Mi porto sempre dentro quanto insegnava un mio amico pedagogista abruzzese: «Gli occhi del Bambino[1] sono belli, ma sono anche vuoti: perciò essi vanno riempiti di conoscenze, di vita». È proprio così: educare non è solo il socratico “tirar fuori” quanto di buono c’è dentro l’interiorità del Bambino, ma è anche “metter dentro” di lui quanto di valido la comunità di vita in cui egli è stato accolto ha elaborato a tanti livelli, in primis la lingua: l’educazione è anche una traditio lampadis, come ha affermato un gigante della pedagogia moderna, il boemo Comenio.
Arrenderci dinanzi ad ogni Bambino
C’è comunque dell’altro: il Bambino, oltre che di ricevere, è capace anche di dare molto dal punto di vista educativo. Fortunatamente, oggi si riflette sempre più, insieme all’educabilità, anche sull’attiva capacità educativa del Bambino. Questo è vero soprattutto per Gesù Bambino. Soprattutto lui, per quello che è e significa,[2] non va mai oltrepassato: egli è piuttosto una meta. Non appaia fuori posto pensare che, per ognuno di noi, il massimo grado di dignità è nell’essere stato un Bambino: infatti, in questi c’è un’autorevolezza grande, dovuta a una serie di doni che egli possiede e gestisce spontaneamente. Ricordiamone solo alcuni: la spontaneità, la capacità di sorprendere, l’interrogare con lo sguardo, l’ammonire severamente con la sua innocenza…
Il Bambino pensa in grande
Ha destato grande curiosità, prima, ed enorme attenzione, dopo, un libro di Alison Gopnik, uscito in Italia alcuni anni fa, che ragionava sul Bambino “filosofo”,[3] per dire che egli mostra una logica tutta sua. Ad esempio, che per lui il mondo intero è un giocattolo (questo è vero soprattutto per Gesù, creatore del mondo insieme al Padre e allo Spirito), che tutto il tempo è festivo, che tutti – solo perché vicini – sono possibili compagni di vita.
Proviamo a contare quante cose storte e intollerabili sono spiazzate già dal poco che s’è detto finora del Bambino: egli testimonia la spontaneità (contro i nostri modi artefatti di vivere); un ritmo di vita diverso (contro la distruzione sistematica del tempo “umano”); una molteplicità di linguaggi (contro l’enfasi degli adulti su quello verbale); mentre mostra che si può insegnare il bello, il giusto, il vero, senza regole ferree o acciaiose (contro le nostre cento e cento rigidità d’ogni tipo); che si può imparare a pensare imparando, usando le mani, il corpo, i colori; che si può insegnare a guardare il mondo con occhi diversi (contro l’offesa ai simboli che viene fatta anche nella Chiesa, che di simboli forti essa vive e può vivere sempre di più, come ci mostra ogni giorno papa Francesco); mostrando, infine, che, mentre si scopre il mondo, è possibile scoprire se stessi.[4]
Gesù Bambino è maestro
Maria Montessori parla del Bambino in questi termini: «Il Bambino è un maestro. Questa è la verità che cerco d’indicare e questo è il fatto verso cui punto il mio dito… Questa non è certo una mia idea. Questa è una scoperta», affermava nel 1951, un anno prima della sua morte.[5] «Il Bambino – scrive altrove – è un maestro spirituale che può indirizzare gli esseri adulti a una nuova e più giusta vita sociale».[6] Ed ecco allora il suo appello: «Usciamo dalle scuole, andiamo tutti in processione nel mondo e proclamiamo che il Bambino ci apre una nuova porta che sta nelle nostre mani aprire per il bene del mondo».[7]
L’appello dell’importante pedagogista italiana, che peraltro si dedica estesamente all’educazione cristiana del Bambino,[8] riguarda anche i discepoli di Gesù che, da subito, è maestro: egli non è diventato sacerdote, pastore e maestro dopo la sua nascita, ma con essa. Ma Gesù Bambino come si è posto quale maestro? Egli ha mostrato una tenera sapienza, un dolce sapore di vita, una rassicurante bontà e lo ha fatto impressionando, stupendo, attraendo, motivando, creando reazioni di rimorso (la bontà mette in crisi), consolando, ingioiendo… Questa la sua didattica disarmante e seducente.
Gesù Bambino non è insegnante
L’affermazione che il Bambino, in generale, è maestro ma non insegnante appare strana perché, di per sé, chi ha il più deve avere anche il meno. Chiunque insegni ha un diritto, perfino legale, ad essere chiamato insegnante, ma il titolo di maestro (di cui Tommaseo con enfasi evidenzia il suo significato di magis-ter: uno che tanto più grande di altri) è un titolo che si merita sul campo: tanti insegnano filosofia, teologia, pedagogia, ma non per questo li si chiama filosofi, teologi, pedagogisti.
Ebbene, Gesù Bambino non ha il meno (non è insegnante), ma ha il più (è maestro). Gesù nasce maestro, ma dovrà diventare insegnante. Perché non lo è? Perché, come insegnante – come ogni altro Bambino – deve crescere la sua capacità osservativa, intuitiva, ragionativa e perfino – a certe condizioni – la sua coscienza messianica. Anche Gesù Bambino – benché sia già «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) – non conosce strade da indicare (o in-segnare); non possiede conoscenze, competenze e capacità acquisite con le dovute esplorazioni, con i necessari incontri e con le inevitabili regole, sotto gli archi dei tempi giusti; non ha maturato sapienze nelle lunghe estensioni dell’esperienza; non è ancora capace di una pedagogia intenzionale esplicita che permette di dare direzione al dire e al fare; non conosce un codice linguistico strutturato che lo faccia comunicare nell’incontro interpersonale né un codice linguistico elaborato che gli permetta di esprimersi con gli alfabeti specifici dei diversi saperi, sempre complessi perché frutto e risorsa di molte mediazioni. Tutto questo lo imparerà con l’aiuto essenziale di sua Madre, che di lei sarà discepola per un verso,[9] ma anche maestra nell’aiutarlo a farsi uomo.[10]
Dinanzi a Gesù Bambino con riverenza
Per mettersi dinanzi a ogni Bambino occorre pulirsi gli occhi, sgombrarli, illuminarli con un’innocenza almeno riconquistata e penitente. Poi bisogna disporsi a osservare i modi sottili con cui comunica. Poniamoci ora dinanzi al Piccolo di Dio, già solo perché è Bambino, con la «massima riverenza», come chiedeva il poeta latino,[11] Mi ha molto impressionato e mi è molto piaciuta l’osservazione di una delle donne culturalmente più raffinate del Novecento italiano, Cristina Campo: «C’è chi s’è convertito – scrive – vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro. In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare la vita».[12]
Lei frequentava le liturgie dei benedettini di San Gregorio al Celio, in Roma, e parlava di sé, che, è arrivata alla fede passando per la via della bellezza, esteta qual era. Ma, col tempo, ho fatto riserve sulla piena bontà di quella espressione, in tanta parte vera, secondo cui, ai nostri giorni, «l’uomo […] non sa più chi, non sa più che cosa riverire»… No: i santi, i profeti, i poveri… i bambini ci sono sempre e meritano comunque alta riverenza. Perciò, proprio con riverenza – anche credente – sostiamo dinanzi a questo Bambino maestro per lasciarci educare anzitutto dalla sua presenza intricante e sconvolgente.
Gesù Bambino crea festa e mette gioia
Il Bambino crea sempre festa, sempre, di per sé: dura perciò ancora la “Festa di Natale”, nonostante che essa venga contraddetta e alterata nei suoi messaggi più veri. Anzi a Natale, il cristianesimo – che lì comincia [13] – nasce festivo. Ricordo ancora con commozione quando, preside dell’Istituto teologico abruzzese-molisano, mi recai alla mia amata Università Gregoriana, per chiedere al suo rettore, Carlo M. Martini, se fosse venuto ugualmente a Chieti a parlare sulla Dei verbum (l’avevo invitato all’Istituto teologico), essendo stato nominato arcivescovo di Milano da circa una settimana. Avuta la sua risposta, mentre chiamava l’ascensore per tornare nella sua camera, osai dargli in omaggio una copia del mio primo libro, uscito alle stampe qualche giorno prima. Egli lo prese, lo guardò e disse: «Che bello…». Si riferiva al titolo: Un cristianesimo festivo. L’esclamazione di quel grand’uomo di Chiesa l’ho echeggiata per tanti anni dentro di me, pensando che occorresse presentare il cristianesimo come una religione intrisa di una festività che dura fino in Cielo. Il cristianesimo è per sempre segnato dalla gioia, dalla festa, dalla letizia dovute al canto intonato da quel Bambino col suo tenerissimo sillabare e con i suoi gridi di pianto.
Gesù Bambino educa con la sua presenza
Gesù a Betlemme ha comunicato, come Bambino, anzitutto con la sua presenza: come un essere di dono (ci rendiamo conto che in noi e di noi tutto è grazia?); come un essere fragile (pensiamo qualche volta che siamo perennemente creature a rischio in tutti i sensi?); come un essere affidato (ci basterà la vita a capire che siamo essenzialmente consegnati alla cura benevolente di altri?); come un essere passivo (come ogni altro Bambino, Gesù di Betlemme ha bisogno di tutto, è nelle mani di altri, soprattutto nelle mani sante e dolcissime di Maria sua madre: egli mostra la “buona passività”, cioè che è tanto divino il dare che il ricevere e, per noi, che è tanto degno il ricevere che il dare); come un Figlio essenziale (non finiremo mai di penetrare nella gioia di avere lo stesso Padre e la stessa Madre di Gesù); come un Fratello necessario (non molto è insistito nei servizi della Parola che questo Bambino, come il futuro Crocifisso, è il nostro Fratello buono che ci rende figli del Padre). Egli soprattutto ci educa ingioiendo con la sua piccolezza, intenerendo con la sua dolcezza, attraendo col suo sguardo, rallegrando col suo stupore.
Gesù Bambino e la lingua del grido
Gesù Bambino, come ogni altro Bambino, paradossalmente è in-fans e poliglotta; egli, infatti, oltre agli altri particolari alfabeti usati di cui s’è detto finora, usa altre tre speciali lingue: il sorriso, il pianto, il grido. Per motivi particolari legati alla sua persona, quel grido fa pensare molto. Infatti commemora: il grido di Adamo (non è chiusa la questione dell’uomo: il grido, che scaturisce dal “guazzabuglio” del suo cuore, non si seda mai, essendo il figlio di Adamo perennemente inquieto finché non riposa in Dio).[14]
Il grido del Bambino Gesù echeggia anche il grido di Abele (questo è un “grido” dall’eco lunga, perché è elevato da tutti i conculcati della storia che invocano giustizia contro tutte le arroganze, le tracotanze, le supponenze subite, senza dimenticare, fra esse, quelle sottili prepotenze che nascono dalle omissioni interessate che si subiscono quando l’autorità non interviene per difendere il più debole ingiustamente umiliato).
Inoltre, il grido di Gesù Bambino profetizza gridi molto severi: il grido di Lazzaro (egli è l’icona delle turbe dei poveri che stazionano o passano ai bordi del grande banchetto della creazione, nella quale l’ottanta per cento dei beni è nelle mani del “ricco Epulone”).
Infine, il grido di Gesù bambino annuncia il grido di Giobbe, che percorre tutta la storia e l’intera geografia dell’uomo e la sua triste eco è dentro ogni lamento, ogni pianto di chi soffre senza ragioni umane evidenti. Tuttavia Giobbe è una figura paradossale poiché, da personaggio-simbolo della sofferenza e del dolore ingiustificati, può essere considerato anche un essere luminoso e il suo grido può simboleggiare anche quel grido segnato da speranza, che esce dal petto innocente di Gesù Bambino.[15] E con questa cifra duplice ci piace chiudere questa meditazione su Gesù, Bambino maestro, che ha in nuce – in sé e nei suoi linguaggi – tutti i suoi misteri, anche quello insanguinato della Croce.
[1] Avverto in apertura che, parlando del Bambino (non solo del Bambino di Betlemme) userò la maiuscola, come insegna a fare Maria Montessori, la più importante pedagogista italiana del Novecento, alla quale ci si riferirà più avanti.
[2] La parola Bambino (bambaíno o bambàleo o bambalyzo) significa: balbetto. In genere il balbettare si dà con l’uso delle labbiali, quelle maggiormente usate sono: B –P – M.
[3] Cf. Il Bambino filosofo. Come i bambini ci insegnano a dire la verità, amare e capire il senso della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2010.
[4] Cf. F. Lorenzoni, I bambini pensano grande, Sellerio Editore, Palermo 2014.
[5] Cf. The child, our master. Discorso conclusivo al 9. Congresso internazionale Montessori, Londra, 19 maggio 1951. – Già pubbl. in: Around the child, 8 (1963), 1-4.
[6] Il metodo del Bambino e la formazione dell’uomo, Opera Nazionale Montessori, Brescia 2001, p. 66.
[7] The child, our master…, in Around the child, 2.
[8] M. Montessori, I bambini viventi nella Chiesa, Alberto Morano Editore, Napoli 1922; La vita in Cristo, Stabilimento Tipolitografico V. Ferri, Roma 1931; La Santa Messa spiegata ai bambini, Garzanti, Milano 1949 (I edizione inglese con il titolo Mass Explained to Children, 1932).
[9] M.G. Masciarelli, La discepola. Maria di Nazaret beata perché ha creduto, Lev, Città del Vaticano 2001.
[10] M.G. Masciarelli, Maestra. Lezioni mariane a Cana, Lev, Città del Vaticano 2002.
[11] è di Decimo Giunio Giovenale la locuzione «Maxima debetur puero reverentia» (Al fanciullo si deve il massimo rispetto), che ha attraversato i secoli convincendo molti (Satire, XIV, 47).
[12] Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, p. 130.
[13] Lo sappiamo: il cristianesimo è la persona stessa di Gesù (cf. R. Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1962).
[14] S. Agostino, Confessioni, I, 1.
[15] C’è chi ha parlato della «luce di Giobbe» (P. Pifano) poiché nella sua persona e nelle sue scelte brilla la luce della fede: Giobbe si spinge a dire di Dio (contro il quale la moglie e gli amici lo spingevano a ribellarsi): «Anche se egli mi uccide, credo in lui…». Giobbe, con la sua logica credente, ha ragione; del resto, non dipende dall’uomo né l’oggetto della fede né quello della speranza, ma solo da Dio. È questo il senso centrale “giobbismo” di Mario Pomilio (nato a Orsogna-CH, 14 gennaio 1921): egli, nel suo noto romanzo II Natale del 1833 (Rusconi, Milano 1983), il cui protagonista è Alessandro Manzoni, ne legge il dolore sulla scia del pensare, del dire e dell’agire di Giobbe. Alla fine il Dio duro della prova coincide col Dio della consolazione, afferma nel romanzo: «Egli non si stanca di numerare le nostre lacrime e di metterle in conto dei nostri meriti» (p. 77).