«All’inizio dell’anno successivo, al tempo in cui i re sono soliti andare in guerra, Ioab, alla testa di un forte esercito, devastò il territorio degli Ammoniti…» (1Cr 20,1).
Come il tempo era misurato tra la stagione della semina e quella della vendemmia, così si scandiva il tempo facendo i propri conti con il sopravvenire della stagione delle guerre. Almeno nel contesto dei redattori dei libri delle Cronache, nel IV secolo a.C., la guerra non era né qualcosa da deplorare né qualcosa da esaltare. Sembra che produrre, vendere, comperare, oppure conquistare e saccheggiare ciò che altri hanno prodotto o comperato fosse considerato più o meno come la stessa cosa.
I grandi comandamenti «Non uccidere» e «Non rubare» si imponevano come regola dei rapporti interpersonali, mentre altra cosa era la questione dei rapporti fra le tribù e i popoli. Coloro che «fabbricheranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto», dovranno ritenersi benedetti da Dio (Is 65,21).
Per coloro che violano la Legge, sta scritta la sentenza: «Seminerete invano le vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici» (Lv 26,16). Se c’è pace, per il profeta Isaia, ciascuno può «mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico» e può «bere l’acqua della sua cisterna» (Is 36,16).
La guerra è uno dei tanti motori della storia, di cui Dio si serve per condurre il mondo ai fini da lui voluti. Se diventa oggetto di esaltazione, non è per motivi ideali, ma solo, quando riesce vittoriosa, come evento felice. Sarà deplorata sul fronte opposto solo perché la si è ingaggiata senza essersi dotati di una forza d’urto adeguata.
Nella lettura della storia della fede di Israele il momento della guerra è tempo di tentazione: affidarne l’esito ai cavalli e ai cavalieri, oppure alla protezione dell’Altissimo? La narrazione biblica dell’Antico Testamento è tutta tessuta di vicende guerresche e su questa trama viene ordita la grande attesa della salvezza: il messia «farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi» (Sal 46,10).
Ammantare la guerra
La guerra diventa esaltante e viene esaltata quando il suo scopo si riveste del manto di un nobile ideale. Il primo a farlo è l’aggressore. Le conquiste coloniali si decoravano del nobilissimo scopo di portare la croce di Cristo nelle terre degli infedeli.
La Russia di Putin invade l’Ucraina e il Patriarca di Mosca Kirill la onora del titolo di una guerra santa in difesa della «Santa Russia» dall’assalto del globalismo del mondo e del pervertito Occidente «caduto nel satanismo». Se ne riveste poi l’aggredito, innalzando la bandiera della Patria e del valore dell’indipendenza nazionale, ritenuto un assoluto e, quindi, irrinunciabile.
La vulgata sostenuta dai governi e dai mezzi di comunicazione sociale, che in situazioni di guerra solitamente le si allineano passivamente, mentre si instaura di fatto la censura sulle eventuali voci dissonanti li eleva a valori irrinunciabili, assoluti. Si fanno pesare artificiosamente sulla bilancia della vita le idee di patria, indipendenza, libertà più di quell’immane peso che è la massa dei morti.
Tanto risulta paradossale il confronto fra le idee, nobilissime e splendenti nel loro enunciarsi, e la brutale concretezza dei cadaveri ammassati, non per disprezzo ma per la forza delle cose, nelle fosse comuni, che i governi per conservarsi il consenso popolare si guardano bene dal rendere pubblico il numero delle vittime, sia militari che civili.
Una urgente decostruzione
Di fronte all’attuale dilagare delle guerre che stanno insanguinando il mondo, credo sia giunto il tempo di mettere in discussione l’assolutizzazione delle idee di Patria e di indipendenza nazionale.
Federico Chabot, nell’inverno 1943-1944, in mezzo al furoreggiare dei bellicosi nazionalismi, teneva a Milano un corso universitario memorabile, nel quale studiava il sorgere dell’idea moderna di nazione. L’idea di «nazione» come fatto spirituale spunta nella nostra cultura nel Settecento[1], nell’atmosfera caratteristica dell’illuminismo nella quale la politica tendeva a decorarsi della più alta razionalità, mentre lungo l’Ottocento, nel suo tipico clima romantico l’idea della nazione «si fa tumultuosa, torbida, passione trascinante e fanatizzante com’erano state, un tempo, le passioni religiose … La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra». Nasce il culto dei «martiri» per l’indipendenza, la libertà, l’unità della patria: «Gran mutare del senso delle parole! Per diciotto secoli, …martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra».
Don Milani nel 1967, accusato di apologia di reato per la sua lettera ai cappellani militare in difesa degli obiettori di coscienza, non potendosi presentare di persona in tribunale (muore poco dopo) scriveva ai giudici: «Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio».
È giusto si renda onore a chi, coscientemente e liberamente, decide di andare al fronte, mettendo in pericolo la propria vita per la libertà e l’indipendenza del suo popolo. Ma la retorica sempre praticata di attribuire onori da eroi alla massa dei coscritti, obbligati, con la messa in mora di tutte le garanzie costituzionali, pena il carcere se non la condanna a morte, ad andare al fronte, non è un’operazione onesta. Personalmente posso ricordare amici di famiglia che nei primi anni della seconda guerra mondiale si sono mutilati, pur di non dover andare al fronte.
Si potrà discutere all’infinito su chi abbia torto e chi ragione negli innumerevoli conflitti che disseminano di morte la terra di tanti popoli. Ma ciò che la coscienza cristiana oggi mi sembra imponga ai credenti in Cristo è un’opera coraggiosa di decostruzione del mito della guerra come momento in cui, in un modo o nell’altro, vengono esaltati i grandi valori della vita. È un andare controcorrente, non certo destinato a facili successi, ma «se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima» (Lettera ai giudici).
[1] Dopo l’8 settembre del 1943 teneva a Milano un corso sull’idea di nazione. F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, 1979, 61ss