De esu carnium

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alimentazione

Come può la vista sopportare / l’uccisione di esseri che vengono sgozzati e fatti a pezzi? Non ripugna il gusto berne gli umori e il sangue, / le carni agli spiedi crude? / Non è mostruoso desiderare di cibarsi di un essere che ancora emette suoni? / Sopravvivono i riti di sarcofagia e cannibalismo… (Franco Battiato, Sarcofagia).

È di questi giorni la notizia, cui ha dato spazio anche qualche nostra testata nazionale, della decisione presa dalle mense universitarie berlinesi di ridimensionare drasticamente la percentuale di carne servita nei piatti destinati agli studenti.

Seguendo di poche settimane l’iniziativa della Volkswagen che, nella sua storica sede di Wolfsburg, con il rientro dalla pausa estiva ha bandito currywurst e buletten dalla mensa della sede centrale, le trentaquattro mense e caffetterie universitarie di Berlino con l’inizio del semestre invernale proporranno agli studenti menù esclusivamente vegani e vegetariani, limitando ad una percentuale massima del 4% i piatti a base di pesce e di carne.

La decisione è stata assunta tenendo conto delle richieste e delle pressioni delle organizzazioni studentesche, che si sono fatte portavoce di una sensibilità sempre più diffusa nel mondo giovanile, tedesco e non solo. Motivazioni etiche e ambientali, ecologiche in senso lato, si intrecciano fra loro: da una parte la riflessione sulla violenza, dall’altra la consapevolezza dell’impatto deleterio che ha sull’ambiente il consumo di prodotti di origine animale.

È una svolta che dice di un importante cambio di paradigma, un segno che rende un po’ più vicini e concreti gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. È significativo che fra i giovani sia così sviluppata questa sensibilità: il futuro chiama attraverso di loro, e noi adulti abbiamo il dovere di ascoltarli. E per maturare in consapevolezza urge anche ripensare il verbo “mangiare”.

Mangiare

Il gesto del mangiare non è mai neutro. Cosa mangiamo, come mangiamo, quanto mangiamo: i pronomi e gli avverbi interrogativi che si uniscono al verbo mangiare raccontano sempre pezzi di storia – individuale e sociale – e incidono e decidono del nostro stare nel mondo. Gli esseri umani vengono al mondo segnati dal bisogno e dalla mancanza ed è anche grazie alla fame che, nel mondo, possono restarci.

Così come la percezione del dolore ci permette di cautelarci di fronte ai pericoli dell’esistenza, è la fame che, dando voce alla mancanza, accorda la sopravvivenza: il pianto del neonato chiama il seno che lo sfamerà. Ma il seno che sfama il neonato non è un asettico erogatore di sostanze nutritive, e già la prima poppata di colostro va a saziare bisogni che non sono di solo cibo.

Ogni volta che portiamo un boccone alla bocca torniamo a celebrare quella prima liturgia, e la vivanda che ci sfama mette a tacere un poco – fosse solo per il tempo breve della digestione – anche le nostre ansie e la nostra paura di trovarci soli in un mondo troppo grande per noi.

Mangiamo perché siamo esseri bisognosi. Mangiamo ciò di cui abbiamo bisogno: nutrimento, sì, ma anche affetto, cura, protezione, serenità, bellezza, fiducia, pace. Mangiamo perché una madre ci ha nutrito, e alla madre che ci nutre torniamo simbolicamente ogni volta che ci accostiamo alla tavola o accostiamo del cibo alla bocca.

Mangiare è rivivere la dimensione esperienziale del bisogno soddisfatto: Io sono tranquillo e sereno/ come bimbo svezzato in braccio a sua madre/ come bimbo svezzato è l’anima mia1.

Mangiare non è mai un gesto neutro perché ogni volta che mangiamo prendiamo pezzi di mondo e li mettiamo dentro di noi. Per stare nel mondo e continuare-a-stare nel mondo, per rimanere nel mondo, dobbiamo mangiare.

Chi ha assistito un malato nella fase terminale della malattia sa bene che uno dei segni inequivocabili dell’avvicinarsi della fine è il venir meno del desiderio di cibo e dell’istinto della fame. Attraverso la manducazione il mondo, ridotto a briciola e poltiglia, stabilisce con noi una connessione intima e vitale e si fa vita per la nostra vita. La violenza è in agguato, sempre; ma la cultura ci salva dal rischio della brutalità, e mangiare può diventare rito sociale, convivialità, festa. Eucaristia.

Sarcofagia

È questa la parola che troviamo nel titolo del terzo libretto della trilogia “animalista” di Plutarco2, tradotto in italiano Sul mangiar carne.

Più che prendere le mosse da Pitagora e soffermarsi sulle motivazioni che avevano indotto il filosofo di Samo a fare della astinenza dalle carni uno dei pilastri della propria scuola di pensiero, Plutarco si chiede “con quale sentimento, con quale disposizione di spirito o ragionamento logico il primo uomo toccò il sangue con la bocca, portò alle labbra la carne di un animale morto e, dopo aver imbandito le tavole di cadaveri e simulacri di vita, chiamò cibo e per di più prelibatezza quelle membra che poco prima muggivano, emettevano suoni, potevano muoversi e vedere”.3

La dieta carnea aveva potuto trovare giustificazione nell’epoca preistorica, quando l’umanità non aveva altro modo che la violenza bruta per procurarsi il cibo; ma, si domanda Plutarco, “quale furia, quale passione insana, spinge alla sete di sangue voi uomini d’oggi che così tante risorse avete a disposizione?”4.

Sostare davanti alle domande che Plutarco pone in premessa alla sua argomentata riflessione Perì sarkophagia potrebbe essere un aiuto per ripensare con maggiore consapevolezza il gesto del mangiare. Perché si può mangiare violentando il mondo con acritica leggerezza, sentendosi autorizzati dal carrello vuoto del supermercato a riempire le borse della spesa di tutto ciò che gli scaffali del centro commerciale ci mettono a disposizione.

Ma si può anche cominciare a portare il pensiero sugli abissi di violenza e sofferenza messi sotto vuoto dalla plastica che sigilla tranci di salmone e petti di pollo. E poi, forse, la domanda iniziale di Plutarco dovrebbe, oggi, essere riformulata in questi termini: “Quale furia, quale passione insana, spinge alla sete di sangue voi uomini d’oggi che non avete più a disposizione così tante risorse?”.

Che le risorse a nostra disposizione siano ogni giorno che passa sempre più fragili e sempre più a rischio, sono decenni ormai che gli esperti ce lo vanno ripetendo, e il clima impazzito di questa estate 2021 lo ha dichiarato a tutti a lettere di fuoco. Possiamo continuare a far finta di niente? Le nuove generazioni ci stanno dicendo di no.

«Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto».5


1 Salmo 131

2 Plutarco è stato uno dei grandi scrittori della grecità post-classica. Nato intorno al 46 d.C. e morto nel 127 d.C., è l’autore greco di cui ci è giunto il corpus di opere più numeroso, diviso in due grandi gruppi: Vite parallele e Moralia. Se la sua fama nei secoli si è legata soprattutto alle Vite parallele, per cogliere la varietà degli interessi di Plutarco e la ricchezza dei temi da lui affrontati basta dare una semplice scorsa ai titoli ricompresi nei Moralia: troviamo, infatti, scritti etici, politici, scientifici, di carattere pedagogico e religioso, di critica filosofica e letteraria, di erudizione, di poetica e di retorica. È fra gli scritti di ambito scientifico che si colloca una trilogia davvero interessante: De sollertia animalium, Bruta animalia ratione uti, De esu carnium. Smarcandosi dall’antropocentrismo dominante nel panorama culturale greco-romano dell’epoca, in questi opuscoli Plutarco si fa portavoce di una concezione del mondo che, oggi, non esiteremmo a definire “animalista”. Sacerdote del tempio di Delfi, Plutarco manifesta in tanti suoi scritti un limpido afflato religioso, ed anche le riflessioni legate al mondo animale e, in particolare, alla opportunità-necessità di mangiare o non mangiare carne scaturiscono da questa sensibilità.

3 Plutarco, Tutti i Moralia – Prima traduzione italiana completa, a cura di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Bompiani 2017, pag. 1921

4 Plutarco, op. cit., pag. 1923

5 Papa Francesco, Lettera Enciclica Laudato sì sulla cura della casa comune.

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  1. Tobia 20 ottobre 2021

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