Dalla Volpe all’Arcangelo. Meditazione su quattro testi di Ivano Fossati
Viviamo nell’illusione che la quotidianità coincida con la realtà, e la realtà con la totalità, quasi che nulla possa venire a irrompere, a turbare, a rendere problematico ciò che siamo e ciò che abbiamo, ciò che pensiamo di essere e pensiamo di avere. Come dei bambini appena nati. O come dei vecchi.
Così tentiamo di sfuggire all’angoscia di una condizione che potrebbe essere ingoiata dall’incomprensibile, dato che non sappiamo «quando il padrone di casa ritornerà» (Mc 13), e dato che «il giorno del Signore verrà come un ladro» (2Pt 3). Ci si anestetizza chiudendo la porta. Si pensa che basti proclamare “questa è casa mia”.
Eppure non c’è casa che non venga visitata, fosse pure da un’ombra in fondo al viale. Che sarà quell’ombra in fondo al viale di casa mia?
Di che cosa si può trattare? Il primo impulso è considerare quell’ombra “interna” allo spazio della casa, spiegabile e riconducibile a essa (sarà il cane che ritorna, ma il cane non è), o come l’ombra di qualcosa che è comunque noto o amichevole (sarà la luna fra le piante, ma la luna non è. Sarà un amico che ha allungato la strada, sarà un amico che è arrivato, ma un amico non è).
Con sottile angoscia, sono costretto a riconoscere che quell’ombra in fondo al viale di casa mia è diversa da me, e dalla casa, e delle cose che alla casa appartengono: come la volpe, appunto (sarà la volpe quando viene l’inverno).
Ma la volpe non è: non possiamo neppure dargli un nome. È qualcosa di diverso da noi, che forse si può chiamare amore, ma rimane comunque alterità, ci visita ma non si lascia intrappolare, come la volpe che d’inverno si aggira attorno alla casa (Sarà il mio amore che ha trovato la strada? come la volpe quando viene l’inverno sarà).
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Se esiste un punto di vista esterno, che come la volpe d’inverno non appartiene alla mia “casa”, è possibile scattare una foto: ed ecco, Quelli siamo noi. E cosa si vede, dall’esterno? Una «razza di vipere» che crede «di poter sfuggire all’ira imminente» (Mt 3). Un’umanità che è ferinità (guarda che zampe possenti, che denti, che schiena. Quelli siamo noi: guarda che fame e che velocità. Corri, bello, e ridi con tutti i denti. Quelli siamo noi: guarda che occhi e che pelle di cuoio. Guarda che bestie, che muscoli duri). Un’umanità che è ferinità fine a se stessa (che rincorsa e che polvere: corri, che siamo noi), senza scopo, direzione, orizzonte di senso: la giostra accelera i suoi giri e basta niente alla gente per volare giù, senza fortuna e sventura, né bene, né male, né caldo, né freddo.
Non resta che rivolgersi alla Santa madre dell’incertezza, l’unica divinità ancora riconoscibile, perché preghi per questo repertorio umano che non ha più calze né scarpe, né caldo né freddo, una Santa madre invocata perché sia in grado di pregare a nome nostro, perché se quelli siamo noi anche la preghiera ci è preclusa.
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Se la vera dimensione umana – svelatami dal fotogramma preso dall’esterno – è la ferinità fine a se stessa, dov’è l’interruzione della corsa, la fine della giostra, la via d’uscita? A ridare senso al bene e al male, al caldo e al freddo, può essere solo qualcosa che rifiuti la corsa senza senso e la ricerca del sé espressa dal grumo ferino, e si dia in nome del darsi. L’amore per amore. Qualcosa di totalmente diverso rispetto alla nostra condizione: eppure, con quel qualcosa, sentiamo confusamente di avere a che fare. Tanto che ne attendiamo non la venuta ma il ritorno, senza certezze di poterlo riconoscere. Se tornerà l’amore per amore, chi lo sospingerà alla mia porta, e riconoscerà? Che la luce di luna è poca, e poco si vede del mondo com’è. E quando arriverà, fratello mio, la giustizia per amore, chi la festeggerà nelle piazze e la conserverà nelle case? Che la luce di luna è poca, e poco sappiamo del mondo che sarà.
Un ritorno che sfamerà chi ha fame e sete di giustizia, consolerà gli afflitti, libererà i prigionieri, permetterà il ritorno degli esuli; verrà «a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61). Quando ritornerà con le sue gambe la gente indietro dal dolore, chi la riabbraccerà nelle strade e la saluterà sulle scale?
Non siamo noi a fare tutto ciò: l’Amore per amore si può solo attendere, con la sottile angoscia che è propria dell’attesa nel buio e del non sapere se sapremo attendere abbastanza a lungo. Ma pure, se invocato, l’Amore per amore lascia vedere qualcosa di sé: non nel fuoco e nel terremoto, ma nella nelle piccole cose della nostra quotidianità (e se ti chiamo io ti lego in questa luna, poco per poco – è un soffio, un sorriso, è a casa, è al lavoro, già sulla strada che torna da te), nell’attesa che la notte faccia spazio al mattino. Se tornerà, amore mio, l’amore per amore, io l’aspetterò fino al mattino e lo riceverò fra le braccia, quando la notte, la notte ormai già chiara, mi mostrerà il giorno che farà.
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Ma se torna l’Amore per amore, cambia tutto. Allora non è solo la casa a non esistere più: non c’è più neppure l’angoscia per il fatto che quella casa (in cui intendevo rintanarmi) non esiste. Allora la preghiera cambia, si può usare l’imperativo e il presente profetico. A quel Dio che «ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 2), e che può essere invocato come porta del mondo che gira in eterno, vento di sabbia che soffia in eterno, luce del mondo che veglia in eterno, si può chiedere di liberare e liberarci dal Male. Ora.
Noi, e soprattutto tutti quegli uomini che appartengono alle categorie in cui Egli si riconosce: quelli che con il passo lungo stancato dalla sete scappano da tutti i confini del mondo, da tutte le guerre, da tutta la fame, da tutto il fango: e ci chiedono qualcosa da bere, una pietra per riposare, una bussola per pregare. Troppo per noi? Non ne siamo capaci? Ecco che nasce l’invocazione: togli i piedi di quest’uomo dall’inferno, cancella i passi di questi figli dall’inferno, solleva lo sguardo di quest’uomo dall’inferno. Per sempre. Ora.
La Volpe è cantata da Ivano Fossati (e Teresa De Sio) nell’album La pianta del tè (1988). Fotogramma (quelli siamo noi) è cantata da Fiorella Mannoia nell’album Fragile (2001). Amore per amore 1991 è cantata da Fiorella Mannoia nell’album I treni a vapore (1992). L’Arcangelo è cantata da Ivano Fossati nell’album L’Arcangelo (2006).