi medici, cioè di quegli insiemi di idee e di pratiche che hanno a che fare – certamente – con la malattia, ma sempre in maniera inseparabile dal dominio della cultura e quindi – con un bel esempio – dalle pratiche religiose.
Le risposte al dolore, allo stare male, sono perciò – sì – personali, procedendo dalle reazioni di allarme e di panico a manifestazioni più controllate, sino, in una vasta gamma, alla negazione dei sintomi, ma sono altresì sempre culturali, dovute al gruppo, alle esperienze, ai linguaggi e alle visioni condivise nel mondo di appartenenza. Possiamo pertanto ben intuire come le pratiche ed i comportamenti adottati per i trattamenti ritenuti efficaci, conseguentemente, si possano e si debbano diversificare secondo le visioni del mondo e le credenze maturate attorno alla malattia.
Questo è per dire come la biomedicina scientifica occidentale da sola non esaurisca i saperi cui è possibile riferimento quando una persona sta male: come del resto dimostrano le risposte personali, talvolta scomposte e laceranti, alle esperienze collettive della pandemia, delle vaccinazioni, del green-pass.
La presunzione occidentale del sapere
La conquista da parte degli Stati europei delle terre emerse dell’intero pianeta, a partire dalla scoperta dell’America e dalla circumnavigazione dell’Africa, è stata accompagnata da un pensiero – tipicamente occidentale – contrassegnato dalla presunzione della detenzione unica ed esclusiva del sapere e, nel nostro caso in particolare, del sapere curativo, tanto da ritenere che la ‘sensatezza’ fosse – e sia tuttora – preclusa ai neri, ai ‘primitivi”, ai ‘colorati’, loro sistemi di cura compresi.
Non hanno fatto eccezione, nel tempo, i medici italiani che si sono misurati con la questione. Fra questi ne cito due per tutti: lo psichiatra Giorgio Ruata che lavorò agli inizi della sua professione, dal 1894 al 1903, all’Ospicio Nacional de Alienados di Rio de Janeiro e che ne ha scritto nel 1907, affermando – a proposito delle patologie dei pazienti di razza negra – che i negri erano meno evoluti dei bianchi, i loro atti psichici meno rapidi, il loro cervello meno pesante di quello dei bianchi, aggiungendo che il cervello dei negri nord americani era più pesante di quello dei negri sudamericani a seguito e per merito degli incroci “razziali”.
Stigma della inferiorità dei neri risultava – a suo dire – l’incompleta evoluzione dei solchi frontali, tanto che il cervello di un negro adulto appariva di dimensioni uguali a quello di un bambino europeo: da ciò derivavano il poco raziocinio con lo scarso senso etico, la forte sensualità, la passionalità, la volubilità, l’attitudine a imitare più che a creare.
A peggiorare lo stigma di inferiorità biologica si sarebbero assommate le conseguenze dell’abolizione della schiavitù – il 13 maggio 1888 la regina Isabella aveva decretato la fine della schiavitù in Brasile – che avrebbero favorito un’ulteriore degenerazione della razza negra per effetto del degrado dei costumi – quali consumi di alcool, l’esercizio di una sfrenata sessualità -con conseguente incremento di patologie quali la sifilide.
I “negri”, per un limite biologico intrinseco ereditario, non sarebbero stati passibili di positiva evoluzione psichica. Le malattie mentali da cui risultavano affetti trovavano ragione nell’infantilismo ineliminabile del cervello. Ruata concludeva le sue considerazioni proponendo il seguente “piccante” e singolare rimedio: “Se noi vogliamo tentare di elevare il negro a più alto livello civile, potremmo farlo in modo sicuro soltanto quando ne rinforzassimo il cervello con opportuni incroci con la razza bianca e col dargli la educazione morale e sana della civiltà moderna”.
Ma Ruata non si limitò alla “razza negra”, perché, a suo avviso, “anche in Italia i nostri rozzi contadini, presentano una ridotta e monotona organizzazione dei loro deliri, consentanea appunto, con la inferiorità della loro razza”. Quanto alle dotazioni anatomiche e al patrimonio mentale di genere, Ruata notava che non vi era differenza fra il peso del cervello delle donne bianche e di quelle nere. Ruata lavorò nel manicomio provinciale di Cuneo e in altre sedi; fu attivo nell’organizzazione della Società italiana di psichiatria negli anni del fascismo.
A proposito delle medicine dei nativi e dei rimedi dei guaritori africani, Giorgio Alberto Chiurco (1895- 1975), uomo politico, esponente del Pnf, parlamentare dal 1929 al 1939, Federale di Siena negli anni della Repubblica sociale italiana, medico e direttore dell’Istituto di Patologia Chirurgica dell’Università di Siena, al terzo Congresso di Studi Coloniali tenutosi fra Firenze e Roma nell’aprile 1937, nella sua relazione su Modo di vita e condizioni sanitarie degli abissini affermava: “In Etiopia pullula una infinità di mestieranti della medicina che sfruttano l’ignoranza e la credulità delle masse indigene. Non esiste quindi alcun medico nel paese e la medicina è perciò impartita dalla esperienza di qualche megera e di qualche stregone.
La natura della malattia, presso gli indigeni, come ogni altra manifestazione della loro vita, è basata ancora su pregiudizi di cui il principale è l’influsso malefico. Ciò favorisce il moltiplicarsi di abili sfruttatori, i quali cercano nei libri religiosi la fonte inesauribile del loro guadagno e dei loro medicamenti. Il fuoco, e cioè l’ignipuntura, ed il coltello sono elementi importanti della cura dei malati. […] Altro fondamentale della terapia indigena è il sanguisugio. L’arte officinale etiopica è basata sulle mescolanze di sterco, fango, paglia, nerofumo, foglie di ortica, radici di erbe con cui vengono preparati dei decotti e degli impiastri. […].
Il male è, quindi, dovuto per lo più al demonio, che deve essere cacciato via colla frusta; giacché le malattie non sono altro che un demone che ha invaso il corpo umano e dal quale bisogna assolutamente liberarsi con i metodi più strani. Il burro rancido è considerato come il toccasana, e viene dato spesso dal praticone empirico come purgante ai malati. La medicina è quindi confusa con l’empirismo. Al mercato si trova ogni sorta di semi e di foglie secche che vengono barattate da false farmaciste. Le cose più strane si osservano in rapporto alla circoncisione, alla infibulazione ed all’arte ostetrica, che viene praticata da pseudo levatrici”.
Ecco, quindi, due esempi eloquenti della grande quantità di opinioni in tema di medicine tradizionali, non-scientifiche, da parte di una gran numero di medici e antropologi occidentali.